di Paolo Febbraro e Stefano Modeo

 

[Esce in questi giorni per Industria & Letteratura Conversazione, un libro intervista tra Stefano Modeo e Paolo Febbraro. Ne proponiamo un’anticipazione]

 

«Il critico militante, se veramente laico, somiglia a un monaco o a un guerriero, ma solo per lo stile di vita intellettuale. Il difficile, e forse l’assurdo, è nell’essere monaci e guerrieri senza una chiesa e senza un esercito. Per questo i critici militanti sono impopolari. Nessuno li sostiene, anche perché non è chiaro per cosa militino, ammesso che militino a favore di qualcosa. E come può militare chi non ha né esercito né chiesa? Il loro vero nome dovrebbe essere “critici assoluti’’, sia nel senso etimologico di sciolti, sciolti da qualsiasi legame, e quindi liberi, sia nel senso che cercano l’assoluto (per questo sono simili ai monaci e ai guerrieri: i primi cercano dio e i secondi la morte) perché vogliono trovare la poesia, la quale c’è o non c’è, e anche quando c’è non si sa cos’è. Per questo il loro atteggiamento non può che essere epistemologico: si tratta di fondare il senso, di dare senso a quel mondo lì, quello che si manifesta in quella poesia. Perché una poesia è tutto il mondo o non è niente.»[1]

 

Volevo partire da queste parole di Giorgio Manacorda per cominciare la nostra Conversazione. I critici militanti sono impopolari, nessuno li sostiene perché vogliono fondare il senso di una poesia. Sono affermazioni, queste, attuali e forse ancora cariche di una certa speranza nei confronti di una figura oggi sempre più rara. Guardandosi intorno, infatti, si fa fatica a trovare, se non una chiesa, almeno uno spazio in cui possa manifestarsi la natura di questa figura, in cui il guerriero – critico possa confliggere e confrontarsi senza filtri. Credi, più in generale, che questa assenza sia la risposta naturale ad un periodo storico, in cui si rinuncia alla complessità e al confronto o credi semplicemente che le modalità e gli spazi della critica stiano mutando radicalmente?

Ogni giorno che passa ho maggiori difficoltà a entrare in rapporto con termini quali “periodo storico”, “rinuncia alla complessità”, “spazi della critica”. Recentemente, Alfonso Berardinelli mi ha raccontato che – lui ventenne – nei primi anni ’60 si recò a un incontro tenuto in una nota libreria romana, cui partecipavano Italo Calvino e Franco Fortini. «Non idealizzare i vecchi tempi – mi ha detto –. Erano presenti in tutto dieci persone». La tiratura della battagliera «Officina» era del tutto simile a quella – trent’anni prima – della raffinata «Solaria». Negli anni Venti dello scorso secolo, Pirandello veniva satireggiato per il suo cerebralismo, Svevo era completamente ignorato, Tozzi moriva asfissiato nella sua provincia. Prima ancora, per Palazzeschi era chiarissimo che «gli uomini non dimandano / più nulla dai poeti»[2], Guido Gozzano tracciava versi perfetti, minuscoli e riarsi, Moretti non aveva niente da dire, Corazzini non era un poeta ma un «fanciullo che piange»[3], e Slataper poteva serenamente rifiutare per «La Voce» uno dei più begli scritti di poetica del XX secolo, Quel che resta da fare ai poeti di Umberto Saba. Il campo era dominato dalle gesticolazioni di due cretini geniali come D’Annunzio e Marinetti, il primo con una maschera ieratica e insieme erotica, il secondo con l’elmetto dell’incendiario autorizzato. Per fortuna Pascoli – in una trentina di poesie, che è tantissimo – sapeva trarre il massimo profitto dalle perversioni e morbosità altrimenti inguardabili del suo fanciullino, cecità e visione, sordità acutissima. Prima ancora, credo che Rosso Malpelo e I Viceré stringano in una morsa atrocemente solidale il basso e l’alto della Nuova Italia. Quella devastante lucidità è quanto di meglio abbiano prodotto le magnifiche sorti e progressive d’inizio Ottocento. Leopardi si era incaponito a contemplare i deserti perché già avvertiva che la poesia non contava e non avrebbe contato quasi nulla; e Manzoni era passato al romanzo, ben sapendo che il proprio pubblico era costituito da un cardinal Federigo, da cento Renzo e Lucia e da mille Don Abbondio.

 

Di fatto, sono duecento anni che molti scrittori e intellettuali cercano di “andare verso il popolo”, spesso criticando il disimpegno dei “letterati puri”. Ma oggi Sciascia e Landolfi hanno più o meno lo stesso numero di lettori, e immagino che il 99% degli italiani con laurea o diploma ignori chi siano Alberto Savinio e Nicola Chiaromonte, fra i massimi autori dello scorso secolo.

Dunque, temo proprio che di “periodo storico” e “rinuncia alla complessità” si debba parlare solo evitando di ritenerli attuali. Cosa diremmo se ci trovassimo nel 1560, alle prese con l’ennesimo volumetto di esercizi petrarchistici o con le prescrizioni di un corrucciato aristotelico?

 

Negli anni della mia attività letteraria, ho imparato ad assumere su di me tutto il peso di un’ovvietà: intuire, esprimere la complessità – magari in termini paradossalmente “tradizionali” e non prevedibilmente “complessi” né puramente mimetici – è un atteggiamento che si sconta con molto dolore personale, ma che reca anche un inevitabile rifornimento narcisistico. E io non vedo – davvero, non vedo – perché non solo le famigerate “masse”, ma anche giornalisti e professori dovrebbero occuparsi di persone simili a me, o di me individualmente. Quando ciò capita, la mia prima reazione è lo stupore, poi interviene un misto di soddisfazione e di ritrosia. Diversi anni fa ho pubblicato due libri “fratelli”, il primo è Il Diario di Kaspar Hauser, l’altro è L’idiota. Una storia letteraria. La figura dell’idiota mi ha richiamato perché l’idios greco è “l’uomo privato e non pubblico, l’uomo che fa per sé stesso”. Ma il bello è che per compiere uno scarto laterale, per rifiutare il mondo del “così fan tutti” bisogna conoscerne gli esatti contorni, il peso, l’ingombro. Occorre subirlo e avvertire la sua attrazione. Chiunque voglia staccarsi deve fare i conti con la forza gravitazionale, con la nostalgia del radicamento. Così, se pubblico un’opera in versi o in prosa che vende cento copie sono sorpreso che tante persone abbiano compiuto un acquisto così bizzarro. Non sono particolarmente disinvolto nel dialogo con i lettori; lo trovo molto piacevole, ma non ricerco attivamente il contatto. Dunque, non darei mai la colpa al “periodo storico” o alla fuga dalla complessità. Qui in Italia, negli ultimi centosessant’anni ne abbiamo avuti centoquaranta di democrazia liberale. Abbiamo scuole pubbliche semi-gratuite, circa 800.000 insegnanti, la libertà di stampa e grandi tradizioni locali. Di più non si può fare, e va bene così. Bisogna smetterla di pensare che quanto scriviamo sia potenzialmente fonte di felicità, d’interesse o di profondità per moltissimi, e che il Sistema maiuscolo e cattivo impedisca tutto ciò propinando sport e film comici. Personalmente, sono certo che il mondo sia complesso, ma anche che in maggioranza le persone lo vivano come complicato, faticoso o addirittura straziante e omicida. Cerco di fare al meglio il mio lavoro di scrittore, con tutta la verità delle mie invenzioni, ma non giungo a pensare che in un mondo migliore gli altri dovrebbero occuparsene. È bello apprendere che ogni tanto accade, che hai cambiato un tratto della strada di qualcuno.

 

D’altro canto, io scrivo perché ne ho il gusto e il bisogno, e quando comincio non so mai dove andrò a finire. Ma quando organizzo un’opera e la pubblico lo faccio con la massima dignità che riesco ad attingere. So che i miei libri stanno in una sequenza ideale con milioni di altri; che come autore combino parole già utilizzate miliardi di volte. Se una persona entra in una grande libreria, o si collega con Amazon, prima di arrivare al mio libro deve decidere di non leggere per la prima volta un romanzo di Thomas Mann o un saggio di George Steiner, e anche di non cercare una nuova versione del De rerum Natura o dei Fratelli Karamazov. È una bella responsabilità, stare in una simile compagnia, e talvolta riuscire anche a sfidarla amorevolmente! Sento che buona parte dei miei lettori potenziali mi ha già preceduto nella morte oppure non è ancora nata. Pubblico anche per quei lettori. Non sono proprio il tipo che assolutizza il presente. Se sono anch’io un idiota, forse è per questo motivo. Produrre arte è essenzialmente questo, nessuna avanguardia mi ha mai convinto del contrario. Pensare che il proprio presente “esiga” qualcosa o “implichi” qualcos’altro, quello sì, è cattivo narcisismo. Il presente è una stratificazione di tempi psichici e storici complanari ma anche intersecati. Ogni cosa si tuffa e riemerge impregnandosi, porosa e diramata. Il “senso della fine”, che certo non sono il solo ad avvertire in questo secolo, mi rende molto “moderno”, ma quasi mi viene da sorridere se ripenso al sacco di Roma di Alarico, alla Peste nera del 1348, alla “crisi cognitiva” della Nuova scienza, e via dicendo. Per non parlare dei Lager e dei Gulag, ovviamente.

 

Di sicuro esistono anche dei tratti caratteristici. Per tornare alla letteratura, e anzi alla critica militante, un tempo veniva stampato Dei Sepolcri e automaticamente la letteratura era quella: trecento persone la leggevano, la criticavano anche aspramente e la tramandavano. Oggi invece operiamo ricognizioni sulla Letteratura circostante: e cito Gianluigi Simonetti[4] perché lo stimo. Dunque Fabio Volo ha più spazio di Carlo Bordini, soprattutto perché il primo non occorre tanto spiegarlo, quanto spiegarselo. Nella società di massa occorre farsi una ragione di come si comporta la massa. Lo storico della letteratura ha di questi doveri.

È la ragione per cui – come saggista – non mi ritengo né uno storico della letteratura né uno studioso. Non ho l’ingenuità sufficiente per voler essere oggettivo, e quindi non ne ho neppure il desiderio. Se dieci milioni di persone affermano che Fabio Volo esiste, io replico che non mi fido di loro, e non ho neppure voglia di fornire le prove che hanno torto. Comprendi bene come, con queste premesse – storiche? caratteriali? – non si può fare critica militante. Se dovessi impiegare anche un paio d’ore e un paio di paginette a spiegarmi Fabio Volo sentirei su di me il sentimento della morte e dello spreco. Come la sabbia che scivola via dalle dita. È un errore: ma sono fatto così, e allora tanto vale cercare di rendere questo tratto spigoloso una risorsa per qualcosa di buono, di aperto, di responsabile. Manacorda parla di “critico assoluto”, di monaco-guerriero senza chiesa e senza esercito. È chiaro che sta parlando d’altro: del poeta. Un poeta che – nel momento in cui pubblica le sue trecento copie e ne vende la metà – deve decidere (ormai praticamente da solo) se in lui la poesia «c’è o non c’è», poiché «una poesia è tutto il mondo o non è niente».

 

Sono molto attratto dall’estremismo di Manacorda, e questo non mi ha impedito di sospettarne. Ma io stesso ho scritto un buon numero di brutte poesie, quindi di non-poesie. Ho cercato in tutti i modi di non pubblicarle, e qualche volta non ci sono riuscito. Bisogna farsi aiutare; ognuno di noi ha delle aree di opacità. Dal punto di vista individuale ne abbiamo diritto, e anche bisogno; ma dal punto di vista pubblico molto meno. Mi viene in mente l’atteggiamento di Pasolini nei confronti delle proprie opere, almeno per tutto il periodo successivo al 1960. Pasolini mise agli atti decine di semi-lavorati, di progetti pensati come tali, di “incompiuti sistematici”, per usare un ossimoro. Nella Nota introduttiva agli Scritti corsari – non scopro nulla di nuovo – afferma che

«La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti (o altrimenti accepire le ripetizioni come delle appassionate anafore).»[5]

Davvero curioso! L’autore non è più autore, perché aliena da sé frammenti di un’opera dispersa, però sa che è possibile ricongiungere passi lontani, che si integrano, e che nelle contraddizioni c’è unitarietà. E nel momento in cui percuote l’infelice lettore con una sequela di prescrizioni («È lui che deve») già anticipa che quest’anafora è «appassionata». Pasolini si dichiara indigente (di senso, di tempo, di voglia, di diritto) e invece è saturante. Non so se più disperato o più ridicolo. È lui il vero neoavanguardista del secondo Novecento, artista dimissionario e preventivo. Non a caso, i suoi libri più belli sono proprio gli Scritti corsari (1975) e Descrizioni di descrizioni (1979): lì infatti Pasolini ha una cornice, un tempo, uno spazio, un oggetto, e la gabbia della necessità esalta la sua vista e la sua pregnanza.

 

Chi compie un’opera non lo fa per opprimere il fruitore, ma per chiamarlo dentro qualcosa di probabile, dinamico, dialogico. Il lettore non “deve” un bel niente. Da molto tempo, nulla è più dovuto. Per l’ennesima volta, il mondo sta finendo, stavolta con eccellenti probabilità di riuscirci radicalmente. La trasmutazione incessante di forme e sostanze sta avendo un’ampiezza ambientale paragonabile a quella di pochi altri episodi (asteroidi, esplosioni vulcaniche) che in passato hanno determinato le estinzioni di massa. Se oggi il lettore “dovesse” proprio fare qualcosa, dovrebbe fra le altre cose smettere di leggere queste righe, per non consumare l’energia della lampadina, e non comprare neppure un libro, per risparmiare i combustibili necessari a produrlo e metterlo in commercio.

 

Ma certo gli eventi non sono così incatenati fra loro. Sono vittima di un determinismo causa/effetto un po’ facile. Ciò che conta è mantenere la fluidità sufficiente a un’interazione poetica varia, persino felice, anche se mai soddisfatta. L’errore, secondo me, avviene quando un autore trae delle conclusioni sullo stato del mondo e scrive di conseguenza, istituzionalizzando una forma e un linguaggio come fossero la risposta tipica e necessaria. Ma il mondo non è mai uno “stato”, e la parola “conclusioni” è comica di per sé. Un poeta, poi, non è concluso mai, nemmeno con la morte. Il poeta forse ha diritto a un sonnellino ogni tanto, ma non dovrebbe mai prendere le misure una volta per tutte all’ispido guanciale che si trova sotto il capo. Questa fluidità continua, l’imponderabilità delle interazioni, sono sì sfibranti, ma la poesia consiste nel non viverle come travolgenti, semmai come formanti e riformanti. È una fatica non indifferente, credo.

 

Infine, torno per un momento alla critica militante. Sono stato per un ventennio un suo interprete, sui giornali e sull’Annuario di Poesia fondato nel 1994 appunto da Giorgio Manacorda. Oggi partecipo a una rivista, «L’età del ferro», insieme a lui, a Berardinelli, Siti, Marchesini, Zuccato, Pontremoli. Siamo molto diversi fra noi, mi trovo bene e ho grande libertà creativa, in versi e in prosa. Sul web vedo che iniziative come «Le parole e le cose», «Nazione indiana» e «Doppiozero» pubblicano scritti stimolanti e di spessore. E chissà quanti fanno altrettanto. Dunque, non sono sicuro che lo spazio per lo spirito critico si sia assottigliato, anzi. Piuttosto, manca – e ne ho un’ormai sbiadita nostalgia – il reciproco riconoscimento di rilevanza fra gruppi, poetiche, esperienze. Noi autori dialoghiamo e combattiamo troppo poco, tendiamo a relegare l’altro nel silenzio. È segno di una suscettibilità indebita, di una fragilità ombrosa, forse consapevole del proprio difetto. E forse ciò è il portato di una condizione generale: è caduta l’illusione, propria soprattutto del secondo dopoguerra, di avere influenza su eventi e idee collettive; quella sorta di direzione intellettuale dei fatti. Il famoso “popolo” è passato velocemente dal non saper leggere – e quindi dal restare al di qua della letteratura – ai cento canali televisivi e a internet – ponendosi mediaticamente in un al di là quantitativo. In poesia, due sono state le prevedibili risposte, il neo-crepuscolarismo (autoriduzione, quotidianità sperduta, confessione ombelicale) e l’ennesimo rilancio sperimentalistico (atonalità, sgrammaticatura semantica, uso straniato delle forme). C’è stato anche chi ha puntato sul ritorno all’innocenza (come se innocenti si potesse tornare a esserlo senza recitare) o al contrario sull’esibizione dell’Arte, più mostra retrospettiva che vera vita. C’è poi un aspetto ancora più insidioso: una poesia sintatticamente sconnessa, auratica, che pretende però di essere “civile”, un sacerdozio dell’essenziale contro la barbarie. Ecco, se “militare” significa fare i conti con questi fenomeni, ho smesso per sempre. Credo che in letteratura l’etica e l’estetica si compenetrino: se scrivi e pubblichi qualcosa, ciò ti qualifica come persona; ti attribuisce una pretesa, una povertà di visione, oppure una dignità, una bellezza generosa e impegnativa. Questione di spessore umano. Ogni volta c’è in gioco gran parte del nostro essere. Pretendere poco dalla poesia vuol dire usare la sua marginalità sociale e mediatica per giustificare storicamente la propria aridità, magari anche copiosissima e infestante. Da anni, tendo a occuparmi piuttosto di traduzione e di letture diverse, soprattutto di poesia straniera e di saggistica storica, antropologica, letteraria. Eppure, non escludo qualche colpo di coda del vecchio spirito agonistico.

 

Note

[1] Giorgio Manacorda, Apologia del critico militante, Roma, Castelvecchi, 2006.

[2] Aldo Palazzeschi, “Lasciatemi divertire”, in L’incendiario (1910), ora in Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, Milano, Mondadori, 2002.

[3] Sergio Corazzini, “Desolazione del povero poeta sentimentale”, in Piccolo libro inutile (1906), poi in Poesie edite e inedite, Torino, Einaudi, 1968.

[4] Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2018.

[5] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari (1975), Milano, Garzanti, 2011.

1 thought on “Conversazione

  1. Questo pezzo è molto, molto interessante. Direi “veritiero”. Bisogna avere però una certa età (o essere mostruosamente equilibrati da giovani), per accettarlo.

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