di Jean-Patrice Courtois

 

[La casa editrice Argolibri ha da poco pubblicato Emballages / Imballaggi, di Jean-Patrice Courtois (traduzione di Gabriele Stera), con una nota di Martin Rueff e postfazione di Andrea Inglese. Pubblichiamo una selezione di testi].

 

Parlare recitando l’ordine dello scheletro le cui ossa non si scontrano più e che riunisce la terra, la polvere e la terra. L’osso è la terra per intermediario della polvere. Ma chi ti fa polvere, osso, poiché secondo certe condizioni gli scheletri sono ben più vecchi degli alberi? Ciò che non è vivo è sempre più vecchio di ciò che è vivo, tranne la terra nell’espressione « la vita della terra », dove la parola « vita » non ha lo stesso senso della stessa parola in altri luoghi che la fanno splendere. Il parola per parola della frase fatta è soltanto la velocità conservata osservata dal punto di vista della parola nella frase fatta. Frase fatta e frase da fare! Concessione perpetua di contraddizione attiva! Lo sgambetto del luogo delle ossa della parola per atti di lingua legati vale linguaggio uno e non come. Sottrazione impossibile della velocità della frase nella coscienza e della velocità della frase in movimento per eccesso di vicinanza, siete quasi al punto di farvi un corpo attraverso l’orecchio. Approssimazione al di là dello scheletro, avanza le parole che dicono più della similitudine della velocità, portale avanti! La negazione dello sforzo senza il tempo di domandare se sia ragionevole non abolisce la fatica ma fa dire un suolo. Andate a vedere come un’idea di frase non sia buona materia da frase, e di ciò fate frase, amici recitanti troppo allenati nella vita scrupolosamente prosodica del tempo e dello spazio in corso di farsi udibili su carta da ascoltare. Un soffietto, un cotoncino sporco, una tazzina, tutto ti attraversa in un niente di tempo, cara potenza di vita astratta!

 

Friabilità generalizzata, il friabile nella specie stessa, ecco la nostra nuova carta d’identità generica che genera l’appartenenza dei due sessi ed altri alla specie. Persa la pietra che spazia lo spazio. Il solo resto dei ceppi che fa il suolo sotto il suolo farà segno senza comunicazioni. Spazio di ceppi di sotto la crosta vegetale terrestre, tu non sei una parola, questo no! Tu ne liberi una, humus di tempo, perché sotto lo spazio sollevato, giace la tua sorta di firmamento, perché né foglia né piano, perché tu sei l’ambiente in sé, un bagno d’ambiente che prende ogni ambiente per il centro, l’inizio e la fine, insomma il reale in ogni deformazione. Tempo, tu non sei un ponte, ma dal nulla fino al perimetro di noi tu sei dovunque intero e di sezione indifferente. Feroce, brutale, frontale, parietale, penetràle in ogni lobo, non è detto tale se non in località del tempo all’opera, senza particolari accezioni, non ne ha, non è. Non conta nulla in nulla dove tutto del luogo si strappa. « Pasta di » noi siamo, materia del momento, senza saperlo, sapendolo senza che nulla cambi, volendo bordi animali, non dipende da noi parlando realmente articolando. « Cadaveri intatti » siamo noi piuttosto, in località del buco nero dei nostri organi. Non ne usciranno da quel bagno lì — bolle di genetica, cellule d’aria, terra polvere, tradurvi non si può, traduttore universale di una generalità più grande già lo siete. La sillaba, unico coltello, consonante, unica azione. Aria tradotta in lingua in pezzo di bocca prosa, conta, no?

 

 

M.M.

 

Quale fabbrica del particolare potrei conoscere, sperare o desiderare? Del tipo frammentario, tu sei ricostituito in ogni atto. Il suscitante desiderabile che sta nel soffermarsi su di un solo viso puro incluso nel disegno non del suo disegno ma della sua grazia che ci insegna localmente a danzare partendo dal dimenticare la danza ci basta. Un tempo per vivere e un tempo per morire, un tempo per ridere e un tempo per piangere, un tempo per seminare e un tempo per raccogliere dicono le parole del saggio — e aggiungo, triste dipendenza da lavoro sfibrante, un tempo per essere indipendente e un tempo per dipendere, un tempo per lavorare e un tempo per riposare, un tempo d’albicocche e un tempo d’asfissia, un tempo per il tempo e un tempo di morfina, e non amiamo il tempo formale della sottrazione liquida su treppiede mobile — e quasi canto ancora una volta in vecchio dolce stile nuovo, un tempo per mano dolce d’amore nulla di più bello sguardo che sguardo d’intero viso come un atto e un tempo per escarre marcescenti senza mani appropriate dolori d’aldilà e vili d’impotenza al gusto di bocca muta. Dove possiamo ancora consultare la traducibilità dell’aria, le bolle di traduzione industriose, dove? Rispondete, e vedrete non apparire qualcosa che difficilmente appare. Il cuore delle pietre lì dov’è l’aria ci tiene a cuore ma mantiene l’aria che l’alimentazione sottovuoto ha espulso. Ne abbiamo a mestolate sullo stomaco. Non cerchiamo il pensiero ad ogni piano né la doccia in ogni sacca di bile.

