di Luca Illetterati

 

1. Introduzione

 

Nelle settimane scorse è stato inaugurato a Padova il Museo della Natura e dell’Uomo: «il più grande museo scientifico universitario d’Italia» come si legge con giustificato orgoglio sul sito dell’Università di Padova. Il Museo si estende infatti su oltre 4000 mq e si articola in quattro sezioni: antropologia, geologia, mineralogia e zoologia.

Non sono un esperto di musei scientifici e non sono perciò in grado di darne una valutazione, per così dire, “tecnica”. Mi è sembrato però molto bello, ricco di reperti e decisamente ben strutturato nel suo impianto divulgativo.

 

Ciò di cui vorrei però discutere è la denominazione: Museo della Natura e dell’Uomo, con i due termini enfaticamente scritti con la lettera maiuscola. Una denominazione che, alla luce del vivacissimo dibattito scientifico internazionale tanto intorno al concetto di natura quanto intorno al concetto di umano appare perlomeno problematica, se non, addirittura, anacronistica. Per evidenziare e spiegare in che senso quella denominazione sia problematica e in che senso possa apparire anacronistica, vorrei, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, fare qui riferimento ad alcuni contributi del dibattito recente che investono in modo piuttosto esplicito e interessante la questione. Mi riferirò in particolare ad alcuni testi di tipo filosofico, sociologico, antropologico e linguistico che mettono in questione tanto il concetto di Natura quanto quello di Uomo e che soprattutto, almeno in alcuni casi, evidenziano esplicitamente e con forza la problematica relazione di rimando reciproco che intercorre tra queste due nozioni.

 

Nel fare questa operazione non intendo necessariamente fare mie le tesi dei testi a cui farò cenno, né pretendo di ritenere che questi siano gli unici testi ai quali ci si debba rivolgere all’interno di una discussione relativa al termine natura e al termine uomo. Ciò che intendo piuttosto proporre nel solo cursorio attraversamento di questi testi è semmai un esercizio di contemporaneità, per usare una felice espressione di Francois Hartog, ovvero un esercizio di consapevolezza nei confronti di alcune delle nozioni «regolatrici del nostro spazio pubblico» che nella loro assunzione irriflessa portano sempre con sé un significato implicito e non di rado ideologico che è compito della critica portare in superficie.

 

2. Assoggettamento

 

Il concetto di natura sembra per molti versi essere, anche alla luce delle grandi discussioni intorno alla nozione di Antropocene, alla crisi ambientale e al climate change, uno dei concetti fondamentali del nostro tempo. Tale centralità è tuttavia accompagnata, sempre più spesso, da una considerazione critica circa ciò a cui questo concetto pare rinviare, ovvero intorno alla specifica semantica che esso sembra veicolare.

 

Nel 2022 Philip Blom, grande divulgatore tedesco soprattutto di questioni storiche, ha scritto un libro che si intitola: Die Unterwerfung. Anfang und Ende der menschlichen Herrschaft über die Natur, ovvero, letteralmente, Assoggettamento. L’inizio e la fine del dominio dell’uomo sulla natura. Il libro è stato recentemente tradotto da Marsilio con un titolo un po’ più prudente: La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea. In questo libro, di godibile lettura e decisamente molto informato, Blom scrive:

 

«L’assoggettamento della superficie terrestre e la conquista sempre più capillare della stratosfera sono espressione di un unico delirio collettivo, l’idea ormai onnipresente per cui l’uomo (e non a caso dico «uomo», al maschile) sarebbe un che di superiore alla natura, non un aspetto della natura stessa, e quindi avrebbe il diritto, anzi il dovere di soggiogarla. L’uomo così inteso si percepisce come un essere sovraordinato agli animali e alle altre creature viventi, vede la natura come un palcoscenico delle proprie ambizioni, come una riserva di materie prime. E da quella posizione di presunto privilegio parte alla conquista del pianeta intero, per sottometterlo in modo inesorabile alla sua volontà».

 

Proprio perché pensando la natura tendiamo in qualche modo a pensare il modo in cui l’uomo si è rapportato ad essa, abbiamo sempre più difficoltà, secondo Blom, a parlare di natura. Blom non bandisce il termine natura, ma avverte la necessità di essere consapevoli del fatto che «le difficoltà teoriche sono insite nella parola stessa» e hanno a che fare in modo niente affatto marginale con la sua correlazione al termine uomo. