di Maria Teresa Carbone

 

[Per la sua inchiesta sul giornalismo culturale contemporaneo Maria Teresa Carbone oggi ha intervistato Valentina Berengo. Queste sono le conversazioni precedenti: Gianluigi SimonettiIlaria FeoleFrancesca BorrelliAndrea CortellessaPaolo Di Stefano, Giorgio Zanchini].

 

Sul tuo sito ti presenti innanzitutto in veste di “divulgatrice letteraria”, mentre nella scheda che ti dedica il sito di Pordenonelegge, un festival con cui hai spesso collaborato moderandone gli incontri, sei descritta come una “giornalista culturale”. In cosa consiste la differenza?

 

Io sono una giornalista: ho il tesserino e scrivo pezzi di editoria e narrativa per diverse testate; perciò, è molto semplice comprendere quale sia il mio mestiere, se si usa la definizione di giornalista culturale. Ma in un mondo che va a cento all’ora e non prevede più incardinamenti di sorta, purtroppo o per fortuna, il mio lavoro non si esaurisce qui. Da una dozzina d’anni, infatti, “racconto” l’editoria in vario modo. L’ho fatto in radio, continuo – oltre che sui giornali – in libreria, in biblioteca, ai festival, in rete – moderando scrittori e scrittrici sui loro libri, conducendo gruppi di lettura e ideando rassegne (anche piuttosto originali – come ad esempio L’anima colta dell’ingegnere che vuole mettere in luce i legami tra l’ingegneria e gli ambiti scientifico-tecnici con la letteratura) e ho fondato due progetti la cui ambizione è quella di avvicinare i lettori (anche non forti) al libro: in questo senso la parola divulgazione la trovo molto pertinente. Vorrei poter dire d’aver pensato io a definirmi “divulgatrice letteraria”; in realtà venne in mente a una comunicatrice dell’Ufficio comunicazione dell’Università di Padova. Durante il lockdown, un pomeriggio, dovevo dialogare in rete con l’allora Prorettrice alle Relazioni culturali, sociali e di genere sull’opera di Margaret Atwood e c’era bisogno di una voce per il mio “sottopancia”. Quando spiegai quale fosse il mio mestiere dissero subito: “Tu sei una divulgatrice letteraria” e, sinceramente, mi ci sono decisamente riconosciuta.

 

Proprio sui festival, e ricordando che appunto tu collabori con varie manifestazioni, ti rivolgo una domanda che ho già fatto a Giorgio Zanchini e che prende spunto da quello che ha detto nel primo di questi dialoghi Gianluigi Simonetti: “I festival sono principalmente un luogo di comunicazione e di spettacolo…; a volte però può succedervi qualcosa di davvero potente e interessante, come sempre quando le persone si incontrano in carne e ossa e si guardano negli occhi… Ma che scocchi una scintilla mi pare più l’eccezione che la regola”. Qual è il tuo punto di vista?

 

Amo i festival letterari. Li ho sempre amati, in primo luogo da lettrice. La letteratura è materia viva, fatta di scambio prevalentemente silenzioso, quello che avviene durante l’esperienza di lettura, ma può diventare occasione di scambio a voce alta. Questo avviene quando i lettori e le lettrici si incontrano, e quando lettori e lettrici incontrano scrittori e scrittrici. “Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso” ha detto Proust, e non dobbiamo dimenticare che l’opera letteraria esiste se esiste qualcuno che ne fruisce, non solo qualcuno che la valuta o ne discetta astrattamente. La presentazione dei libri (in libreria come ai festival) serve a veicolare l’esistenza di quei libri, anche perché vengano venduti (altrimenti la vedo dura avere ancora editori, scrittori, editor, librai eccetera), ma serve soprattutto a permettere che ci sia relazione viva tra chi scrive e chi legge. Permette al lettore d’incontrare l’uomo o la donna che quelle parole ha pensato e quelle esperienze veicolato, e di essere a suo modo “attivo” dicendo la sua o anche attraverso la sola presenza, così come permette a chi scrive di capire chi è davvero il suo pubblico e finalmente di rompere la regola dello “show don’t tell” e di spiegare. Nei festival, in particolare, si crea poi quell’alchimia tipica dell’evento molto partecipato per cui si produce un’energia speciale, data dalla compresenza di così tante persone accomunate dallo stesso interesse intente a condividere – anche se silenziosamente – la stessa esperienza profonda. Immergersi in un’opera letteraria (e nella discussione sull’opera) è infatti un momento fondativo, anche quando non si tratta della Divina Commedia, perché i libri ci parlano e parlano di noi, come scriveva Proust appunto.