 

Nel costruttivo d’occhio, nella lavorazione oggettiva delle parti, la manodopera è decisiva all’impatto. Oggi prende la forma di un bagaglio perduto, vuotato del suo vuoto. L’amputazione dei suoi gesti, senza anestesia, si fa obbligatoriamente sotto hangar. La chiesa autocefala dei modi di descrizione economica autorizzati, che dio la benedica! parla dell’eccezione culturale in termini di « oligopoli a frange ». L’espressione, di una bellezza da puma in piena corsa nelle foreste dell’america di sotto che è altrettanto america che l’altra che lo è altrettanto a sua volta, fa fremere. Diagnosi? Rimedio? Le nostre frasi non abitano le frange delle opinioni sulle frasi, ma soltanto le condizioni che fanno sì che esistano opinioni su tutto ciò di cui le frasi fanno e disfano la forma. Massa e andatura, la frase negozia l’inerte e l’attivo, in zona, non altrove. Zona bombardata, possibile, zona di guerra losca e d’ardore bianco, tutte queste forze conoscono il dolore della negoziazione. Se niente cielo diretto solo, la lotta è dopo. Salto su una gamba, forza disfatta, la stessa che trascina lo slancio di dietro prosciuga la forza in perdita totale. Ricade in terreno industriale, fuor di slancio. Solo il movimento ispessisce l’aria d’un braccio. Colore grigio lì è ciò che rincanta nei fatti le finestre spaccate, puntualmente, una a una, la visibilità ridotta sotto controllo di un potenziale solo potenzialmente effettivo. Diagnosi? Rimedio? Io affermo che il reale non è l’indistinzione della diagnosi e del rimedio, cioè la fastidiosa e comune e obbligatoria questione della superficie. No alla chiesa autocefala della superficie! Nulla a che vedere con l’altezza del cielo, il suo marciume di razza e la sua testa che se ne esce dal buco di esatte dimensioni e solamente quando è necessario, utile e spassoso.

 

La sola arte delle coincidenze che sono riuscito ad ascoltare è quella che scolla la carta da parati indifferentemente dalle differenze di colore. Dal « così è » fino al « rumore del tempo » e « prima domani ». Ma il fondo sonoro distrutto dall’impatto delle coincidenze aveva lui stesso distrutto l’epoca del « rumore del tempo ». E il nostro impatto assomiglia al sistema vestibolare dell’orecchio d’esilio in fondo al giardino di meningi. Sentiamo « festa del giorno » e la traduzione dice « mozziconi umani fanno il bagno a testa in giù sul fondo di bicchieri di plastica ». Torniamo all’impatto delle coincidenze, al loro rumore di guscio d’uovo, alla loro  difficile fedeltà, aumentabile all’infinito nei limiti dell’infinito. Amplifichiamo questo impatto in frasi di parole, in politiche d’amicizia. I saltelli che occupano tutto lo spazio non ci interessano: è lo spazio che ci interessa. Batti cinque! imbecille, mio fratello che crede che non sono che te! Capiteci bene compagni farmaceutici, camerati oligopoli e feticci golden paracadutabili, non avrete mai il nostro totem del piccolo e del grande canguro, non sarete mai, né uno ad uno, né in gruppo, « canguro in mezzo a tutta questa bellezza ». Minoranze generali, invitate le vostre teste d’avvenire ed altre ancora ad essere mobili! Prescrizioni di tutte le risposte, unitevi come domande!

 

Il breve, il meno breve, la notula a grandezza naturale senza dire di che natura e la parte davanti della frase stessa, si rilasciano, si riassorbono, si coltivano e si distruggono in un unico atto di uguale intensità congiunta. La concentrazione all’erta, patteggiando seccamente con la cattiveria sovreccitata, sente in diretta il tono da limanda ultrapiatta della corrente principale. La sua inesattezza da reale autoproclamato, pertanto immaginabile, non ha bisogno di controlli qualità né di lavorazione al nickel. L’incostituibile in quanto somma folle reale stabile d’effetti multifunzione più che legali, utili ad ogni sorta d’apparenza, tocca senza mirare. Parliamo, mormorio e sberla, della cattiveria cruciale, quella tarchiata, da incoraggiare nei volantini, da mettere in gioco, ma senza gioco. La liquefazione delle catene è in ritardo e l’informazione crepita d’una soddisfazione che immagina appropriata stando alla sua immaginazione. Non vogliamo lavoretti di soppiatto, schiacciamento per andatura di tutte le andature in una sola, sole delle nostre vite che applaudi! La ricerca uno ad uno, sperduta, dei cani buoni dai muscoli trasudanti di dolcezza oh molosso amore mio, non farà sbavare giusto. Scomporre una ad una le ripercussioni dell’economia delle grandezze tossiche renderà paradiso ed inferno commutabili sott’occhio. Primo caso di spessori vittime, rendeteli visibili sulla tavola delle conversioni immediate! Secoli di secoli inimmaginabili all’ardore, inviate verso di lei tasche piene di teorie, subito, senza protesi! Traduzione della commutazione in ogni lingua, si iscriva preceduta da descrizione!  L’occhio che comprende pena talmente tanto davanti al cemento merletto del descritto descrivente che vorrebbe poter preferire il formato comprensivo del contorno a piede libero.

 

[Immagine: Andreas Gursky, Amazon, 2016].

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