di Francesco de Cristofaro
Il 20 giugno 1923 nasceva Giovanni Pozzi. Lo ricordiamo attraverso un contributo pubblicato nel volume La critica viva. Lettura collettiva di una generazione (1920-1940), a cura di Luciano Curreri e Pierluigi Pellini, Quodlibet, Macerata 2022: un volume dedicato, come scrivono i curatori nella Premessa, a «una curiosa, distesa, eclettica generazione di personalità critiche che – tra lingua e letteratura, filologia e strutturalismo, teoria e comparatistica, psicanalisi e sociologia, narratologia e semiologia, estetica della ricezione e storia della cultura… – avrebbe tenuto a battesimo una buona parte dei nostri studi letterari, nelle università e non solo, fino a oggi». Il libro, composto da cinquantadue brevi saggi che partono sempre da una citazione e da un commento «che si allarga a descrivere tutto un pensiero, un contributo, con una certa urgenza», «non è solo un omaggio ai maestri e un profilo dei maggiori critici italiani del secondo Novecento […]. La critica viva – questo è il punto – ha anche un’ambizione etica e appunto politica, che si dipana tra insegnamento, ricerca e società: contesta il crescente (e sciagurato) abbandono, nelle università, della storia della critica; rende evidente la capacità degli studi letterari di incidere sul discorso sociale, contribuendo – con la loro libertà e diversità – a restituire nel suo insieme più ricca, meno provinciale, più complessa un’intera cultura; rivendica il contributo imprescindibile che le studiose e gli studiosi di letteratura hanno dato al Novecento italiano e (forse) ancora sono in grado di dare». Qui l’indice del volume. In questi giorni è stato anche riedito presso Quodlibet a cura di Davide Colussi il volume di Giovanni Pozzi La rosa in mano al professore che dà il titolo a questo intervento.
La psicologia cui [Giovan Battista Marino] si rifà non è quella della filosofia scolastica che parlava dei sensi interni e dei fantasmi come di tramiti necessari tra il senso esterno e l’intelletto possibile ed agente; è piuttosto una psicologia connessa con le scienze occulte, le quali infatti coprivano quelle zone psichiche che oggi appartengono alle discipline che studiano l’inconscio. Nel caso nostro poi non si tratta di un inconscio generico e teorizzato, ma di un inconscio di cui il poeta stesso era il portatore: come infatti non vedere, nei folletti che sfuggono a Pandora o nei fantasmi che popolano l’arsenale di Mercurio, gli incubi del cortigiano o i desideri repressi del collezionista, due tratti tra i più rilevanti nella vicenda umana di Marino? Quanto alla parte strettamente intellettuale, essa si esplica qua dentro nella confezione di congegni miracolosi (e qui si noti come il prodotto delle discipline speculative sia rappresentato non in termini di pensieri e teoremi astratti, ma nel risultato concreto del libro, un prodotto non dissimile dalle fabbriche meravigliose dell’arte meccanica); e si esplica ancora nella contemplazione delle bellezze femminili, dove il motivo intellettualistico della visione platonica è connesso con quello del cupido guardare del voyeur. Insomma la struttura psichica che il Marino raffigura non si compone, come ci saremmo aspettati da un poeta ubbidiente alla filosofia corrente allora, di senso comune, di intelletto possibile e agente, di memoria e volontà, ma di fantasia sognante, di istinti profondi e di ingegnosità fabbrile, il tutto sottoposto al capriccio delle stelle.