Non succedeva forse qualcosa di simile alle Grandi Dionisie nella Grecia classica? La messa in scena tragica era un’esperienza collettiva.

 

Sei fra i fondatori di una iniziativa, Scrittori a domicilio, nata con la pandemia ma proseguita oltre la fine dell’isolamento. Ce ne vuoi parlare? E soprattutto cosa rispondi a chi dice che la presenza degli autori sui social è essenzialmente un fenomeno di autopromozione, e dunque irrilevante se non nocivo ai fini di una vera pratica culturale? Come scegli o scegliete gli scrittori da intervistare? Scorrendo la lista, mi pare che le maglie della selezione siano piuttosto larghe…Non pensi che questo meccanismo favorisca chi è più spigliato o comunicativo, al di là del valore di quello che ha scritto?

 

Raccontare (in tv, in radio, in presenza, online, sui giornali) i libri sugli scaffali non vuole essere solo una “pratica culturale”, per fortuna. La lettura – e lo sa bene chi ama leggere – è un piacere per l’anima: è (anche e soprattutto di fronte ai capolavori) un vero godimento. Da una parte, parlare di libri è quindi un modo per far sapere al lettore cosa c’è di nuovo e permettergli di scegliere con più facilità (soprattutto a fronte degli 80.000 titoli che escono ogni anno) e, dall’altra, è un’occasione per discutere del mondo interiore ed esteriore di ciascuno. Per moltissimo tempo, prima di diventare un nodo attivo del processo editoriale (ma anche ora a volte), mi sono informata sulle nuove uscite leggendo ogni domenica La Lettura (che persino collezionavo, fino a quando non ho dovuto ahimè rinunciare, perché già non avevo più spazio in casa per i libri!). Scrittori a domicilio vuole fare la stessa cosa ma senza recensire: è uno spazio, informale, in rete di avvicinamento scrittore-lettore. È un luogo dove raccontare la vita attraverso i romanzi. L’ascoltatore poi è persona intelligente: figuriamoci se si fa fuorviare dalla spigliatezza dello scrittore! Conducendo da anni un gruppo di lettura alla Feltrinelli di Padova ho ben presente, viceversa, quanto appuntito sia il giudizio dei lettori.

 

E quanto alla scelta: raccontiamo i libri che ci interessano. Nessuno mi paga per fare Scrittori a domicilio, e mi permetto di scegliere secondo le mie inclinazioni personali (per inciso, anche laddove mi pagano per parlare o scrivere di libri comunque sono io a proporre quali). Su Scrittori talvolta libri impegnati, talvolta libri più commerciali. Credo nell’adagio secondo cui ogni libro ha il suo lettore e, ancor di più, che ciascuno di noi per vivere (bene e in salute) abbia bisogno di moltissimi ingredienti nella sua dieta.

 

Ancora a proposito di social, oggi tutte le case editrici in Italia e all’estero, anche le più tradizionali, non si permettono di ignorare un fenomeno come #booktok, anche se nella maggior parte dei casi (non tutti) i libri di cui si parla non sono certo capolavori, anzi. L’idea di fondo è che comunque “parlare di libri” è utile e che in questo modo si guadagnano lettori soprattutto tra i giovani. Immagino che tu, da personal book shopper, sia d’accordo. È così? E se sì (o se no), perché?

 

Ho detestato La canzone di Achille di Madeline Miller tanto osannata dai booktoker, e lo posso dire perché l’ho letta proprio per poter avere un’opinione: stravolge completamente lo spirito dell’Iliade ed è incredibilmente stucchevole. Detto questo, parlare di libri non è attività preclusa a nessuno: sta alla sensibilità di chi ascolta fidarsi dell’interlocutore. “Personal Book Shopper” c’est moi (insieme alla collega Gioia Lovison) e credo di avere un certo talento nel consigliare libri. In un’altra vita farò la libraia…

 

Tu scrivi anche recensioni (tra l’altro per Il Foglio e per minima&moralia). Personalmente ho la sensazione che, sebbene in teoria la recensione sia “un articolo inteso a illustrare e a giudicare criticamente uno scritto” come insegna il dizionario, le recensioni abbiano sempre più spesso come modello le schede delle case editrici: un riassunto della trama, qualche parola generica di elogio. Qual è la tua impostazione? Ti è mai capitato di stroncare un libro?

 

Recensire mi piace molto. Ricordo la volta che sul Foglio scrisse del Libro delle case di Andrea Bajani. L’autore lesse la recensione e mi mandò una mail in cui diceva, tra il resto, che avevo reso quello spazio “un’opera in sé dedicata all’opera di un altro”. È esattamente ciò che cerco di fare. Non amo le recensioni con due parole di trama e un giudizio: non sono il commento alla poesia che viene chiesto in quarta ginnasio! Per esempio, della trama io parlo pochissimo, quasi per nulla, mi interessa essere evocativa, dire la mia o farla intuire (il mio giudizio, positivo o negativo, c’è sempre ma non è sfacciato), cercare uno stile – anche in funzione della testata e del suo taglio editoriale, ma che resti il mio – creare interconnessioni con libri altri. Recensire è scrivere. Ci sono scrittori più o meno bravi, ci sono recensori più o meno bravi.

 

A differenza di molte persone che si occupano di libri, in particolare di narrativa, tu hai una formazione scientifica, in quelle che oggi si chiamano Stem. La tua laurea in ingegneria, a cui ha fatto seguito un PhD in ingegneria geotecnica, ti è oggi utile per il lavoro che hai scelto abbandonando l’ambito in cui pure hai lavorato diversi anni? Ti capita mai di avere ripensamenti? Se posso fare una domanda indiscreta, a cui puoi benissimo non rispondere, in termini economici il cambiamento è stato vantaggioso?

 

All’ingegneria così come ai miei studi classici in un liceo d’antan devo molto. Ho sempre amato visceralmente la matematica e il greco antico. La mia mente è il frutto di questi studi: sarebbe difficile dire come farei il mio lavoro se, a conti fatti, fossi un’altra. Certo è che la mia è una vocazione. Leggere e scrivere sono la mia vita e a un certo punto ho dovuto prenderne atto. E poi sfato un mito: gli ingegneri non guadagnano così bene quanto si pensa…

 

Citando di nuovo un’intervista già uscita di questo ciclo, la critica cinematografica Ilaria Feole ha detto che sulla “questione di genere” nei media italiani ci troviamo di fronte a “un grande problema di superficialità e di eccessiva semplificazione di tematiche e movimenti, che a seconda dei casi rischia di svilire la causa femminista o, viceversa, di sostenerla con ottuso entusiasmo”. Sei d’accordo?

 

Sulla questione femminile siamo davvero ancora tanto indietro. Me ne sono resa conto quando lavoravo come ingegnere così come ora in editoria, ma il problema è più spinoso di così. La donna è femmina nella testa delle persone: le prime discriminazioni avvengono in famiglia, le fanno gli uomini che ti corteggiano, le mamme fuori dai cancelli degli asili. Non so da che parte potremmo mai prenderla per risolverla. Però resistiamo. Bisogna.

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