di Simone Rizzi

 

1. Tock-tick

 

 Let us take a very simple example, the ticking of a clock. We ask what it says: and we agree that it says tick-tock. By this fiction we humanize it, make it talk our language. (…) The first interval is organized and limited, the second not. (…) The fact that we call the second of the two related sounds tock is evidence that we use fictions to enable the end to confer organization and form on the temporal structure. (…) The clock’s tick-tock I take to be a model of what we call a plot, an organization that humanizes time by giving it form; and the interval between tock and tick represents purely successive, disorganized time of the sort that we need to humanize. Later I shall be asking whether, when tick-tock seems altogether too easily fictional, we do not produce plots containing a good deal of tock-tick; such a plot is that of Ulysses.

 

 Durante un ciclo di conferenze tenute presso il Bryn Mawr College in Pennsylvania e poi raccolte nel celeberrimo The Sense of an Ending del 1966, Frank Kermode ha elaborato una memorabile definizione di cosa sia, e di cosa possa significare per l’animale umano, raccontare (o raccontarsi) una storia: tick-tock, vale a dire immaginare un senso per il trascorrere del tempo, “umanizzarlo” o, meglio, conformarlo alla serie finita, tanto complessa per eccesso di semplicità, delle aspettative umane: un inizio, uno svolgimento e una fine comprensibili (razionalmente o meno, per via empirica o per intuizione mistica) della propria e dell’altrui esistenza, e una successione di eventi-pensieri-sentimenti perlomeno interessante, che giustifichi insomma questo spettacolo strano, triste e non di rado tragico in cui siamo stati gettati senza preavviso, come il protagonista di un bellissimo racconto di Cortázar (Instrucciones para John Howell, in Todos los fuegos el fuego, 1966). Cosa succede, però, continua Kermode, quando la consueta alternanza finzionale di tick-tock diventa un canovaccio troppo logoro su cui improvvisare le nostre storie? Semplice, almeno in apparenza: dopo qualche millennio, ci siamo rivolti al secondo intervallo della serie, al gigantesco e anomico buco nero rappresentato dal tock-tick. Tuttavia, se portiamo questo gioco kermodiano alle estreme conseguenze, potremmo affermare che tick-tock non è solo la cellula base di quello che chiamiamo “intreccio” narrativo, ma anche l’intelaiatura spazio-temporale, nonché culturale, del reale, di ciò che comunemente chiamiamo “realtà” (da scriversi, ammonisce Nabokov, sempre tra virgolette). Da questa nuova angolazione, un’opera letteraria che poggia su un considerevole numero di tock-tick, vale a dire di tentativi che mettono alla prova questo “paradigma di realtà” attraverso la “manipolazione del tempo”, diventa così un patente atto di insubordinazione nei confronti del reale per come siamo soliti rappresentarcelo, e quindi, in definitiva, viverlo. Ovviamente, quest’attacco frontale o di sottecchi sarà più o meno pretestuoso, gratuito, o invece pregnante e significativo, a seconda delle qualità del testo preso in esame. Inoltre, è sempre pericoloso e semplicistico affidarsi ad un concetto univoco di “realismo letterario” (si veda, a questo proposito, Realismo e letteratura. Una storia possibile, di Federico Bertoni, Einaudi, 2007). Tuttavia, per non allargare indebitamente il campo di questa trattazione, ci si limiterà qui a quei testi che violino deliberatamente e palesemente il principio dell’“intreccio tick-tock” come descritto da Kermode.

