di Adelelmo Ruggieri

 

Grandi viaggi, rubrica a cura di Adelelmo Ruggieri

Dal 1945, gli stati dotati di armi nucleari hanno fatto esplodere oltre 2.000 armi nucleari, colpendo le comunità di tutto il mondo.

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C’è ragione di pensare che il grande viaggio nel Continente Nuovissimo di Robert Louis Stevenson sia stato molto faticoso, che dovette fare fronte a innumerevoli difficoltà, che un qualche agio economico, che dovette pur starci, un poco le diminuisse; piuttosto il suo carattere virtuoso e disposto sempre alla letizia; piuttosto le acque trascendentalmente azzurre, le notti di una chiarezza divina; e lo sforzo di trovarsi in paesi così distanti per usi e costumanze è come trovasse sempre sollievo nella sua volontà di comprendere e nelle scene di oceano, il grande mare esterno, e atolli e isole e arcipelaghi, tanto mirabilmente tradotte da Corrado Alvaro; così coscienti, quelle scritture, di quello che nella quarta di copertina del libro viene detto l’ambiente locale, e così coscienti della enormità della natura, come a Fakarava, quando vi giunse il nove settembre del 1888: «L’aria era molto chiara, il mare levigato. C’era un mormorio lungo la spiaggia come di un treno lontano. Poi i boschi cessarono e un bassofondo smeraldino indicò il punto d’entrata. Le acque che scorrevano sottobordo assumevano sorprendenti sfumature azzurre e grigie, e nella loro trasparenza il corallo ramificava e fioriva»; oppure nella baia di Anaho, a Nuku Hiva, la maggiore delle Isole Marchesi, 1.400 km a nord est di Tahiti: «Sulle bellezze di Anaho si potrebbero scrivere volumi. Ho veduto sorgere il giorno in molti luoghi del mondo; è stata una delle più grandi gioie della mia vita, ma l’alba che mi ha fatto maggiore impressione l’ho veduta brillare sulla baia di Anaho. Le montagne scoscese strapiombavano sul porto con ogni varietà di superfici e d’inclinazione, praterie, picchi e foreste. Ognuna con un suo colore, zafferano, zolfo, garofano, rosa.» Anche ogni biografia ha il suo proprio colore, e quella di Stevenson [Edimburgo, 13 novembre 1850] fu breve, segnata dalla malattia, laboriosa e lieta. Ho tentato una sorta di media fra le diverse note biografiche che ho letto; fu viaggiatore così pressoché inesausto ed ininterrotto, per terra e per mare, da produrre non poche inevitabili discordanze in quelle note. Tra il 1862 e il 1864 fu con la famiglia in Germania, in Olanda, in Italia e in Francia a cercare climi più clementi. Tra il 1873 e il 1879 di nuovo molte volte in Francia, viaggiando in canotto o a piedi o in compagnia dell’asina Modestine. Di tutto racconta. In Francia, nel 1876, a Grez incontra Fanny Van de Grift, sposata Osbourne, in attesa di divorziare, e si innamora. Nel giugno 1879 la raggiunge in California e l’anno seguente si sposano. Il viaggio di nozze lo trascorrono in un accampamento di minatori sul monte Saint Helena, a nord di San Francisco. Gli anni a seguire furono segnati dalla lotta contro il male che lo minava, tra miglioramenti e crisi, tra ritorni in Scozia e soggiorni in Svizzera e sulla Riviera. Nel maggio 1887 muore il padre, tre mesi dopo parte con la famiglia e la madre per New York. Trascorse l’inverno di quell’anno sulle montagne dell’Adirondack, a Saranac Lake. Il 28 giugno 1888 parte da San Francisco per i mari del sud per stabilirsi nella primavera del ’91, in via definitiva, ad Upolu, 2.400 km da Tahiti, la seconda per grandezza delle isole Samoa, e qui, ad Apia, costruisce una casa sulle pendici del monte Vaea. Muore improvvisamente nel ‘94, il 3 dicembre. Sì, la vita di Stevenson fu breve, segnata dalla malattia, laboriosa in sommo grado e lieta, e “lieto” non è aggettivo a caso, è quello che volle portare con sé, in cima al monte Vaea, dove venne seppellito: Under the wide and starry sky / Dig the grave and let me lie / Glad i lived and gladly die / And i laid me down with a will / This be the verse you grave for me / Here he lies where he longed to be / Home is the sailor, home from the sea / And the hunter home from the hill. – Sotto il grande cielo stellato / Scavate la mia fossa e lasciatemi lì / Lieto io vissi e muoio lietamente / Mi stendo per sempre con una volontà / Ecco i versi che voglio incisi per me: / Qui dove voleva egli giace / A casa il marinaio è tornato dal mare / A casa dalla collina il cacciatore torna. Ma il suo libro, Nei mari del sud [Tarka, 2018], non termina ad Apia, è ancora di là da venire, ma ad Apemama, un atollo delle Gilbert, l’arcipelago principale delle Kiribati, 1° 19′ 45″ a nord dell’equatore, nel centro dell’oceano, il cui re, Tembinok, può fare ogni sorta di cosa “meno che intervenire nella cottura di una torta”; “Io ho potere” è il suo intercalare favorito, pensiero che lo perseguita ed è sempre rinnovato, e dopo che vi ha interrogati e ha meditato sulle contrade straniere vi guarda sorridendo e vi ricorda, Io ho potere, e si compiace di possederlo ed esercitarlo, scrive Stevenson. Molte sono le pagine dedicate a Tembinok, dai modi semplici, cordiali, sensati e dignitosi. Da quaranta anni governa Apemama e per lungo tempo «mai si era rassegnato a essere la vacca da latte dei mercanti di passaggio e resistette eroicamente, ma la disonestà dei bianchi che avviluppa tutto il mondo lo precedette, i suoi profitti furono annientati, i suoi battelli ritornavano indebitati, aveva perduto tutto», e allora cedette, riconobbe che era inutile lottare contro i venti del cielo e a coloro con i quali traffica domanda solo decenza e moderazione. L’ultimo giorno ha poco da dire. Stringe la mano a Robert e Fanny, poi li conduce a bordo nella sua scialuppa. Quella stessa notte le cime delle palme di Apemama erano scomparse dietro il mare, e lo scuna navigava solitario sotto le stelle. E il libro a questo modo termina, con il veliero che si allontana nell’oceano e nella notte per arrivare sino a noi.

 

Chiusi il libro, lo riposi. Presi a guardare dov’è che stavano quelle isole sperdutamente lontane, come stessero reciprocamente posizionate; dove mai fossero Taiaro – «che forse vuole dire Perduta nel mare» –, Fakarava, Nuku Hiva, Upolu, Apemama. Vidi le distanze; lessi le coordinate, le notizie in evidenza. Fu a questo modo che incontrai un atollo delle Taumotu del quale mi tornarono alla memoria nome e vicende, Mururoa, 1.200 km a sud est di Tahiti. Venne utilizzato dalla Francia, insieme al vicino Fangatuafa,  tra il ’66 e il 96, per i suoi 193 test nucleari nei territori d’oltremare. Ventuno anni prima, il sedici di luglio, ad Alamogordo, nel deserto del Nuovo Messico, venne condotto dagli Stati Uniti d’America il primo esperimento atomico. Meno di un mese dopo ci furono Hiroshima, il 6 agosto, e Nagasaki, il 9 agosto.

 

Noi abbiamo potere, ripetono, ogni dove e sempre, le Potenze: lo possediamo e lo esercitiamo.

 

[Immagine: Taiaro]

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