di Davide Colussi

 

[È stato ripubblicato in queste settimane presso Quodlibet il volume di Giovanni Pozzi La rosa in mano al professore; per gentile concessione dell’editore riproduciamo due brani della prefazione al volume e il primo capitolo dell’opera]

 

La rosa in mano al professore, pubblicato nel 1974 presso le Edizioni universitarie di Friburgo, si colloca esattamente a mezza via – dal punto di vista cronologico – tra l’esordio in volume di Giovanni Pozzi, vent’anni prima, con la rielaborazione della tesi di laurea sull’oratoria del cappuccino seicentesco Emmanuele Orchi da Como, e le grandi raccolte dell’ultima stagione, che con la loro uscita presso Adelphi assicurano all’autore un più vasto riconoscimento pubblico[1]. Non solo per questa ragione estrinseca, però, il saggio che qui per la prima volta trova ristampa occupa una posizione per certi versi centrale nell’opera critica di Pozzi: è il suo situarsi allo snodo di varie sue linee di ricerca – alcune di lungo corso e anzi originarie, altre incipienti e destinate in séguito a largo sviluppo – a farne quasi un interno baricentro.

 

Certo si tratta di una centralità che l’autore non ha tenuto nel tempo a rivendicare in alcun modo. Pubblicato in sede appartata sotto un titolo enigmatico, lo studio rischia di passare in secondo piano nella sua folta bibliografia. Il luogo editoriale è in effetti quello altre volte riservato ai lavori più strettamente legati all’insegnamento universitario; l’antologia di testi che lo correda ricorda quella di una dispensa; in un’occasione – la lettera di risposta a Carlo Dionisotti, che ne accusava festosamente la ricezione – Pozzi lo classifica non più che un «capriccio professionale»[2]. Uno sguardo ai titoli, assai variegati, dei corsi e dei seminari tenuti da Pozzi a Friburgo conferma nell’idea che i temi dello studio trovino maggiore spazio negli anni che immediatamente precedono la pubblicazione del saggio: Tasso ad esempio vi fa la sua prima comparsa non prima del semestre estivo 1971 («T. Tasso e la poesia del tardo Cinquecento»), un excursus sulla lirica fra Quattro e Seicento, con arco temporale che è il medesimo del saggio a venire, è proposto nel semestre estivo 1972 («Il petrarchismo dal Quattrocento al Barocco»), mentre un seminario del semestre invernale 1970-71, con prosecuzione in quello estivo susseguente, aveva già introdotto, com’è significativo, anche la figura di De Sanctis («Ricerche critiche sulla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis»)[3]. Sottintende una paziente preparazione del terreno, del resto, anche l’amplissima documentazione raccolta in appendice nel Dossier della rosa, che è dichiarata dipendere da «prelievi casuali (formatisi a poco a poco per quel natural modo di deporsi che hanno le notizie negli schedari) e non da letture sistematiche fatte al servizio di questa ricerca» (p. 17).

 

Sono questi gli anni in cui prende corpo il progetto del commento all’Adone di Marino curato con un’équipe di allievi, che vedrà la luce nel 1976[4]. La proposta di un’«edizione di tutto Marino» per i «Classici Mondadori», avanzata dal direttore della collana Dante Isella, risale ai primi mesi del ’70[5]. Si erano nel frattempo avviate verso la loro lenta pubblicazione le Castigationes plinianae di Ermolao Barbaro, primo esperimento di edizione curata collegialmente dalla scuola pozziana sotto la guida del maestro, e l’interesse di Pozzi, in vista di un nuovo lavoro di commento, si stava volgendo ora ai poemi cavallereschi ed eroici, fra i quali il candidato più promettente appariva L’Italia liberata dai Gotti di Trissino[6]. Il ritorno a Marino dopo l’edizione delle Dicerie sacre del ’60, pur con qualche riluttanza («la materia è a me ingrata», scrive in proposito ancora a Dionisotti), segna di fatto anche l’inaugurarsi, dopo un decennio, di una nuova stagione di studi dedicati a testi poetici, filone in séguito tra i più esplorati dal Pozzi maturo. […]

 

Come il lettore apprende sin dalle battute iniziali del primo capitolo, breve preambolo o nartece all’analisi che lo impegnerà severamente nelle sezioni seguenti, il «professore» cui si richiama il titolo è Francesco De Sanctis quale lo raffigura Giacomo Debenedetti nella sua Commemorazione del ’34: «l’eroe, il veggente, l’annunziatore che indossò tutti i giorni, tutti i santi giorni della sua vita, con immutata bonomia, la palandrana del professore» (più avanti: «lo stiffelio del professore», da cui qui, p. 5: «nero nel suo stiffelio»; di lì a poco De Sanctis sarà associato da Debenedetti all’altro «monumentale solitario» che incarna «il genio e lo spirito» del secondo Ottocento, Giuseppe Verdi)[7]. […] Ma se la «storia della rosa» sunteggiata da Debenedetti agisce così profondamente su Pozzi inducendolo all’apertura dell’indagine, ciò non si dovrà addebitare soltanto all’acutezza del rilievo o alla forza icastica della scrittura, che fissa il gesto in una sorta di emblema (di qui discenderà anche il sapore vagamente araldico del titolo). La pagina di Debenedetti è per Pozzi una di quelle «petites portes cachées» di cui parla Proust al riguardo dei ricordi, «que quelqu’un du voisinage nous ouvre, si bien que par un côté du moins où cela ne nous était pas encore arrivé, nous nous trouvons rentré chez nous»[8]. Non alla lettura della Commemorazione, infatti, ma agli anni del ginnasio risale il primo incontro con il tema della rosa nei luoghi citati dalla Storia, disposti in serie da Alfredo Panzini in un suo fortunato manuale scolastico di retorica e stilistica, com’è dichiarato retrospettivamente: «Ridotta a esercizio scolastico, avevo già trovato ancora adolescente la sequenza nel libro di testo in uso nel ginnasio da me frequentato […]; vi era aggiunto un esempio del Lemene. A commento dei brani erano riportati frammenti del De Sanctis. Era proposto come esercizio di “confronti stilistici” ed era seguito allo stesso scopo da una serie di esempi su “Il fiore morente”»[9].

[…]

Anche l’io dell’autore, che nel volume trova uno spazio meno ridotto del solito, è rappresentato alieno dalla modernità: «Sono un pedestre ricercatore di fonti, all’antica» (p. 109), si proclama Pozzi; e forse qualche parcella di autobiografismo è contenuta in un’osservazione riferita a Lorenzo, quando rileva che «con singolaris­simo processo mentale egli riconquista il fantasma dell’oggetto reale seguendo il tortuoso cammino dell’elaborato letterario; tra l’osservazione e la realtà dei referenti, la memoria della fonte letteraria è un’intercape­dine trasparente» (p. 133). Vale però anche l’inverso: nell’appassionato di fiori che Pozzi era, gli oggetti reali (le specie e gli altri referenti del campo semantico) si sovrappongono in qualità di comparanti – qui e in tanti altri suoi scritti, precedenti e successivi – ai testi indagati: «le numerose aiuole dove spuntano rose» letterarie di «ogni specie, nana o mediocre, non altrimenti che […] le giganti o speciose» (p. 7); «l’aiuola […] della figura letteraria» (p. 79); il «campicello ridotto» dell’inchiesta condotta (p. 16); la «diversa presenza e distribuzione di specie e varietà entro il parterre d’un solo tema», le cui cause si possono scoprire «là dov’è più facile lavorare, cioè dove l’erba è meno fitta» (p. 83); la «rosa barocca» che «ha il suo ceppo in terra; nasce dall’improvvisa coltura che certa letteratura alessandrina subì nelle serre della poesia europea tra il cinque ed il seicento» (p. 109), e così via. In forza della protratta analogia, a fianco di De Sanctis nella Rosa fa la sua comparsa anche l’autore in veste di studioso degli esemplari raccolti: un suo “doppio” che ripercorre «in lungo ed in largo il territorio attraversato dal professore, ma con diversa passione; non la sua baldanzosa, ma quella del botanico che a lenti passi e con paziente scrutinio delibera sulle specie e sulle sottospecie: una passione più grigia e quieta, ma pur passione» (p. 7). Con «la lente del botanico», è spiegato in un’allocuzione al lettore che apre il capitolo terzo, a «casa di De Sanctis, nel suo adiacente roseto», si potranno separare «i ceppi in aiuole distinte» e distinguere «col cartellino» le rose che fungono da figurante da quelle che fungono da figurato, quelle sorrette dalla motivazione della qualità da quelle sorrette dalla motivazione della vicenda (p. 127). Ma nell’ultima apparizione del libro, in chiusa della Paraboletta finale, il professore, «rimasto in camicia, è tornato verso il fondo del giardino ai piedi del ceppo dove fiorì la rosa del poeta. E raccoltine i petali che infioravano tristemente il bel pratello, li ha com­pressi fra candide veline, perché ricordino nello spettro disseccato l’an­tico onore. E chiede per ricomporli la pietà di un erbario» (p. 164). Privo dello stiffelio e della baldanza con cui è ritratto in apertura, raduna i petali della rosa sfiorita in un erbario (il «nobile erbario» che tornerà in un saggio successivo a indicare la collezione di figuranti esperiti da un tema)[10]: gesto meglio confacente a chi con «passione più grigia e più quieta» appone cartellini al piede o sugli steli delle rose. Il professor De Sanctis, all’atto di congedarsi dal lettore, viene assumendo le sembianze del suo doppio. In una pagina del Cannocchiale aristotelico Tesauro raccomanda a chi intenda concepire un’impresa araldica di non dare «troppo lume alla figura», e secondo questo precetto sembra avere operato l’autore nell’intitolare il saggio. Nella penombra concessa dal titolo, la figura che vi campeggia con in mano una rosa vale anche come un autoritratto di Pozzi, nel mezzo della sua vita di studioso.

 

* * *

Giovanni Pozzi

Capitolo primo

L’ITINERARIO DELLA ROSA

Il professor Francesco De Sanctis, nero nel suo stiffelio, percorse i secoli centrali della nostra letteratura con una rosa in mano. Così lo vide passare Debenedetti, riferendo lo stiffelio alla sacralità laica del professorato che trasfigurò il suo verbo civile e morale e la rosa alla fragile grazia d’una poesia poetica di fatua poeticità. L’itinerario del professore reggente la rosa non toccò i quartieri nobili e le alte residenze della città letteraria, anzi terminò nel quartiere malfamato del seicento, dove il fiore, colto negli orti medicei sul mattino dell’idillio umanistico, si sfece negli ardori del tramonto barocco. Trapassando la rosa dalle mani di Lorenzo a quelle di Poliziano, Ariosto, Tasso, Marino, il professore tracciò, servendosi in modo geniale di un segno e di un simbolo, una vicenda esemplare dell’anima italiana: la splendida e sconcertante avventura dell’arte nell’amara stagione del declino.

 

Certo Debenedetti ha concentrato in due immagini efficacissime nella loro diversità e contrasto (quella nera dello stiffelio e quella lucente del fiore) i connotati del discorso desanctisiano sul rinascimento: un discorso ora teso ed irritato, ora disteso ed incantato dalle grazie di un’epoca a cui egli intendeva strappare la qualifica di aurea ch’essa si era rivendicata e che fino ad allora le era riconosciuta. Quanto sicuramente efficaci nella rappresentazione dell’animus desanctisiano, altrettanto meno accettabili nei riferimenti puntuali; a cominciar da quello che identifica la rosa con l’ottava. Lì ed altrove quella fantasima è una bella infedele, nulla mai perdendo del fascino che compete all’infedeltà, almeno quando è bella. De Sanctis infatti evoca una prima volta la rosa per chiarire gli elementi propri dello stile di Lorenzo in confronto con quello del Poliziano. L’ottava è certamente per De Sanctis la forma più rappresentativa del nuovo spirito rinascimentale; ma l’esempio tolto a Lorenzo è in terza rima e non riguarda minimamente la corrispondenza di forme a periodi storici. Il confronto fra i due poeti è giocato sugli opposti d’un’arte che non mette diaframma fra sé e la natura e d’un’altr’arte che si veste di porpora e bisso: nuda l’una e paludata, pur senza cipiglio, l’altra. Per l’Ariosto il confronto viene ancora condotto sulla medesima opposizione concettuale di artificio e di natu­ralezza: l’artificio del Poliziano contro la naturalezza dell’Ariosto, una naturalezza tuttavia diversa da quella di Lorenzo, non descrittiva, ma narrativa, sorprendente l’oggetto in azione con miracolosa adeguatezza alla chiarità che ne emana; e qui il discorso coinvolge anche l’ottava in quanto alla naturalezza del dettato corrisponde la naturalezza quasi prosastica della struttura ritmica. Nel Tasso la rosa è il motivo conduttore dell’inno al piacere, svolto con battute ora edonistiche ora dolorosamente sature di morte. Armida è la protagonista di questo mondo ormai ambiguamente idillico, la creatura in cui il potere magico è soggiogato dall’istinto di donna. Gioca qui nel profondo, anche se mai è detto a chiara voce, la suggestione del rapporto fra il simbolo della rosa e la donna, cui De Sanctis accenna nel discorso sul Poliziano (significativo è al riguardo il capovolgimento dei termini della similitudine: «qui la rosa m’ha l’aria d’una fanciulla»). La trasparente bellezza della forma classica tassiana viene fissata in una musicalità interiore, contemplativa e funebre: musica questa che a sua volta concentra in un’immagine un dramma storico ed una sfortunata vicenda individuale. Quanto al Marino, ho l’impressione che De Sanctis ricorra alla rosa per una ragione di puro ordine pratico: il ricorso all’immagine sfruttata nelle analisi precedenti gli permetteva di abbreviare il discorso di prammatica, allora, sulla vuota artificiosità dell’epoca. Al tema ricorrente della rosa De Sanctis lega dunque uno degli elementi di quelle parallele ed equivalenti opposizioni che occupano tutto il suo speculare, l’opposizione fra fantasia ed immaginazione, fra arte e poesia, fra musicalità ed espressività. Il suo volo di ape laboriosa, per riprendere l’immagine di Pindaro, qui veramente di rosa in rosa, risulta forse essere, contrariamente a quanto diceva Debenedetti, piuttosto una selezione esemplificatrice tratta da un solo tema che non la concentrazione di più significati in un solo simbolo. Comunque sia, accostando i ricorrenti episodi, ne esce invincibilmente una favola che, come tutte le favole, ha un suo sviluppo ed una sua conclusione; e difatti la vicenda del fiorire e decadere dello spirito italiano, guardata da De Sanctis nel riflesso della poesia, combacia in modo così esatto con la parabola vitale del fiore da non dubitare della giustezza del comparante proposto da Debenedetti: ciò in cui noi assai meno crediamo è la verità del comparato; ma questo è il tradizionale altro paio di maniche. Resta e prepotente il fascino di questo itinerario della rosa. La voglia di ripercorrerlo urge, non con l’intento della verifica (ci mancherebbe altro!), ma alla ricerca di percorsi nuovi e di soste nuove, attento il viandante a tutte le numerose aiuole dove spuntano rose, attratto da ogni specie, nana o mediocre, non altrimenti che dalle giganti o speciose. Stimola l’idea di ripercorrere in lungo ed in largo il territorio attraversato dal professore, ma con diversa passione; non la sua baldanzosa, ma quella del botanico che a lenti passi e con partente scrutinio delibera sulle specie e sulle sottospecie: una passione più grigia e quieta, ma pur passione. Non tutti i viaggi avventuruosi violano le colonne d’Ercole e si concludono nel baratro o nello sbarco in Eldorado; l’abisso od il porto ti si aprono anche passeggiando autour de ta chambre.