 

Generalmente, quindi, è forse possibile enumerare almeno tre possibili sviluppi di un “intreccio tock-tick” (o, almeno, tanti ne ha individuati per ora chi scrive):

 

– “Più reali della realtà”: il consueto dipanarsi delle trame romanzesche è sentito come “too easily fictional” (sempre Kermode), e quindi sempre meno aderente alla “realtà” che si vorrebbe rappresentare. Si integrano quindi all’interno del romanzo tutta una serie di elementi del “reale” che tradizionalmente ne resta(va)no esclusi, come l’osmosi tra azione, pensiero e ambiente circostante resa senza alcun tipo di mediazione esterna. L’esempio principe di questa categoria è ovviamente Ulysses di James Joyce, il cui intreccio genera così interi capitoli di “purely successive, disorganized time”, che collide e collima con i “flussi di coscienza” dei personaggi, nonché con la stessa messa in scena della città di Dublino, che li fagocita tutti. Ulysses pone lo smarrito o esaltato lettore faccia a faccia con la debordante, omerico-rabelaisiana estrinsecazione della realtà intera, im-mediata perché iper-mediata. Un meccanismo simile, sebbene al servizio di altri scopi (l’“esaurimento” della realtà sulla pagina, il mondo-merce, lo scacchiere indefinito dei rapporti umani) si ritrova anche nei romanzi più famosi di Georges Perec, La vie, mode d’emploi e Les choses.

 

– “L’assurda pretesa del reale”: talvolta il tock-tick può assumere invece la forma raggelante di un tempo vuoto che si ripete senza soluzione di continuità, un tempo assurdo e cristallizzato che rivela una realtà parimenti assurda, bloccata, una letteratura della crisi o della fine che quest’immobile e asfissiante staticità sembra presagire di continuo. In un simile clima di oppressione, ogni attimo di tempo “puramente successivo” non “trascorre”, ma si “accumula” come un peso invisibile e deforma la rappresentazione della realtà narrativa, da un iniziale posa realistica sino a situazioni improbabili, grottesche, assurde o tragiche. Non di rado, questo tipo di temporalità narrativa si adatta a temi quali la colpa, storica o imponderabile, del/dei protagonista/protagonisti e l’incombenza-assenza di dio o dell’apocalisse variamente declinata. Esempi illustri si possono trovare nei più celebri romanzi di Kafka (Il processo e Il castello) o nell’altrettanto famoso As I Lay Dying di William Faulkner.

 

“Quale realtà?”: infine, può accadere che il desiderio di un altro ordine (e dunque di un’altra realtà), che tutta l’umana angoscia e insoddisfazione nei confronti dell’esistenza-mondo-società (e si potrebbe continuare a piacere…), o, ancora, che l’amletica sete di una giustizia negata, arrivino a manipolare e a distorcere proprio il tempo, a costruire un mondo in cui tock-tick sia la regola, il tempo in qualche modo “umanizzato” in quanto portavoce di questa irrimediabile frattura fra, potremmo dire, realtà, desiderio e morte. Il tempo diventa così metafora e allegoria, come in due casi molto diversi, ma simili sotto quest’aspetto, del Viaje a la semilla di Alejo Carpentier e di The curious case of Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald. In entrambi i racconti l’intreccio sembra procedere secondo la regola base del tick-tock ma in Carpentier, tramite bruschi cambi di scena, ci accorgiamo che le fasi della vita del protagonista sono raccontate al contrario, dalla nascita alla morte, mentre il Benjamin Button di Fitzgerald ringiovanisce invece di invecchiare. Per trovare invece un esempio in qualche misura “puro” (e quasi unico) di questa categoria, si può forse citare il tour de force narrativo Time’s Arrow di Martin Amis. Il romanzo ripercorre la vita di un uomo, un medico e criminale di guerra nazista, a ritroso nel tempo, riavvolge il nastro cronologico della sua intera esistenza come si faceva con quello di una videocassetta. In questo modo, non solo passato e futuro si scambiano, ma l’intero ordine logico delle azioni, il rapporto causa-conseguenza, viene invertito. In questo mondo antinomico è davvero l’intervallo tock-tick il portatore di un assurdo senso, mentre tick-tock è soltanto lo spazio vuoto di cui non ci curiamo (ma che invece assilla il narratore del romanzo, l’“anima” del protagonista, che possiede l’offuscato ricordo di una vita anteriore). Al di là della maestria narrativa, l’intento di fondo di Amis rimane comunque di natura allegorico-metaforica: persino in un mondo totalmente al contrario, il Male rimane sempre identico a sé stesso.

