a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo

 

[La risposta al questionario di Nathalie Quintane e Rachel Lamoureux prende la forma di una corrispondenza tra Francia e Canada, tradotta da Michele Zaffarano.]

 

Nathalie Quintane

Dicembre 2022

 

Mi ricordo che quando ho iniziato a lavorare sul noi, sul pronome noi, e quindi per forza di cose su di noi, su di noi poeti, la prima cosa che ho notato la posso riassumere tirando in ballo i soliti giochini d’insiemistica che si fanno a scuola, e cioè da una parte c’è l’insieme del noi inclusivo e, dall’altra, quello del noi esclusivo, e questo giochino sotto sotto sarà capitato pure a me di riprenderlo e di rifarlo (nel senso di ingannare, falsificare), per creare le condizioni in base alle quali il cosiddetto noi inclusivo potesse comprendere tutti i poeti, quindi anche quelli nemici, e nel noi esclusivo ci potessimo contare solo noi, noi amici, noi senza tutti gli altri, noi cioè senza tutti quelli che non capiscono le cose che stiamo combinando qui, in poesia, e che pensano che magari sarebbe meglio che ce ne andassimo a stare molto più tranquilli da qualche altra parte (sì, però, la domanda è, appunto: dove?).

Da lì, la situazione è cambiata, e parecchio. Tutti quanti, cioè tutti quanti i noi, tutti quanti questi noi ormai decisamente consunti, si sono ritrovati spintonati e spostati un po’ più in là. E le cose si stanno ancora muovendo, libro dopo libro, intervento dopo intervento, traduzione dopo traduzione. Certo, continuano a non esserci dei «gruppi letterari», o delle scuole, però i circoli che si costituiscono per affinità si sono stretti in collettivi più chiusi e più solidi di quanto non avremmo mai pensato possibile negli anni Novanta, quando si navigava a vista, e si passava di rivista in rivista, con grande prontezza e disinvoltura.

 

*

 

A novembre del 2022, mi arriva il libro di Rachel Lamoureux, À quoi jouons-nous, pubblicato dalla casa editrice canadese Le Quartanier. Rachel ha ventisei anni, e questo è il suo primo libro. Il testo comprende una serie di poesie, precedute da una specie di dedica di tre pagine, la più lunga che io abbia mai ricevuto. È uno scritto appassionatissimo, preciso e senza tentativi di adulazione. C’è in particolare un passaggio che mi colpisce, e su cui mi soffermo, ed è il passaggio più critico – ma è così che dobbiamo andare avanti: ascoltare sempre e con attenzione le cose e le persone che ci feriscono. Ecco il passaggio:

Questo libro ci ha messo un anno e mezzo a essere pubblicato, un anno e mezzo nella vita di una giovane ventenne come sono io è dire quasi mille anni, ed è un libro pieno di pathos e di lirismo, anche se non è abbastanza politico nel senso delle scritture del reale e dell’attualità, però io sono wittighiana, e a Lei, Nathalie, Wittig piacerebbe, la dovrebbe leggere, non penso che l’abbia mai letta, altrimenti nei suoi libri verrebbe fuori, la citerebbe.

 

Mi sento subito chiamata in causa: non ho letto Monique Wittig, e dovrei, o probabilmente avrei già dovuto, leggerla.

Quindi Rachel ha ragione. O quasi.

Avevo letto L’Opoponax parecchio tempo fa, e l’avevo trovato un libro formidabile. Fresco e dirompente come quelli di Hélène Bessette.

Solo questo. O quasi.

 

Una decina d’anni fa (come passa il tempo), Benoît Auclerc, un mio amico nonché ex studente di Jean-Marie Gleize, mi regala, di Monique Wittig, Le Chantier littéraire, di cui ha appena curato l’edizione per le Presses Universitaires de Lyon. Il libro finisce a un certo punto sul tavolo. Presenti, ci sono Jean-Pierre Cometti, e gli amici della casa editrice Questions téoriques. Jean-Pierre, anche se è un filosofo (scherzo!), ha un posto importantissimo nel nostro piccolo gruppo – ed è importante anche molto oltre il nostro piccolo gruppo. È uno specialista di Wittgenstein e ha fatto un lavoro considerevole di traduzione e curatela delle opere di John Dewey. Per farla breve, è la persona che ha introdotto il pragmatismo statunitense in Francia. Rapidamente, a partire dagli anni Duemila, alcuni elementi di questo discorso pragmatista cominciano a diffondersi e poi a cristallizzarsi, in particolare nelle scuole d’arte, e in quel settore limitrofo che è la poesia influenzata dall’arte (e viceversa), nelle sue varie forme più o meno nuove, installazioni e video, per esempio. Attraverso un particolare metodo, quello dell’inchiesta, una parte della poesia si ripoliticizza (diciamola così, in maniera un po’ sbrigativa) interessandosi ai fatti di cronaca, alla vita materiale e ai linguaggi del quotidiano.