Siamo nelle note di commento all’Adone (a cura di G. Pozzi, Adelphi, Milano 1976, II ed. 1988, t. II, p. 437), esattamente a metà dell’opera: mentre il protagonista del poema ascende al cielo, il suo interprete scava nelle concrezioni culturali e nei «principî gnoseologico-stilistici» (ivi, p. 436) che si addensano nella parola mariniana e che nell’episodio selenico configurano la struttura intellettiva dell’uomo come una «macchina» (ibid.). Pozzi è molto netto nel rimarcare la differenza rispetto alla Commedia: nell’interdiscorsività attivata dal testo in esame non l’astronomia, bensì l’astrologia costituisce il paradigma conoscitivo di riferimento; e la cosa rileva tanto più in quanto proprio Dante fornisce, con Lucrezio, Apuleio e (più scopertamente) Ariosto, il materiale d’intarsio di questo decimo canto, dove al riuso delle fonti e al gioco barocco – si veda ad es. il francesismo lunette, a designare sia gli astri che i vetri dei dispositivi scopici che consentono di scrutarli – s’innesta una riflessione non pacificata sulla scienza secentesca, sulle macchie lunari, sulla scoperta dello spazio. Il vero nume tutelare di questi versi è dunque Galilei, l’eroe viaggiatore che, non differentemente dal «ligure argonauta», «scoprirà novo cielo e nova terra» (X, 45, vv. 3-4): l’analogia con Cristoforo Colombo «quasi non è più una metafora, ma una metonimia» (ivi, p. 442), poiché ciò che il Sidereus nuncius e Adone stanno ‘conquistando’ non è lo spazio ma, ancora e radicalmente, la natura. Il commentatore riscontra una sincera e incantata adesione mentale ai conseguimenti della nuova scienza: che, come si spinge a notare in uno dei suoi rarissimi scolî attualizzanti, genera una imagerie «diametralmente opposta a quella dello stupro che affiora nella poesia di oggi evocante la conquista astronomica della luna. Tra il Marino di qui e lo Zanzotto degli Sguardi, i fatti e i senhal si potrebbe tracciare tutta la parabola dell’atteggiamento della poesia verso la tecnica» (ibid.).
Che il capolavoro del Seicento italiano venga interrogato, oltre che nel dialogo cogli auctores del canone poetico e nella sua vertiginosa retorica, anche rispetto alla Weltanschauung che si deposita al suo fondo e perfino rispetto ai modelli epistemologici che si stagliano all’orizzonte, è fatto già in sé notevole. Ancora più significativo, però, è che il ragionamento del critico – compreso quel sorprendente aggetto sulla ricerca lirica contemporanea – non si sviluppi nelle larghe volute della saggistica accademica, ma entro uno spazio costitutivamente ‘servile’, deputato all’explication de texte. Pozzi dà alle stampe il suo Adone nel 1976, quando è già internazionalmente riconosciuto dalla comunità scientifica come uno dei massimi specialisti del Marino: l’edizione einaudiana delle Dicerie sacre e della Strage degl’Innocenti reca la data del 1960, che è poi la medesima in cui lo studioso inaugura il suo lungo magistero a Friburgo, prendendo il testimone di Giuseppe Billanovich. Proprio questi gli aveva consigliato di affiancare alle passioni barocche, già nutrimento della tesi di laurea sul Quaresimale del cappuccino comasco Emanuele Orchi (nonché al lavoro filologico sulla letteratura delle origini, svolto sotto la guida di Gianfranco Contini), il dissodamento di un umanesimo poco studiato, tardo e ormai virato in manierismo. In questo quadro si colloca l’altro suo opus magnum, prossimo, sia nei temi che negli esiti formali, al commento all’Adone: l’edizione di quella Hypnerotomachia Poliphili che Pozzi ebbe il merito di attribuire al frate libertino Francesco Colonna, e che costituisce anche uno dei prodotti più sopraffini della nostra arte tipografica. A ben guardare, tanto la figura dell’autore quanto la qualità materiale dell’oggetto-libro risultano tutt’altro che casuali: ci parlano inequivocabilmente del ‘gusto’ del critico, un gusto equidistante dalla «fabula mistica» e dall’affabulazione letteraria. Non è un caso che padre Giovanni da Locarno – questo il nome con cui pronunciò i voti nel 1944 – abbia scelto di essere, per i suoi lettori, Giovanni Pozzi.
