di Michele Cecchini
[E’ appena uscito per Bollati Boringhieri Un morso all’improvviso, il nuovo romanzo di Michele Cecchini. Ne riportiamo un estratto].
© 2023 Bollati Boringhieri editore
Fino a quel momento, di tutta questa storia mi era rimasta impressa una cosa sola, e ancora non ho smesso di pensarci: «Ir mi’ fratellone» è un rotacismo. Il dottore, che ha studiato, lo sa di sicuro. A me me l’ha detto il figliolo di Nando il macellaio. Così ora ci ho la fissa dei rotacismi.
Ma è anche una questione personale. La mia mamma le volte che era felice di me da piccino mi ficcava le dita nei capelli e diceva: «Ir mi’ bimbo». Ora questo non succede. Perché di capelli ne sono rimasti pochi. La mia mamma invece c’è ancora tutta, ma di me non è felice e forse di nessuno. Difatti dice: «Il mi’ figliolo», ma di rado. Preferisce definirmi Beo da scarabeo. Stercorario, per la precisione della palla di merda.
Anche la mia sorella a cose normali dice «il mi’ fratello». Evidentemente il rotacismo vuole il momento giusto. Voler bene è un morso all’improvviso.
Com’è che la mia mamma mi ha voluto bene è una delle belle domande e la risposta è dentro ai cicciofarmaci. Alla fine la mia mamma ha fatto come ha fatto, inutile farsi le domande. Posso dire che è stata una mamma in partenza. Le volte che tornava erano molte meno di quelle che andava via. La sera io lo sapevo dove: a ballare. Cioè dentro a un mondo fatto di buio e luci colorate, di rumori fortissimi e movimenti strani. Era un posto per grandi, che per andarci bisognava prima passare un tempo infinito in bagno e poi in camera, tra l’armadio e lo specchio. Mi pare di vederla, la mia mamma riflessa. I bigodini, il profumo spruzzato sui peli delle ascelle, le scarpe con il tacco che la allontanavano ancora di più. Io la guardavo incantato. Anche la mia sorella Gennifer a un certo punto ha cominciato a fare così, ma mi faceva pena. Chissà se l’incanto e la pena siano forme differenti di voler bene.
Esperto come sono di “a cose fatte”, dopo tutti questi anni devo dare ragione al babbo, che diceva che la mia mamma è una che si è sempre fatta i cazzi suoi. Io sarò sempre grato alla mia mamma per questa grande lezione di vita. Avermi messo in disparte ha reso più intensi i momenti insieme. Le sue minacce di spedirmi a Bristol mi hanno cresciuto guardingo e misurato. Ed è stato un onore ricevere le sue parti di merda, che hanno sempre colto nel segno.
Il voler bene della mia mamma era così. Un morsotto a occhi chiusi, chi c’è c’è. Ecco cos’è stata la mia vita da piccino accanto a lei: una serie infinita di tempi morti interrotti ogni tanto da un rotacismo. Ancora oggi, più lei svicola più io mi sento capito. La mia mamma sa tutto di me e mi vuole bene nella splendida maniera tutta sua.
Che poi, mica l’ho capito di preciso che vuol dire voler bene. Merito dei cicciofarmaci: per impedirmi di degenerare, mi limitano il sentimento. Quel poco che mi resta si posa su furgoncini, cerchioni e parcheggi scambiatori.
Oramai, nella mia vita, di rotacismi neanche l’ombra. La mia moglie non si sognerebbe mai di dire: «Ir mi’ ma- rito». Se si avvicina, è solo per portarmi il bicchierino coi cicciofarmaci.
La cosa strana del rotacismo è che non è reciproco. Se lo ricevi, non lo puoi restituire. Io dico «La mi’ mamma, la mi’ sorella» anche quando sono felice di loro.
Ma la verità è che io non ho mai sentito il bisogno di agguantare qualcuno e dirgli di brutto quel che ho dentro sul voler bene o voler male. È grave?
Potrei dire «Ir mi’ babbo», ma non c’è. Appena lo ritrovo, glielo dirò. Verso di lui non ho mai provato né pena né paura. Nemmeno quando gonfiava la mamma a quella maniera. Gliele prometteva e riprometteva, e alla fine gliele dava di santa ragione, sempre che ci siano ragioni sante per fare così. Il babbo la sciagattava di cazzotti sul groppone, e lo faceva di notte. Sperava di passarla liscia, ma le grida della mamma mi arrivavano eccome. E il trambusto del letto che scuoteva e lei che diceva: «Oddio! Oddio!».
Ogni volta filavo nel letto di Gennifer. Lei accendeva la lampada sul comodino e riapriva il fumetto manga da dove era rimasta. Io mi accoccolavo di fianco a lei che leggeva e mi accarezzava i capelli e mi diceva che non era niente, che succedeva tutto nella mia testa e che se anche qualcuno grida, prima o poi si cheterà. Così si tranquillizzava. Tra me e lei succede così. Il conforto che mi dà, le si ritorce contro. Paro paro all’abbraccio di poco fa.
Il giorno dopo, babbo bello tranquillo in bottega, e mamma pure. Io cercavo su di lei i segni della battaglia ma niente. Non un occhio nero, un livido, uno sgraffio. Il babbo la gonfiava con precisione, così salvava anche la sua, di faccia. Rossa com’era, avresti detto che tra i due era stato lui a buscarle. Però la mamma ci metteva del suo, con le smancerie proprio verso il babbo il giorno dopo. Pareva che quelle legnate avessero sbloccato appuntamenti, incombenze, progetti. Alla mia mamma piace vivere nel casino, e ne crea dell’altro. È il suo modo di tirare avanti. O di farsi i cazzi suoi, come diceva il babbo.
Alla fine insieme al babbo sono sparite anche le botte. Ma una cosa è rimasta: la camminata sghemba. La mia mamma è zoppetta da un piede anche se secondo il babbo era storta dentro. Per questo lei si metteva sempre di traverso. Zoppicava a spregio e lui pretendeva di raddrizzarla a cazzotti. Comunque il piede ha continuato a strascicarlo anche dopo il rapimento del babbo e secondo me non c’entra nulla il carattere. Il problema della mia mamma è che andava a ballare. A chi balla, gira e rigira i marziani gli rivogano addosso un disagio. A me l’eredità della stortura della mamma m’è finita sul naso e sui tentativi sbilenchi di discorso. Ma con i piedi che mi ritrovo, prima o poi sarò zoppetto pure io.
Non ho mai capito perché quei teatrini della mamma il giorno dopo le botte. Quando voleva, lei era capace di andare al sodo e dire per bene come la pensava. Mi pare di vederla. Enorme, con le mani sui fianchi, tutto intorno si fa buio perché arriva il tir delle parole. Ci punta dritti in ghigna i fanali gelidi degli occhi e sputa addosso il boato di una verità:
“Mi state tutti sur cazzo”.
Bastava questo rotacismo per allinearmi alla stortura della mamma.