 

Come ogni tentativo “tassonomico” che abbia qualche pretesa di veridicità, queste tre categorie sono ovviamente molto permeabili, si ibridano spesso l’una con l’altra, e non di rado una singola grande opera (come quelle sinora citate) ne contempla più di una al proprio interno. A questo proposito, risulta di singolare interesse un breve “romanzo” (ma si vedrà quanto il termine possa risultare improprio, e per il meglio) di recente pubblicazione. Si tratta di Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia, uscito quest’anno per l’editore TerraRossa, che ha contribuito in maniera determinante (e meritoria) a rilanciare questo autore, ripubblicandone opere a partire dal 2019, a quasi trent’anni di distanza dall’esordio narrativo di Sinigaglia, Il pantarèi (1985). Il Sillabario rientra a pieno titolo nel novero dei “prestidigitatori del tempo” e lo fa seguendo una logica del tutto particolare, attigua e insieme centrifuga rispetto alle categorie che abbiamo tentato di individuare. Per analizzare più da vicino quest’opera, si è scelto di seguire due direttrici che percorrono trasversalmente il discorso portato avanti nel Sillabario, due “temi”, si potrebbe dire con un termine che è tornato ora prepotentemente di moda: il linguaggio e la malinconia.

 

2. Parole piene e parole vuote

 