Uomo di Chiesa che non solo non si scandalizza, ma anzi si infervora di fronte al bello e persino di fronte all’eros, il professore sembra avere in mano una rosa anche quando tratta di santi e di preghiere. Così che il titolo della sua ultima raccolta di saggi, Alternatim, lungi dall’alludere a un avvicendarsi tra la postura religiosa e quella laica, rinvia a una mite convivenza del filologo microscopico, esegeta di classici come il Cantico di Frate Sole o cultore della trouvaille e del «piccolo» (cui dedica nel sottofinale un cesellatissimo Elogio), al fianco dello storico letterario eminentemente formalista: di qualcuno, cioè, che allestisce sì collezioni di immagini, ma allo scopo precipuo di disegnare costellazioni di senso e di identificare recursività tematiche e retoriche. Il capitolo Sul luogo comune, originariamente pubblicato (sotto la più perspicua rubrica Temi, topoi, stereotipi) nella Letteratura italiana Einaudi, appare in tal senso emblematico; e resta uno dei tentativi in assoluto più seri e organici di misurarsi, benché da una specola ridotta, con la lezione di Curtius; aggiornandola e problematizzandola. In particolare, le pagine sulla descriptio puellae e sul «canone breve», pur eleggendo un corpus in massima parte italiano, adoperano con esprit de finesse un metodo senz’altro comparatistico; e proprio ai comparatisti offrono categorie di forte tenuta teorica ed efficacia euristica, servibili per lo studio di ogni letteratura. Più avanti, nel Poscritto 1996 redatto proprio per la ripresa in volume, Pozzi pone a contrasto la topologia di Letteratura europea e Medio Evo latino (tradotto in italiano appena quattro anni prima, con un ritardo di quasi mezzo secolo) e gli oscuri repertori del XVII secolo consacrati ai «concetti» e agli «epiteti» da Giovanni Cisano e da Giovan Battista Spada: l’accostamento, in apparenza peregrino, gli serve per sottolineare la discontinuità dell’operazione condotta da Curtius, che trova la sua motivazione radicalmente etico-politica nello slancio postbellico di restaurazione della tradizione occidentale (l’autore non manca di rifarsi all’importante saggio introduttivo di Roberto Antonelli, dall’eloquente titolo Filologia e modernità); e che – warburghianamente – si concentra sullo sviluppo dinamico e «biologico» dei clichés, piuttosto che sulla tassonomia e sul loro «fissarsi in forme congelate» (Alternatim, Adelphi, Milano 1996, p. 504). Così Letteratura europea e Medio Evo latino finisce per «apparire con due volti distinti, di repertorio pragmatico e di emporio della fenomenologia letteraria; in negativo, come un canovaccio senza trama evidente che, rivoltato, offre l’immagine di un groviglio informale (alla Pollock) piuttosto che di un insieme articolato (alla Mondrian); in positivo, come una riserva impagabile di dettagli e un appassionato memoriale» (ivi, p. 505).
L’ultima citazione palesa la singolarissima sensibilità di Pozzi nei confronti delle arti figurative, che le sue due maggiori monografie restituiscono in modi diversi. La meno antica (Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993) si presenta come una vasta e coerente silloge di saggi inter artes, che offrono, tra le molte altre cose, una messa a punto del campo di studi oggi definito dalla nozione di “iconotesto”. Anche in questo caso il critico pone in dialogo opere fra loro remote per misurarne lo scarto ed elaborare conseguentemente una traccia teorica: ciò che avviene, a titolo di esempio, nelle pagine sul Polifilo e sulle vignette dei Promessi sposi, dove l’indagine sull’intreccio di comunicazione verbale e rappresentazione visuale gli dà modo di ripensare criticamente alcuni degli istituti fondanti della narratologia (cfr. ivi, pp. 132-4). Quanto a La parola dipinta, che era uscito nel 1981 da Adelphi divenendo immediatamente un classico dell’italianistica, è assai più che un catalogo ragionato e dottissimo della poesia figurata (palese o occulta); il risvolto del volume chiarisce che la posta in gioco è quel «radicale spostamento dell’asse intellettuale» che porta a una «celebrazione del disordine e del sovvertimento, segnali dell’assenza della divinità dal mondo, annuncio di un irredimibile caos». Sotto i panni dell’analista degli «artifici figurali», dai technopaegnia ai calligrammes, sta insomma l’inquieto osservatore delle ideologie molteplici che soggiacciono alle forme, lo storico-ermeneuta pronto a spingersi, sull’asse diacronico, fino ai totalitarismi, alle avanguardie, addirittura alla «pubblicità odierna» (p. 339): come nel Congedo, allorché Pozzi diffida dal porre gli sperimentalismi novecenteschi «sotto il denominatore d’una sola eversione e rivoluzione con la maiuscola» (ivi, p. 340). Così, dopo aver menzionato in sequenza i poeti figurativi latinoamericani e gli artisti visuali della neoavanguardia, le cui pratiche risentono di condizioni socio-politiche di segno opposto, chiosa in modo lapidario: «D’altronde a quale rivoluzione si rifacessero i futuristi italiani, sappiamo; e non loro soltanto. Tutto il resto è mitologia» (ibid.).