 

Note

[1] P. Giovanni da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Istituto storico cappuccino, Roma 1954; G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993; Id., Alternatim, ivi 1996.

[2] C. Dionisotti – G. Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi. Carteggio 1957-1997, a cura di O. Besomi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013, p. 186 (lettera del 27 marzo 1974).

[3] L’elenco dei Titoli dei corsi, proseminari e seminari tenuti da Giovanni Pozzi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo (Svizzera) è utilmente fornito in appendice a Metodi e temi della ricerca filologica e letteraria di Giovanni Pozzi, a cura di F. Lepori, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2014, pp. 169-84.

[4] G.B. Marino, L’Adone, a cura di G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976, 2 voll.; nuova edizione ampliata Adelphi, Milano 1988, 2 voll. (da cui le citazioni che seguiranno).

[5] Più precisamente tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, in occasione del VII Congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana tenutosi a Bari, come è comunicato a Dionisotti in una lettera del 6 aprile: cfr. Dionisotti – Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi cit., p. 140 (di qui la citazione).

[6] Sui lavori preparatori a un’edizione di Trissino, poi non compiuta, cfr. ivi, pp. 128, 134-35, 137; i quattro tomi delle Castigationes (Hermolai Barbari Castigationes plinianae et in Pomponium Melam, edidit G. Pozzi, Padova, Antenore) usciranno tra 1973 e ’79.

[7] G. Debenedetti, Commemorazione del De Sanctis, in Id., Saggi critici. Seconda serie [1945], il Saggiatore, Milano 1971, pp. 27-29.

[8] M. Proust, Albertine disparue, in Id., À la recherche du temps perdu, édition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1987-89, vol. IV, p. 76.

[9] Così è precisato in una nota aggiunta in occasione della ristampa del breve ultimo capitolo L’ottava in forma di rosa (qui alle pp. 163-67) in Alternatim cit., pp. 257-61, a p. 257 n. (si veda al riguardo infra anche la nota al testo). Il testo cui Pozzi fa riferimento, giunto all’epoca alla dodicesima edizione, è A. Panzini, La parola e la vita. Avviamento all’arte dello scrivere e all’analisi letteraria, rinnovato conforme i nuovi programmi da A. Vicinelli, Mondadori, Milano 1938, pp. 88-90.

[10] Pozzi, Sul luogo comune in Id., Alternatim cit., pp. 449-526, a p. 463. La comparazione fra analisi di testi poetici e classificazione botanica viene ripresa l’anno seguente nella prefazione a Seminario di Italiano (Friburgo, Svizzera), Analisi testuali per l’insegnamento, Liviana, Padova 1976, pp. 16-17.

 

[Immagine: particolare della Primavera di Botticelli].

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