 

Jean-Pierre si accorge del libro di Wittig che sta appoggiato sul tavolo, si spazientisce e lo spazza via con un gesto della mano: ma che cosa ti viene in testa di leggere queste cose?

Io accuso il colpo. Dopo che se n’è andato, lo rimetto sullo scaffale della mia biblioteca, e non ci penso più.

Quando scrivo a Rachel dopo aver letto la sua dedica la prima volta, le parlo di un lapsus:

All’inizio, al posto di wittighiana, ho letto wittgensteiniana…

Tutto quello che volevo era includere naturalmente Wittgenstein nel mio noi, o meglio in quel nostro noi che era diventato oramai così obsoleto.

Insomma, si è creata una frattura, e adesso mi sento costretta a esplorarla, questa frattura.

Leggo alcuni passaggi delle Guerrigliere, del Corpo lesbico e, in ultimo, dello Chantier littéraire.

 

La prima cosa che mi viene da pensare è che Wittig sta dicendo delle cose poetiche (nel senso forte del termine), però partendo dal romanzo dei suoi anni, cioè il nouveau roman. C’è uno sfasamento strano. Non posso che dirmi d’accordo su alcuni punti (e non stupisce che Rachel, che Wittig l’ha letta, e a fondo, mi abbia riportato alle mie mancanze, o a quelle che sono le mie mancanze sotto quel profilo): la materialità della scrittura, i discorsi come sincronizzazione di un senso stretto, di un senso sociale, il cantiere letterario come spazio caotico in cui si costruiscono libri, la necessità di un ritorno del politico in letteratura, eccetera. Altri invece mi danno un po’ fastidio, come per esempio quando si parla dell’opposizione tra un linguaggio non ancora lavorato e un linguaggio «essenziale» o poetico; o come l’allusione a un linguaggio primo di cui il dizionario ci dà solo un’idea approssimativa, un linguaggio in cui il senso non si è ancora esplicitato, e che è di tutti; oppure ancora il modo in cui viene a cadere la barriera tra significante e significato, il che mi ricorda subito Tarkos (significante = significato, per esempio nel suo libro Le Signe =). Trovo questa idea di linguaggio primo assolutamente ingenua, e soprattutto male informata rispetto a tutto quello che è successo in poesia dall’inizio del Novecento — lo Zaum, la Ursonate, le glossolalie di Artaud, e così via. Quanto all’identità tra significante e significato, si sente troppo il risentimento, il rancore dell’epoca contro la psicanalisi e, in particolare, contro il significante-padrone, vale a dire Lacan. Tarkos, lettore di Deleuze-Guattari più che di Lacan, è, su questo aspetto, un erede. Anticipandolo in qualche modo, Wittig parla di «pasta» (p. 116), trent’anni prima che il concetto stesso tarkosiano di «pasta-parola» s’imponesse (io ho sempre inteso Patmos, il titolo di Tarkos, in relazione a questa pasta, Patmos, la grotta dell’Apocalisse… ma sto uscendo dal seminato, scusatemi). Non credo che dissociare il significante dal significato sia un’operazione che appart[enga] esclusivamente alla linguistica e non tocchi per niente la letteratura. Pensiamo a Joyce. Pensiamo a Pierre Guyotat. Wittig finisce comunque per imbrogliarsi un po’ nella sua stessa spiegazione, ed è quando afferma che il significato ha bisogno del significante per manifestarsi, e due pagine più avanti (pp. 119-120) scrive che il significato appartiene anche all’ordine materiale, sebbene in forma diversa, una materia duplice, allo stesso tempo corpuscolare e ondulatoria, allo stesso tempo parola e lettera, significato ma in altra forma, senza che si sia nemmeno sicuri di poterla mai fare apparire, la forma. Secondo me, questa metafora illuminante, se la sarebbe proprio potuta evitare.