Il protagonista del Sillabario, un Ezio Sinigaglia “agens”, si è volontariamente isolato dal mondo. Vive ritirato a Geremeas, nel cagliaritano, sul litorale meridionale della Sardegna, in compagnia e al servizio di una ricchissima e riccamente descritta fauna e flora autoctona (e tuttavia ben lontana dal rappresentare una sorta di eden naturalistico, tutto il contrario…). Le visite umane sono rare, la moglie Sara risiede in città e torna solo nei fine settimana, mentre più assidue sono le visite del figlio adottivo Umberto e di Clara, la donna delle pulizie (ad entrambi sono dedicate pagine memorabili, commoventi o decisamente spassose come l’episodio della lavatrice-idolo divino). Ezio è malato (una malattia del corpo e «una malattia dell’anima, da curare con la scrittura» si legge nella Prefazione), sente la vita scivolargli lenta dietro le spalle e non riesce a reagire se non ricordando e scrivendo. Per di più, avverte che un torto è stato perpetrato ai suoi danni e l’ha ridotto nello stato in cui si trova; tuttavia, presto diventa evidente che allo stato di vittima il protagonista somma anche un soverchiante senso di colpa per qualcosa che lui ha commesso a danno di qualcun altro. Così, su consiglio del proprio medico curante, inizia a stendere un sillabario, associando a ciascuna lettera una parola significativa del proprio vissuto. Tuttavia, la prima lettera è la Z di Zoo, e da qui si risale all’indietro lungo l’alfabeto, sino alla A di Aldilà. Ne deriva un totale stravolgimento dell’ordine temporale nella narrazione degli avvenimenti della vita di Ezio, un labirinto che tra ricordi e divagazioni, elegia e rimpianto, divertissements letterari e estroflessioni intimistiche[1], attorciglia il tempo alternando febbrilmente il tick-tock della perduta ragione che Ezio tenta in tutti i modi di recuperare e il tock-tick della malattia, il tempo “vuoto, puramente consequenziale” dell’isolamento, che si popola di allucinazioni e  fantasmi (e su questo punto torneremo nel terzo paragrafo). In questo modo, si frantuma persino la realtà, nella mente del protagonista, piegato dalla malattia, tanto che la totalità del Sillabario, che ovviamente non rinuncia alla cifra stilistica dell’ironia propria del suo autore, risulta tuttavia costruito su scala cromatica più cupa rispetto ad altre opere di Sinigaglia. Il continuo oscillare tra la consapevolezza di essere sia vittima che carnefice, e l’assenza, almeno in apparenza, di un delitto manifesto contribuiscono a creare quell’atmosfera di angoscia e di “tempo bloccato” che si ritrova nella seconda categoria sopra tratteggiata, quella di un tempo “assurdo” e immobile, che non trascorre mai. Questa ambiguità sul “ruolo” che il protagonista gioca all’interno della vicenda permette anche al Sinigaglia auctor di giocare con i generi e di sabotarli dall’interno. Il Sillabario si configura così come un giallo (a cui tra l’altro è dedicata la lettera G) completamente atipico, con un delitto tutto da scoprire e un protagonista che è al tempo stesso detective, vittima e assassino. Si potrebbe anche parlare di memoir o di autofiction (autore e narratore sembrano coincidere), e di certo alcuni spunti sono mutuati dal vissuto personale dell’autore, ma l’antinomica struttura temporale dell’opera invalida fin da subito questa ipotesi. L’autofiction “canonica” (se si può usare questo termine per un genere nato, forse, prima negli uffici stampa delle case editrici e solo in seguito entrato d’imperio nel dibattito critico) prevede infatti un ordine cronologico decisamente più lineare, e soprattutto una chiara distinzione tra ciò che pertiene alla “realtà” vissuta dal protagonista e quello che invece è sogno, supposizione, dubbio, fantasticheria. Nel Sillabario, invece, è proprio uno stratagemma linguistico (associare ad ogni lettera una parola, ma partendo dal fondo) a confondere e mescolare i piani. Tuttavia, sarebbe sbagliato fermarsi ad una lettura che implichi solamente un pure ardito “gioco letterario” o, tutt’al più, una propensione dinamitarda (largamente messa in atto) di sabotatore di linguaggi e di luoghi comuni ad ogni livello. Il protagonista di questo romanzo desidera e vuole prima di tutto guarire, mettere ordine nel caos in cui si muove, e questo ci porta ad un problema fondamentale che coinvolge la natura stessa del linguaggio umano. Ezio Sinigaglia non è certo autore digiuno di studi psicanalitici, e infatti il suo protagonista, oltre ad assumere su di sé tutti i ruoli del giallo classico, è anche ad un tempo paziente e terapeuta di sé medesimo. In una sezione capitale dei suoi Scritti, quella intitolata Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, Lacan definisce il linguaggio come «una comunicazione in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita» (p. 291). Per raggiungere il suo scopo, la parola (e dunque il “messaggio” di un soggetto parlante) deve dunque essere “decodificata” dall’altro, ovverosia da chi la riceve e la “traslittera” nell’ordine corretto, riconoscendola e riconoscendo in essa il desiderio (altro termine chiave della psicanalisi lacaniana) del soggetto che con la parola si esprime. Sulla base di questo enunciato, Lacan stabilisce così una differenza tra la “parola piena” e portatrice di un reale significato, la parola capace di risalire lungo la storia del soggetto che la pronuncia e dunque di risolvere o sbrogliare le formazioni dell’inconscio («è effetto di una parola piena il riordinare le contingenze passate dando loro il senso delle necessità future», scrive ancora Lacan), e la “parola vuota”, ossia la parola vana, che ciancia di nulla, non si lega al reale desiderio del parlante e dunque rimane parola “in forma invertita”, non decodificata dall’altro. Nel Sillabario, succede qualcosa di analogo: nella propria solitudine, in una condizione di assedio dovuta a una “malattia dell’anima”, le parole che di volta in volta Ezio personaggio sceglie e commenta seguono l’ordine inverso dell’alfabeto perché sono strumento della cura, ma anche parte della nevrosi, sono continuamente rimasticate dal soggetto che ci si arrovella alla ricerca di un colpevole e insieme della propria colpa, ma senza che nessuno le traslitteri per il verso giusto, sono parole che si avvertono vuote e si dibattono per diventare piene, cercano di ascoltarsi e di essere ascoltate per poter finalmente «riordinare le contingenze passate» e poter tornare a vivere in funzione di un futuro nebuloso ma possibile. Non a caso, nel capitolo finale del romanzo, quando verranno svelate, almeno in parte, alcune contingenze della preadolescenza di Ezio che gettano una fioca luce sul “mistero” che aleggia lungo tutto l’arco della narrazione, il protagonista esprime il desiderio, la necessità di “raddrizzare l’alfabeto”, di ripercorrere la propria storia “pienamente”, ovvero affidandosi soltanto a “parole piene” che verranno perciò ascoltate, comprese.

 

Così, se è vero che questo percorso a ritroso nel linguaggio e tra i meandri del passato è parte della malattia in senso psicanalitico (e dunque, per guarire, bisognerà “riordinare l’alfabeto”), c’è tuttavia un altro versante del problema, che, proprio nel fallimento dell’indagine portata avanti nell’opera, celebra invece una vittoria ben più grande, una sconfitta che tuttavia è necessaria per non precipitare nella vittoria che annienta. È infatti doveroso ricordare che Amleto, erede al trono di Danimarca, colui che voleva rimettere sui binari il “tempo fuor di sesto” è anche il principe onorario della nutrita schiera dei malinconici.

 

3. L’Inappropriabile

 

Quando si parla di melanconia, appare quasi impossibile prescindere da un contributo capitale come le Stanze di Giorgio Agamben (Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi 1977), e difatti è da lì che muoveremo.

La melanconia, o umore altrabiliare, si sviluppa a partire dal concetto di acedia elaborato dalla patristica medievale. L’acedia è se possibile il peggiore tra i vizi umani, poiché consiste nell’allontanarsi dai doveri della vita spirituale e nello sprofondare in un raffreddamento, in una sonnolenza dell’anima, nella tracotante e disperata certezza di essere già condannati, nonché in una continua tendenza allo svago, alla distrazione, alla peregrina ricerca di un altrove migliore, che puntualmente non si rivela all’altezza delle aspettative, già viziate in partenza dall’influenza maligna del demone meridiano. L’acedia è quindi la disperazione che conosce il proprio nome, e che disperandosene se ne compiace perché nulla potrebbe salvare l’accidioso. Nei secoli successivi, l’influsso nefasto della bile nera viene però bilanciato (specie in ambiente neoplatonico) con un particolare tipo di tristitia (tristezza) sempre codificata in ambito patristico, vale a dire dell’insoddisfazione operosa, che si spinge sempre oltre e non è mai paga perché anela alla contemplazione della bellezza suprema e del divino. La melanconia nasce quindi come coincidenza di queste due tensioni opposte, potremmo dire verso il sensibile e il sovrasensibile (entrambe, peraltro, passibili di doppia interpretazione, positiva e negativa; “sensibile” può infatti riferirsi alla vile materia e ai bassi istinti, ma anche alla manifestazione visibile della creazione divina, mentre “sovrasensibile” può indicare sia la tensione verso l’ineffabilmente grande, sia le vuote fantasticherie, i fantasmi che annientano la mente sovra-estendendola). Proprio per questo, l’umore atrabiliare è il temperamento prediletto dagli artisti, che più di tutti partecipano della scissione malinconica. Il malinconico tende così, nel suo desiderio di afferrare l’inafferrabile, a figurarsi come “materiale” (e quindi passibile di essere toccato, modellato, posseduto) ciò che invece dovrebbe essere soltanto oggetto di contemplazione, e questo non per mera cupidigia, ma per quel tipo particolare di bruciante desiderio che deriva proprio da un’iper-contemplazione, dal desiderio che, talmente forte e spesso inappagato, si converte in fantasma. «L’incapacità di concepire l’incorporeo e il desiderio di farne oggetto di amplesso sono, cioè, le due facce dello stesso processo, nel corso del quale la tradizionale vocazione contemplativa del malinconico si rivela esposta a uno stravolgimento del desiderio che la minaccia dall’interno.» (Agamben, p. 22).