È soprattutto in passaggi come questo che la disamina storico-letteraria, all’occorrenza finanche antiquaria, di Pozzi lascia trasparire la sua profonda natura di critica viva: il che si apprezza così nelle tesi come nello stile argomentativo e nel ‘gesto mentale’ dello studioso. La terminologia preziosa e la calibrata metaforica forniscono, da questo punto di vista, una sorta di sintomo paradossale. Si tratti di illustrare fatti o artefatti della storia letteraria, forme o vicende (e proprio Forme e vicende si intitola, significativamente, la Festschrift allestita dagli allievi nel 1988), Pozzi non lesina immagini eccentriche e sontuose: una cifra stilistica che salta ancora di più all’occhio nei due libri dalla maggiore ambizione sistematizzante, il già citato La parola dipinta e il suo ‘gemello’ Poesia per gioco (il Mulino, Bologna 1985), designato dallo stesso sottotitolo come «prontuario di figure artificiose». Queste immagini, talvolta mimetiche rispetto ai testi sondati, inverano nella scrittura quella speciale attrazione verso la bellezza e la bizzarria (per alludere obliquamente a una figura affine, sebbene d’altra specializzazione e d’altra generazione: Mario Praz) di cui si è detto all’inizio. Eppure, dei due corni dell’amato Seicento – il capriccio barocco e la tensione alla scienza e al concetto – lo studioso svizzero sembra propendere per il secondo. Valga come campione ultimo un lacerto dal volume che si è appena menzionato: in cui, dopo avere definito la lingua come l’espressione di «due ordini di immagini, cavate da entità fisiche diverse: il suono e la luce, che si rifanno a due parametri percettivi diversi: acustico ed ottico» (ivi, p. 10), e dopo avere illustrato il carattere transeunte della «parola in quanto suono» e quello statico della «parola in quanto luce» (ivi, p. 11), così definisce quest’ultima: «è un insieme di tratti che formano delle figure (le lettere dell’alfabeto); è un insieme di figure che formano a loro turno, messe in rango, delle linee; è un insieme di linee che fanno a loro volta delle superfici» (ibid.). In questo ganglio dell’argomentazione, volto a sfumare (senza tuttavia negarla del tutto) la distinzione classica tra parola e figura, sembra fuori di dubbio che il ‘pensare per immagini’ di Pozzi non abbia nulla di impressionistico o di confusivo, inclinando piuttosto a una descrizione plastica ed esatta dell’oggetto della teoresi.
[Foto: Padre Pozzi a Roseto, visto da Luigi Bianchi (1966). L’immagine è esposta nella Mostra bio-bibliografica “Giovanni Pozzi. Il convento, l’università, la biblioteca. Lugano, Biblioteca Salita dei Frati, 26 maggio – 31 agosto 2023].
STORIA LETTERATURA E POESIA:
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A GIOVAN BATTISTA MARINO E AL PADRE GIOVANI POZZI, UN OMAGGIO (24 GIUGNO 2023).
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MEMORIA E POESIA: GIOVAN BATTISTA MARINO. A NAPOLI, NELLA Basilica di San Domenico Maggiore, NELLA “NAVATA SINISTRA. Ottava cappella (…). Sull’altare, Madonna della Neve tra il Battista e S. Matteo, splendido gruppo marmoreo di Giovanni Miriliano da Nola (m. 1558), che vi lavorò nel 1536”, c’è “A destra, cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682). A sinistra, monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580). Sul pavimento a sinistra lapide sepolcrale di fr. Vincenzo Maria Zaretti. ( https://museosandomenicomaggiore.it/descrizione-capolavori-ogni-cappella-san-domenico-maggiore/ ).
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FILOLOGIA E CRITICA: GIOVANNI POZZI E GIOVAN BATTISTA MARINO. Una nota del “professore con la rosa in mano” dal saggio (v. sopra) di Francesco de Cristofaro:
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“IL PROFESSORE CON LA ROSA IN MANO. PER GIOVANNI POZZI. […] La psicologia cui [Giovan Battista Marino] si rifà non è quella della filosofia scolastica che parlava dei sensi interni e dei fantasmi come di tramiti necessari tra il senso esterno e l’intelletto possibile ed agente; è piuttosto una psicologia connessa con le scienze occulte, le quali infatti coprivano quelle zone psichiche che oggi appartengono alle discipline che studiano l’inconscio. Nel caso nostro poi non si tratta di un inconscio generico e teorizzato, ma di un inconscio di cui il poeta stesso era il portatore: come infatti non vedere, nei folletti che sfuggono a Pandora o nei fantasmi che popolano l’arsenale di Mercurio, gli incubi del cortigiano o i desideri repressi del collezionista, due tratti tra i più rilevanti nella vicenda umana di Marino? Quanto alla parte strettamente intellettuale, essa si esplica qua dentro nella confezione di congegni miracolosi (e qui si noti come il prodotto delle discipline speculative sia rappresentato non in termini di pensieri e teoremi astratti, ma nel risultato concreto del libro, un prodotto non dissimile dalle fabbriche meravigliose dell’arte meccanica); e si esplica ancora nella contemplazione delle bellezze femminili, dove il motivo intellettualistico della visione platonica è connesso con quello del cupido guardare del voyeur. Insomma la struttura psichica che il Marino raffigura non si compone, come ci saremmo aspettati da un poeta ubbidiente alla filosofia corrente allora, di senso comune, di intelletto possibile e agente, di memoria e volontà, ma di fantasia sognante, di istinti profondi e di ingegnosità fabbrile, il tutto sottoposto al capriccio delle stelle.
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Siamo nelle note di commento all’Adone (a cura di G. Pozzi, Adelphi, Milano 1976, II ed. 1988, t. II, p. 437), esattamente a metà dell’opera: mentre il protagonista del poema ascende al cielo, il suo interprete scava nelle concrezioni culturali e nei «principî gnoseologico-stilistici» (ivi, p. 436) che si addensano nella parola mariniana e che nell’episodio selenico configurano la struttura intellettiva dell’uomo come una «macchina» (ibid.). […]” ( https://www.leparoleelecose.it/?p=47151 ).
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Federico La Sala
P. S. STORIA E STORIOGRAFIA. Note di approfondimento …
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L’ONDA LUNGA DEL RINASCIMENTO MERIDIONALE E E LA LEZIONE CRITICA DI PADRE GIOVANNI POZZI: GIOVAN BATTISTA MARINO, LE “DICERIE SACRE”, E DUE MAGISTRATI DELLA FAMIGLIA PEPI DI CONTURSI TERME (SALERNO), NELLA BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE A NAPOLI.
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A) – MEMORIA E STORIA: BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE (NAPOLI). NELLA CAPPELLA CON L’ALTARE dove c’è la “MadonnadellaNeve tra il Battista e S. Matteo”, a destra, c’è il cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682) e, a sinistra, il monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580), illustri giureconsulti “da Contursi”, con una lapide su cui è scritto: “Bartholomaeo Pepi Iurisconsulto, qui claros gessit summa continentiae et æquitatis laude Magistratus, Parenti optvmo Hieronymoque germano fratri et nomini in omnibus vitæ partibus integerrimo. Marcus Antonius Pepi Dominus Contursii, Sancti Angeli Fasanellæ, Optati, Optatelli, et aliorum Benemerentibus. Anno Domini M.D.LXXX»”.
B) – POLITICA RELIGIONE E ARTE NEL REGNO DI NAPOLI: 12 SIBILLE CON I CARMELITANISCALZI NELLA TERRA (DEL PRINCIPE DI EBOLI E) DELLA FAMIGLIA PEPI. A CONTURSI, nell’ attuale Città di CONTURSI TERME (SALERNO), una grande pala d’altare, collocata sull’altare della Chiesa della Madonna del Carmine, con pareti affrescate con le figure di 12 Sibille, fu commissionata e dedicata dal giureconsulto Paolo Pepi, alla memoria dello zio Paolo Antonio Pepi: «AD HONOREM SACRATISS. VIRGI DE MO/TE CARMELO, ET IN MEMORIA CELE/BERRI IUREC: D. PAULI ANTO. PEPI/… PAULUS PEPI IUREC: PRONEPOS/ / F/EC. ANNO DOMINI 1608/IACOBUS DE ANTORA NEAP. PNGB».
C) – LA “PRISCA TEOLOGIA”, LE SIBILLE E I PROFETI DELLA “CAPPELLA SISTINA”, E ISAAC CASAUBON (Ginevra, 18 febbraio 1559 – Londra, 1º luglio 1614). “Nel 1608, in piena bufera controriformistica, pochi anni prima che in tutta Europa divampassero le guerre di religione e che il filologo Isaac Casaubon (De rebus sacris et eccleslasticis exercitatíones XVI. Ad Cardinalis Baronii prolegomena in Annales, Londra 1614) demolisse “in un sol colpo la costruzione del neoplatonismo rinascimentale con alla base il culto dei prisci teologi principale dei quali era Ermete Trismegisto; […] la posizione del mago e della magia rinascimentali con il relativo fondamento ermetico- cabalistico; […] il movimento ermetico cristiano non magico del XVI secolo; […] la posizione di un ermetico estremista, quale era stato Giordano Bruno; […] tutti i tentativi di costruire una teologia naturale sull’ermetismo, come quello in cui Campanella aveva riposto le sue speranze”, un ignoto teologo e filosofo carmelitano rimedita nelle linee essenziali il problema e la lezione di Niccolò Cusano, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e, con l’aiuto di modesti artisti, a Contursi – in provincia di Salerno, nella chiesetta di Maria SS. del Carmine (monastero di padri carmelitani dal 1561 al 1652), scrive il suo poema sulla nascita e sulla pace fidei. […]” (Cfr. Federico La Sala, “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989): . http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195).
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D ) GIOVAN BATTISTA MARINO, LE “DICERIE SACRE” (1614), E LA PROPOSTA DI “LETTURA” DI GIOVANNI POZZI: “[…] Possiamo accogliere l’indicazione metodologica di Pozzi anche per quanto riguarda il rapporto con il mito, qui assunto da Marino come “prisca teologia”: sulla scorta di una lunga tradizione, s’intende, ma declinata secondo modalità, se non del tutto inedite, certo pochissimo praticate. Subito all’inizio, Marino rintraccia in molti miti pagani il nucleo di altrettante verità cristiane. L’elenco è sorprendentemente lungo:
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Piú oso di dire: che sotto queste bende misteriose non solo si celano le fallacie delle
bugiarde Deità degli Etnici, ma chiunque con zelo pio e con ingegno catolico prende a spiarle addentro, [Fulgen.] vi può contemplare eziandio adombrati assaissimi sacramenti della Cristiana religione. Cosí ritroverà in certo modo (quantunque imperfetto) figurata la Trinità in Gerione, la generazione eterna in Minerva, la creazione dell’uomo in Prometeo, la rovina degli Angioli ne’ giganti, Lucifero in Fetonte, Gabriello in Mercurio, Noè in Deucalione, la moglie di Lot in Niobe, Giosuè in Leucotoe, la conservazione del mondo in Atlante, l’incarnazione del Verbo in Danae, l’amor di Cristo in Psiche, le battaglie col diavolo in Ercole, la predicazione in
Anfione, la risuscitazione de’ morti in Esculapio, l’instituzione del Sacramento in Cerere, la passione in Atteone, la discesa al limbo in Orfeo, la salita al cielo in Dedalo, l’incendio dello Spirito Santo in Semele, l’Assunzione della Vergine in Arianna, il giudizio in Paride, e cento, e mille altre menzogne al vero applicabili, che studioso della brevità tralascio.
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Una simile presa di posizione, che inevitabilmente finisce, […] per parificare mito pagano e religione cristiana, non passò certo inosservata […]
Marino cerca dunque di dimostrare che «la figura di Pan è figura di Dio» e, piú esattamente, di Cristo, procedendo ad un minuzioso e sofistico raffronto punto per punto. Eccone uno stralcio:
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Pan fu figliuolo di Demogorgone: Cristo è figliuolo del Padre eterno; Demogorgone fu da’ creduli della vecchia età stimato primo di tutti gli altri Iddii, [Lactan. Stat.
Lucan.] eterno di tutte le cose padre, da niuno generato, intorniato di nuvoli e di
nebbie, e nelle viscere della terra abitante. Questo è simbolo del Padre, capo e radice di tutta la divina natura (parlo in quanto all’origine, non in quanto al tempo) Iddio
terribile e formidabile (che tanto monta l’interpretazione di quel nome Greco) onde fu a lui in particolare assegnato l’attributo della potenza: da niuno altro prodotto,
essendo egli principio della eterna produzzione; di tutte le cose genitore, perché
tutte le cose creò: ma nascosto dentro latebre oscure e caliginose, per esser impenetrabile agl’intelletti de’ mortali: [Psal. 17] posuit tenebras latibulum suum. [Psal. 96] Nubes
et caligo in circuitu eius. Alcuni confusero queste due deità [Theodont.] e volsero che tra
Pan e Demogorgone non fusse differenza alcuna; ed ecco l’unità dell’essenza tra
Padre e Figlio, che quantunque personalmente distinti, in quanto però alla sostanza
divina sono amendue una cosa medesima.