 

Bilancio: in Wittig ci sono delle cose da prendere e delle cose da lasciare. Per Rachel invece si dovrebbe prendere tutto. Anche per AH.[1]

Trascrivo qui uno scambio recente di messaggi (appunto) con AH.

 

NQ Wittig non mi ha convinta

Françoise d’Eaubonne invece non è male

 

AH Adesso sei diventata nemica del tuo genere

In controcorrente rispetto ai tuoi tempi

Tanti auguri

 

NQ Lo so, ne sto giusto discutendo con una filo-Wittig totale, Rachel Lamoureux, però davvero, non è che mi posso forzare

Non lo so, a un certo punto dovremo pure arrivare a un minimo di pensiero

Almeno d’Eaubonne due o tre cose riesce a metterle assieme, è già qualcosa

Butler ancora ancora, anche se mi sa che non è (più) di moda

 

AH Che cosa hai letto di Wittig?

 

NQ L’Opoponax, ovviamente. L’inizio delle Guerrigliere, non è proprio sulle mie corde, però ci sta. Le Chantier littéraire, una palla

La sua fede nella letteratura, la restaurazione dell’autore: sti cazzi

E la sua idea di genere universale, ecco, quella proprio non funziona. Mi dispiace

 

Lo scambio si ferma qui

Alcune frasi di AH continuano però a girarmi nel cervello:

Adesso sei diventata nemica del tuo genere

In controcorrente rispetto ai tuoi tempi

Tanti auguri

 

Cerco di giustificarmi: ma certo che l’ho letta!

Soltanto, non faccio più parte del loro noi. Mi consolo dicendomi che il tempo passa, lasciamo spazio ai giovani, eccetera.

 

Poi però mi viene in mente che Rachel ha risposto abbastanza lungamente alla mia prima mail (Rachel è una secchiona, in senso buono). Mi ha addirittura allegato un breve articolo che aveva scritto proprio sullo Chantier littéraire. Lo leggo, ed è interessante, parecchio interessante. Parla dell’indigesta poesia del Corpo lesbico; e qui un po’ ci riconciliamo. Ok! Poi spiega che Wittig, nella sua tesi che pubblica tardi, quando ormai già vive negli Stati Uniti, si fonda su certe strutture protosovversive (nouveau roman, tesi creativa) e passa dal conformismo assoluto del classico docente universitario alla rivoluzione radicale. Relativizza il ruolo (sproporzionato secondo lei) giocato da Nathalie Sarraute in tutta questa storia, e ricorre a una citazione per spiegare come la parola mette in atto il fare, perturba lo stato delle cose, tocca i corpi, e riorganizza lo spazio fisico. Poi, in una seconda mail, Rachel mi scrive alcune parole che non posso fare altro che sottoscrivere: tutto questo non deve essere plausibile (…) o valido da un punto di vista fenomenologico… E aggiunge che Il corpo lesbico non ha come scopo programmatico quello di indicare i modi con cui sovvertire il genere dal punto di vista estetico…, puntando quindi il dito sui limiti della critica butleriana. Ai miei occhi, però è assolutamente chiaro che la Wittig migliore è quella che produce letteratura, tanto che finisco con il domandarmi se non sia magari necessario che i poeti e gli scrittori non comincino a esprimersi come ha fatto lei, o addirittura come faccio io qui. Dobbiamo davvero sempre allegare le istruzioni per l’uso? Il fatto è semplicemente che, per farlo, occorre coniugare un noi. Un noi molto più sicuro e solido del noi (implicito) che fluttua, lesto e disinvolto, nei testi. Un noi tattico. E quindi per forza di cose un noi negoziatore, calcolatore e conciliante. Non che il noi della “creazione” sia più puro (questo non ci interessa minimamente): anzi, oserei dire che è più mescidato.

 

*

 

Certo, questo noi così fragile che, nelle righe che ho appena steso, ho cercato di rammendare, persiste a rimanere tale (cioè, appunto, fragile). E ci sono altri elementi del discorso che continuano ad arrivarci (altri elementi di linguaggio, come direbbe chi si occupa di comunicazione); sta a noi, a questo punto, impegnarci a scavarli, a metterli a nudo, a riprenderli per noi, per essere magari più forti, e soprattutto per non essere troppo sbrigativi, insomma per darci un taglio, ma che non sia un taglio buttato lì così, a caso.

 

— — — — — —

 

rachel lamoureux

io è il resto di un mondo tagliato fuori da sé stesso

come quando si dice che lui (il mondo) era tagliato fuori

dalle sue emozioni (io)

 

ma non c’è più comunicazione

definitivamente in mano ai mercanti

ma le cose che vediamo sono sempre di meno

la comunicazione è ciò che si muove

è la merda a invaderci non le immagini

quando non si muove niente è la pornografia

nanni balestrini, caosmogonia

 

ce que nous sommes, c’est de là que nous venons.

alban lefranc, si les bouches se ferment

 

la poesia del noi è quando me ne sto al salone del libro di montréal con in mano mutinerie et autres textes di ulrike meinhof (éditions des femmes, 1977) e voglio passare un po’ di tempo a parlare con alain farah, la popstar letteraria del québec costretta a firmare ininterrottamente per ore copie del suo libro verde pubblicato da le quartanier (MSMD)[2] senza mai potersi fermare nemmeno a bere un goccio d’acqua o per andare a pisciare, mentre io, la pop-tart-poeta del libro lilla (AQUOI),[3] pubblicato sempre da le quartanier, me ne rimango seduta al mio tavolo delle dediche a passare il tempo leggendo pomodori di nathalie quintane, in attesa di poter parlare con lui, ed ecco che, a quel punto s’impone manu militari uno stratagemma.

mi ero portata la mia copia di pomodori di nathalie quintane ripubblicato nella collana degli economici points perché lo volevo rileggere per la tesi di laurea (in europa dicono master, e per questo non ci prendono al colloquio internazionale su monique wittig: 20 anni dopo, ah ah ah), per la mia tesi di laurea à la québecoise sul suo libro crâne chaud (2012), che è il libro uscito dopo pomodori (2010), e che però a differenza di quest’ultimo non ha potuto giovarsi dell’etichetta di «politico», perché è politico solo se parla esplicitamente di politica, e se non parla esplicitamente di politica non è politico. ma dove eravate, tutti quanti, durante le lotte femministe del secolo scorso? attenzione, ragazze, ci stanno servendo lo stesso piatto maschilista riscaldato, cioè ci vogliono far passare questo libro per un libro non politico sul porno, e allora sapete cosa vi dico, sti cavoli, decido di presentare alle grandi istituzioni che in québec e in canada erogano fondi un progetto serissimo e pulitissimo su poesia porno e politica: voi mi finanziate (please) e io passo a spiegare all’ambiente accademico e letterario che poesia letteratura porno sesso amore, è–tutto-quanto-politico, quasi, se non addirittura più dell’affaire tarnac. e, miracolo, tutti in coro, inaspettatamente mi finanziano.

a quel punto alain (farah), che adoro ma che immagino abbia qualche difficoltà a interagire con me (è comprensibile), mi dice, puntando lo sguardo di traverso e da così in alto che gli occhi gli escono dalla cornice degli occhiali per finire direttamente sul libro d’occasione (meinhof) appoggiato lì di traverso sul tavolo delle dediche, mentre scrive una dedica sulla mia copia di pomodori, a pagina 66, dove per la cronaca viene citato perché anche lui ha lavorato su quintane negli anni dieci del secolo in corso, mi dice:

 

ah sì, ammazzare la gente.

 

*

 

ne approfitto per dirgli che quintane ha letto il mio libro, e la frase lo sorprende, mi pare, però non tanto quanto la sua frase a proposito di meinhof sorprende me, e lì balbetto qualcosa del tipo: ma tanto la gente poi muore lo stesso, e prima ancora che lui pronunci una sola parola so già in anticipo che la mia risposta sta cadendo nel vuoto, un po’ come il mio libro.

e allora sfrutto questo mio spazio qui per spiegarmi, più sul piano concettuale che non su quello teorico, perché di teoria, anche meno. succede un po’ alla teoria quello che succede al biografismo – una vuole rimanere sul pezzo, però a furia di detestare le caricature, finisce con il detestare anche gli originali, cioè gli elementi testuali che servono a crearle, queste caricature. lo voglio dire qui e non da qualche altra parte: salviamo i concetti dalla teoria. deleuze & guattari dicevano che «[l]a libera creazione di concetti determinati ha bisogno di un gusto del concetto indeterminato»,[4] e anche che «[i] concetti devono avere contorni irregolari modellati sulla loro materia vivente».[5] la poesia sarà irregolare e senza contorni, oppure non sarà. in fondo, e tutti quelli per cui nutro della stima lo sanno (penso a jean-françois hamel, a philippe charron, ad alexie morin): io sono un po’ la caricatura di quintane, però con una piega wittighiana, il che può risultare francamente un po’ strano. la piega wittighiana è quella che salta fuori quando si vuole scrivere partendo dalla rabbia e dalla collera del sangue freddo, dall’impassibilità tattica che nasce dalla disperazione. quando si cerca la performance un po’ leccata e appiccicosa costruendola da dentro codici che sono legittimanti perché non innati, quando si tenta, in maniera un po’ umiliante e ridicola, e forzata, di riuscire nell’impresa partendo da un io di campagna, da un io da squallido tugurio, da un io che si muove stolidamente all’interno di una comunità «di ricezione o […] di marcatura»[6] che non vorrebbe mai vederci andare via, come dice bailly nel suo bell’articolo intitolato “nous” ne nous entoure pas. un io che invece è stato capace di andarsene e di scapparsene dalla galera familiare, da tutto il bordello identitario, e che si è costituito come elemento di instabilità, di destabilizzazione, perché un io agente del caos è sempre meglio di un io agente della legge e dell’ordine, di un io sbirro, fissato, unificato e insulare, di un io liscio, di un io talmente pieno di sé stesso da non sopportare più che il mondo nella sua interezza non sia lui, e che cazzo.

una persona diventa matura, mi dice la mia psicanalista, quando diventa il genitore di sé stessa, (un io che si digerisce il noi di ricezione, ovviamente con molta fatica), però che cosa si fa se i genitori sono delle nullità, dei carcerieri o degli analfabeti? l’opopo, di wittig, è la maturità dei bambini però senza la stupidità dei genitori (riaffermata per ventriloquio dalla stupidità collettiva). è il lesbianismo impossibile in una società arretrata che in nome dell’autorità (del potere) detta oppure ostacola i possibili divenire interminati/interminabili di soggetti decisamente privi di nostalgia nei confronti dell’intimità batailliana perduta, o della metafisica, o di dio e dell’indicibile, soggetti che si trovano semplicemente in difficoltà a furia di vedersi mettere i bastoni fra le ruote, e di essere così tanto intr(io)ettati (come direbbe marcuse tradotto da wittig) dalla cavalcata capitalista che ci ostacola tutti quanti noi, noi che siamo irregolari, conflittuali e dinamic*, noi che siamo collegat* tra noi, deliberanti e capaci di sincronizzare i nostri orologi «sull’ora dell’uscita […] sempre (ri)cominciante»,[7] come dice bailly, che a me continua a piacere perché ha ragione non solo sulla carta ma anche nella vita, e su questo ok, tutt* d’accordo.

 

*

 

leggo quintane che non ha letto wittig. le scrivo per scusarmi del fatto che sono quella che sono e che ho scritto quello che ho scritto, per scusarmi a nome di tutt* quant* del fatto che tutt* quant* siamo quello che siamo, perché quello che siamo fa capire da dove veniamo, e invece bam, finisce che ferisco una persona a cui voglio bene proprio a causa di questa mia franchezza, di questa mia goffaggine, proprio a causa di questo mio desiderio di noi, di un noi cresciuto a furia di leggere i suoi libri, libri che sono per me, come le dicevo in una delle nostre mail, un luogo allo stesso tempo ostile e familiare, un luogo in cui sento di poter essere me stessa, senza infiorettature o cerimonie, e in cui però ci si aspetta da me una vigilanza estrema su tutto quello che riguarda le idee & il loro impiego; i suoi libri, sparsi qua e là sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche, [sono] degli isolotti che ci permettono di sopravvivere, dei dispositivi di messa in ridicolo della soggettivazione, e li possiamo accogliere solo se siamo in grado di ammettere che il fatto di accoglierli implica il fatto di essere trascinati in uno stato molto complesso di vivacità, in cui i termini delle equazioni dialettiche vengono sì posti, ma senza soluzione, perché le soluzioni restano sempre da trovare, e uno deve sempre ripartire e rimettersi a cercarle. mi cito da sola, perché lei, al contrario di me, è fin troppo modesta, e io vorrei soltanto che venisse letta di più e meglio.