 

Ovviamente, un altro tipo “canonico” di malinconico è l’innamorato, il cui desiderio è intrappolato nella medesima lotta di forze: la contemplazione e il desiderio di possesso-amplesso con l’oggetto del desiderio e dunque d’amore, che mai si potrà possedere sino in fondo.

Ora, l’Ezio Sinigaglia protagonista del Sillabario è per molti versi assimilabile alla figura canonica del malinconico. È scrittore, e sa benissimo che la sua arte (inestricabilmente connessa all’ “alfabeto”, e dunque al linguaggio) è essa stessa parte della cura e parte della malattia, come si è cercato di dimostrare; si è volontariamente isolato da un mondo che crede non possa più dargli nulla, né lui, avvolto nelle spire della malattia, crede di poter dare al mondo alcunché, eppure permane in lui un lancinante desiderio di vita, l’attrazione invincibile proprio verso tutte le forme del mondo, dei corpi e del desiderio, della “materia”, e nello stesso tempo nei confronti di qualcos’altro, qualcosa di inafferrabile che costituisce, appunto, l’oggetto perduto, il senso dell’indagine e della guarigione. Per di più, si legga questo passaggio tratti da uno dei capitoli forse più belli dell’intero libro, la H di Humour e tratta in larga parte dall’infanzia del protagonista:

 

[…] una notte […] vidi la luna […] e non riuscivo più a staccarne gli occhi: l’avevo vista solo disegnata sui miei libri di fiabe, o magari in qualche rara fotografia, sempre tonda e lucente come una moneta: questa invece non era tonda, benché naturalmente non fosse nemmeno quadrata: non era una cosa, una figura compiuta, era un avanzo: come una fetta di melone quando il melone lo si è già mangiato, e non ne è rimasta che la buccia: sentii dire «La luna!» e ne fui semplicemente esterrefatto: stavo là a guardarla a bocca aperta, con indicibile emozione, senza far domande, ovviamente, ma domandando a me stesso che fine avesse fatto tutta quell’enorme parte che mancava, chi se la fosse mangiata e come potesse accadere un’ingiustizia simile: che qualcuno si mangiasse la luna, quasi tutta, e che lo si venisse a sapere così tardi, quando non c’era più rimedio […]. (pp. 102-103)

 

Ezio bambino, come accade ad un temperamento malinconico in erba, deluso dalla mancata corrispondenza tra l’immagine eterna della luna e la sua manifestazione “menomata” (ma reale) di quella notte, assimila contemplazione e desiderio di possesso, addirittura immaginando che qualcuno possa ingerire la luna come fosse un melone e fagocitarla (come Saturno, patrono classico dei malinconici, con i propri figli), assimilandola così completamente. Questa pulsione malinconica (cui però fa da contraltare sin dall’infanzia un irrefrenabile desiderio di vita) si riproduce anni dopo nella serie inesauribile, polimorfica, bulimica degli amori di Ezio, che tuttavia sono giocati sempre tra una gioiosa e amorosa contemplazione che sfocia in devozione e l’invincibile, irrimediabile soddisfazione del desiderio erotico e sessuale. Abbiamo così, sia nel triangolo amoroso Ezio-donna-uomo del decimo capitolo , sia nella serie di “abbordaggi” che sempre Ezio compie nei confronti di ragazzi avvistati per strada, tanto il “disordine amoroso” che i trattatisti rinascimentali associavano alla bile nera e alla perenne insoddisfazione amorosa, quanto la dedizione al culto quasi della bellezza e dell’amore, nonché un’acuta penetrazione piscologica e un interesse quasi paterno e insieme materno nei confronti delle proprie “vittime d’amore”, che tuttavia, con il progredire dell’età e l’acuirsi della malattia, diminuiscono di numero e fanno scemare il brivido dell’incontro clandestino.