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Accenno appena al provocatorio inserimento di Demogorgone, qui assurto
– ovviamente sulla scorta di autorità anche irreprensibili – a padre di tutti gli
dei e confondibile con Pan, in un rapporto che sarebbe figura di quello che
il Padre e il Figlio intrattengono tra loro; con una notevole forzatura rispetto alla fonte primaria, già indicata da Pozzi nelle Genealogie deorum gentilium, i 3. […]” ( Cfr. PIERANTONIO FRARE, “ADONE. IL POEMA DEL NEOPAGANESIMO”, “Filologia e Critica”, Salerno Editrice, maggio-dicembre 2010, pp. 229-231, senza le note).
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Federico La Sala
P. S. 2. – FILOLOGIA, LETTERATURA, E “STORIA NOTTURNA”:
“PRISCA TEOLOGIA” E “DICERIE SACRE” (GIOVAN BATTISTA MARINO,1614).
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In memoria di Giovanni Pozzi
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FILOLOGIA E CRITICA: “[…] E chi non sa che sotto l’invoglio di così fatti velami et enimmi soleva molti, anzi tutti i più riposti e maravigliosi secreti nascondere la supestiziosa antichità? Che perciò ritrovate furono le statue de’ sileni, le cui concave viscere erano gravide de’ simulacri degl’iddii, accioché i divini arcani si tenessero alla gente vulgare appannati et occulti.” (G. B. Marino, “Dicerie Sacre”, 1614).
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“DIVINA COMMEDIA” (DANTE 2021) E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Per meglio capire “il problema Socrate” e gli interi millenni di labirinto (Nietzsche) e, possibilmente, uscire dall’inferno antropologico ed epistemologico della “storia notturna” (Carlo Ginzburg) in cui ancora ci agitiamo pericolosamente, forse, è opportuno portarsi oltre “il platonismo classico” con chi, come Dante Alighieri, ha saputo ascoltare il canto delle Sirene e con Giasone (“Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinquesecoli a la ‘mpresa, / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.” (Pd. XXXIII, 94-96), ha saputo “ricostruire” la nuova Arca, la nuova Argo, e, finalmente, sollecitare a riprendere la navigazione nell’oceanoceleste (Keplero a Galileo Galilei, 1611).
Federico La Sala
P. S. 3 – ANTROPOLOGIA, ARTE, E STORIOGRAFIA: UNA “SOPRAVVIVENZA” DELLE “DICERIE SACRE” (G. B. MARINO, 1614) IN UN LAVORO IN CRETA DI ANTONO CANOVA (1757-1822).
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RI-LEGGENDO INSIEME LE “DICERIE SACRE” (1614) E IL POEMA “ADONE” (1623) di GIovan Battista Marino E RECUPERANDO (alla luce delle indicazioni date dal “professore con la rosa in mano”) il contesto ideologico del programma umanistico-rinascimentale della “prisca teologia” e della “docta religio”, e, AL CONTEMPO, RIPONENDO ATTENZIONE a un “modello in creta della dea Venere che abbraccia Adone morente”, realizzato da Antonio Canova (https://www.meisterdrucke.it/stampe-d-arte/Antonio-Canova/1088435/Venere-e-Adone-di-Antonio-Canova-(1757-1822) ,-modello-in-creta.html ), forse, non appare (cum grano salis) ben visibile il filo che lega l’orizzonte storico-culturale di Michelangelo Buonarroti con quello di Giovan Battista Marino, e, infine, gli stessi Carmelitano scalzi di Contursi Terme (Salerno), che affrescano e dedicano (nel 1613) la loro Chiesadella Madonna del Carmine con la figure di 12 Sibille?
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Qualche anno più tardi, dopo la morte di ShaKespeare, Cervantes, e Garcilaso El Inca de la Vega nel 1616, prenderà il via la Guerra dei Trent’Anni e tutti i sogni di una “pace della fede” (Niccolò Cusano, “De pace fidei”, 1453) vanno in fumo.
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Federico La Sala
P.S. 4 – ADE, ADONE, E… IL NODO “INVISIBILE” DEL LEGAME TRA EROS E THANATOS. IL DISAGIO DELLA CIVILTA’ (S. FREUD, 1929) E IL PROBLEMA (L’ ENIGMA DELLA SFINGE) DELLE “COSTRUZIONI NELL’ANALISI” (S. FREUD, 1937).