lei dice che «tocca sempre ascoltare con attenzione le cose e le persone che ci feriscono». non sono poi così tanto sicura che ci sia un noi, un noi suo & mio, un noi di wittig & di me, mi pare di poter invece dire che esistono dei miasmi d’intensità, delle frequenze radio che per un momento passano e poi non passano più, poi tornano e alla fine se ne vanno via di nuovo. la scrittura poetica non corrisponde tanto a un conflitto tra lirici e pragmatisti, ma a qualcosa di completamente diverso, vale a dire corrisponde a me che me ne sto collocata alla confluenza tra mostri e coglioni,[8] e quindi in fondo non me ne sto collocata da nessuna parte. il noi dovrebbe corrispondere (qui lo voglio proclamare) alla rete di tutte le conflittualità, alla conservazione della traccia, alla possibilità di essere recuperata da una comunità esterna diversa da quella da cui provengo, magari addirittura coincidente proprio con quella verso cui mi sto muovendo, e questo sia che da tale comunità io venga accolta sia che da tale comunità io venga rifiutata, sia che venga esaltata sia che venga svilita, sia che provino ammirazione nei miei confronti sia che cerchino di dimenticarmi. è alain quando mi firma la copia del libro di quintane e in me vede meinhof, e quindi in me vede una terrorista. sono io quando durante un seminario mi metto a strillare contro philippe a proposito di francis ponge e del suo atteggiamento da uomo bianco avvallato da picasso che svaluta assolutamente la scrittura del sé, e sono ancora io quando continuo a parlare di wittig, con philippe che mi dice, ma non con queste esatte parole, perché lui è una persona tranquilla educata e gentile: da dov’è che tiri fuori adesso tutta questa foga, tutta questa monique wittig, tutti questi saperi situati?!? è nathalie quintane che ferisco con la mia dedica di tre pagine in cui sminuisco il mio libro sminuendo me stessa, perché è parecchio difficile negoziare con il proprio io passando attraverso tutti gli altri. ed è jean-françois che non sa più come pilotare il bambino selvaggio che di regole e di codici di educazione, o di creanza, non ci capisce niente. è jean-françois a cui scrivo continuamente di tutto e di niente, mail fiume e manoscritti di centinaia di pagine (parliamo del mio manoscritto intitolato la carta piena di rosso), e oltretutto sempre in minuscolo (che tristezza):

 

oggi, tutta questa storia del nobel mi fa un po’ male.[9]

 

ieri, durante il seminario, stavamo ascoltando un documento dell’ina in cui ponge parlava della propria scrittura. e ascoltavamo il gollista anti-surrealista che esprimeva la propria esigenza di chiarezza, il proprio zelo nel voler far coincidere le parole con la realtà delle cose, il proprio rifiuto dei sentimenti, perché se ci capita di sentire qualcosa mentre si legge, è un errore, dice lui, un errore dovuto al fatto che «l’uomo ha a sua disposizione un unico linguaggio, e che noi usiamo lo stesso linguaggio per dire il mondo e allo stesso tempo per esprimere i nostri sentimenti.

 

lo ascoltavamo mentre esprimeva la sua ripugnanza nei confronti dei poeti, nei confronti della loro espressività.

 

*

 

e sentivo salire dentro di me tutto quello che ripugna gli uomini, gli scrittori, mi sentivo incollarsi alla pelle l’etichetta machista del racconto di sé, e sentivo i detrattori di annie ernaux che qualificano la sua scrittura come oscena, miserabilista.

 

sentivo la vergogna, e l’errore della vergogna.

perché la vergogna che ci viene inflitta non dovrebbe arrivare a piantarsi e a crescerci dentro.