 

Ci si potrebbe chiedere, arrivati a questo punto, a che cosa il protagonista del Sillabario aneli davvero, di cosa sia malato (e vittima) e quale senso di colpa lo attanagli, al di là delle rivelazioni del penultimo capitolo: qual è il vero oggetto della ricerca, di questa indagine sui generis?

È ancora una volta la melanconia che può venirci in soccorso. Nei suoi celeberrimi studi sulla malinconia, Freud afferma che se per quanto riguarda il lutto si piange una perdita effettivamente avvenuta, il malinconico invece non ha ben chiaro l’oggetto del proprio dolore (anche se è certo che qualcosa sia andato perduto), ma tale perdita oscilla tra realtà e immaginazione, è una perdita spettrale, fantasmatica, eppure insindacabilmente reale, ravvisabile negli effetti che produce sul malinconico.  La malinconia, quindi, si configura come il pianto, come un’elegia composta per un oggetto o un soggetto perduto. Ma la coscienza di essere individui, eternamente simili e incomprensibili agli altri, ci deriva in larga parte proprio da ciò che sentiamo come irrimediabilmente perduto, e da ciò a cui aneliamo senza poterlo raggiungere

 

Verrebbe così da pensare, e questa potrebbe, questa può essere una delle interpretazioni del Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia, che la letteratura (e la filosofia, e altro ancora…) debbano appurare, in un’indagine rapsodica o scrupolosa,  le condizioni di inappropriabilità di questo oggetto perduto, vale a dire sincerarsi che ci sia ancora qualcosa da cercare, qualcosa o qualcuno da desiderare, accertarsi che quello che cercavamo, che quello che desideriamo non è ancora stato trovato, per continuare a vivere nonostante la disperazione di non stringere il proprio oggetto del desiderio. Ma altrimenti, cosa rimarrebbe se non continuassimo a cercare? Non rimarrebbe nulla, neppure noi, che ci definiamo in base a quello che non siamo. Certo, siamo vittime di questa disperazione, ma siamo anche carnefici, ci crogioliamo spesso e inevitabilmente nella nostra impotenza e la noia induce spesso ad azioni terribili, o all’apatia. Eppure, se non abbiamo ancora trovato nulla, significa che possiamo ancora cercare, nonostante siamo consapevoli che una ricerca perenne è anche una forma di condanna per qualche crimine che non sappiamo di aver commesso. Viviamo così una sorta di condizione melanconica, vogliamo raddrizzare il tempo e il linguaggio, come Ezio con le sue parole e come Amleto, vogliamo concupire l’inconcupibile, afferrare l’inafferrabile, eppure:

 

a suo agio il malinconico è solo fra queste ambigue spoglie emblematiche. Come reliquie di un passato su cui sta scritta la cifra edenica dell’infanzia, esse hanno catturato per sempre un barlume di ciò che può essere posseduto solo a patto di essere perduto per sempre. (Agamben, p. 35)

 

Da qui riparte (e qui si chiude) il Sillabario di Sinigaglia, sul desiderio necessario e forse impossibile di ogni malinconico, quello cioè di riprendere in mano l’alfabeto, il linguaggio «andare oltre, raddrizzandolo. Sarebbe anche ora.»  (p. 232).

 

Nota

 

[1] Preferisco questa formulazione “eterodossa” rispetto al più comune “ripiegamento intimistico” perché mi pare più vicino a quanto accade in Sinigaglia: quando scava a fondo nel sé-personaggio, quello che la prosa restituisce sono piene che esondano e spezzano gli argini, e solo in percentuale minore rivoli carsici che serpeggiano in sottofondo.

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