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DA GIOVAN BATTISTA MARINO A OVIDIO… “RIVISITATO”:
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[VENERE] lamentandosi col destino disse: “Non, però, di ogni oni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in un fiore. […] Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare […] E un’ora intera non era passata: quando dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno, i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. E’ un fiore, tuttavia, che dura poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali ” (Ovidio, Le Metamorfosi, X, vv.731-739).
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Allegato: Immagine di “Adonis Annua” ( https://powo.science.kew.org/taxon/urn:lsid:ipni.org:names:708062-1).
P. S. -5 – LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO, LA STORIA DELL’EUROPA, E LA STORIOGRAFIA:
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EL GRECO E LA FINE DELL’ EGEMONIA DELLA “CATTOLICISSIMA” SPAGNA IN EUROPA.
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Una nota a margine della Mostra “EL GRECO” (Milano – Palazzo Reale, dall’11 ottobre 2023 all’11 febbraio 2024).
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VEDUTA DI TOLEDO. Se è vero, come è vero, che El Greco (Candia, 1541 – Toledo, 7 aprile 1614), è tra le figure più importanti del tardo Rinascimento spagnolo ed è spesso considerato il primo maestro del Siglo de Oro, non si può non pensare che, almeno, a partire dalla sua opera “Veduta di Toledo->https://www.metmuseum.org/it/art/collection/search/436575%5D“, l’Autore “registra” artisticamente e unitariamente un’immagine di grande bellezza e di forte preoccupazione: una minacciosa tempesta si addensa nel cielo della città di Toledo.
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Considerato l’arco della vita di Domenikos Theotocopoulos, e, al contempo, il fatto che questa “Veduta di Toledo” è del 1599, forse, può essere utile ricordare che, nel 1586, egli celebra, in forma gloriosissima e cattolicissima, la Spagna di Filippo II con la straordinaria “Sepoltura del conte di Orgaz”, e, ancora, che di lì a poco, nel 1588, c’è “la sconfitta dell’Invincibile Armada”, e, infine, che, dal 1599 al 1614, l’egemonia politico-religiosa della Spagna e della Chiesa cattolica è del tutto finita e l’intera Europa si prepara già a una “guerra civile” di lunga durata (la guerra dei Trentanni: 1618-1648).
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VEDUTA E MAPPA DI TOLEDO. La “Veduta e mappa di Toledo, 1608 – 1614”, a ben vedere, registra da parte di El Greco proprio la consapevolezza artistica e culturale di tale atmosfera:
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“[…] L’opera, realizzata nel periodo che va dal 1600 al 1614, parla di un mondo che è completamente cambiato. Parla delle intuizioni di un monaco bruciato vivo nel 1600 a #Roma, quel #GiordanoBruno, che aveva smontato per sempre il sistema geocentrico; parla della visione angosciata di un #Pascal esposto a un universo sconfinato e vuoto. Il fatto stesso che nel nostro puzzle toledano gli elementi non appartengano a un insieme logico, che tutto sia distinto e separato, viene espresso magistralmente attraverso un punto di vista impossibile.[…]”( cfr. Michael Jakob, ” Vedere / El Greco, Vista e mappa di Toledo”, Doppiozero, 16 maggio 2020: https://www.doppiozero.com/el-greco-vista-e-mappa-di-toledo).
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Federico La Sala
COSMOLOGIA, MITO, STORIA E LETTERATURA: EQUINOZIO D’AUTUNO, “VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO” (DANTE), “ADONE” (GIOVAN BATTISTA MARINO), ED ELEUSI 2023.
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In memoria di Giovanni Pozzi
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Ricordando che quest’anno, 2023, una delle capitali europee della cultura è la città di ELEUSI (Eleusis2023), legata ai Misteri Eleusini, non è male richiamare, in collegamento con l’Equinozio di Autunno (23 settembre 2023), che gli antichi rievocavano la discesa del Sole negli Inferi con mitologie molto simili tra loro – una su tutte: il rapimento di Persefone (-Proserpina, figlia di Demetra – Cerere) a opera di Ade (Plutone); e, ancora, che non è male rileggere le opere di Giovan Battista Marino ( “Dicerie sacre” e “Adone”), di Ovidio (“Metamorfosi”). e di Dante (“Divina Commedia”):
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“[….] Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ‘mpresa, / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo” (Par. XXXIII, 94-96).
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Federico La Sala