 

però lo sguardo disapprovante del padre

è come la lama della ghigliottina

 

ci riporta allo stato carnale

 

*

 

e sempre, quando i formalisti (o i mostri, come direbbe quintane) parlano, parlano dall’alto dei loro privilegi, dal falso margine del loro numero ristretto, perché alla fine non sono letti, o sono mal distribuiti, e questo dovrebbe garantire il loro valore, perché il loro è un privilegio che nasce dal gusto, è il segnale che indica la natura necessaria del loro progetto. possiedono questo ascendente che proverrebbe dalla loro acuta coscienza del linguaggio e del mondo, e che proverrebbe dal loro eccellente e vittorioso sforzo di mettere a distanza il soggetto e l’emozione, dal fatto di essere stati capaci di uscire da sé e dalle proprie sofferenze, perché in fondo è una cosa meschina e vile, quella di essere solo capaci di testimoniare, testimoniare e basta, senza riuscire a costruire niente di più lucido, di più alto, o di più grande.

 

*

 

io sto cercando di elaborare una cavolo di politica poetica,

che vorrebbe superare la convinzione che quello che va bene per sé va bene anche per gli altri, e anche di affermare lo svantaggio di scrivere partendo da una posizione di svantaggio, una posizione che non mi permette di scrivere come ponge, o di pensare di voler scrivere come ponge, o di capire come poter voler pensare di scrivere come ponge.

 

*

 

hanno cercato di salvare ponge dal suo nitore e dalla sua mascolinità ricordandomi che era solo un operaio, e che questo fatto non facilita mai le cose. hanno cercato di ricordarmi che il mio sguardo è anacronistico. e quindi, anziché parlare a mio nome, visto che un’opera non ce l’ho, ho deciso di parlare di wittig, e del nouveau roman.

 

*

 

wittig che da sempre ha posto la sua attenzione alla forma, senza dubbio molto meglio di quanto non abbiano mai fatto ricardou e robbe-grillet messi assieme, e comunque lo ha fatto senza essersi dovuta liberare nella sua scrittura della propria condizione di donna, o della propria condizione di lesbica, o del proprio desiderio ostacolato e represso.

 

*

 

malgrado i premi, malgrado la fama e le battaglie combattute scendendo in strada, wittig ha sempre saputo che il suo proprio privilegio non le dava il permesso di dimenticare il fatto che gli altri vengono sottomessi, o di dimenticare il piccolo mondo mal raccontato e mal vissuto delle emozioni, dei sentimenti e delle piccole storie che si inseriscono dentro la grande storia, degli eventi senza nome che non arrivano all’altezza delle astrazioni, come si dice.

 

*

 

che mania, questa

di sputare su tutto quello che ci fa capire quanto sia inaccettabile quello che viviamo

 

che mania, questa

di demonizzare il messaggero al posto del boia

 

che mania

 

*

 

se c’è invece qualcosa che in ponge mi piace

è l’idea di una scrittura che si mette alla prova

e che fallisce

 

una scrittura

fallita

 

*

 

in wittig, l’i/o del corpo lesbico è sfaldato, attraversato dall’alterità, fissurato in due dal mondo che vi si deposita dentro con violenza. io emotivo, conchiglia vuota, io del post-pragmatismo, io non patetico e non magniloquente, io per amore, per considerazione nei confronti dello sguardo altrui, un altrui che non è un altro da sedurre, o da convincere da fuori, ma una parte di sé da onorare, una parte che si incontra per caso, mentre dentro sé stessi si sta svoltando.

 

21 dicembre 2022 / montréal

 

Note

 

[1] AH: un poeta [NdA].

[2] Alain Farah, Mille secrets, mille dangers, Le Quartanier, 2021.

[3] Rachel Lamoureux, À quoi jouons-nous, Le Quartanier, 2022.

[4] Gilles Deleuze e Felix Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, 1996, p. 69.

[5] Ivi, p. 75.

[6] Jean-Christophe Bailly, «nous» ne nous entoure pas, in Vacarme 2014/4, n° 69, p. 177.

[7] Ivi, pp. 190-191

[8] Cfr. Nathalie Quintane, Monstres et couillons, la partition du champ poétique contemporain, 19 ottobre 2004, www.sitaudis.fr/Incitations/monstres-et-couillons-la-partition-du-champ-poetique-contemporain.php (vd. anche: 28 febbraio 2007, www.nazioneindiana.com/2007/02/28/les-monstres-et-les-couillons-1/, e 2 marzo 2007, www.nazioneindiana.com/2007/03/02/les-monstres-et-les-couillons-2/).

[9] L’autrice fa riferimento alle polemiche sorte in seguito all’assegnazione del Premio Nobel ad Annie Ernaux.

 

[Immagine: Clarissa Bonet, Urban Constellation].

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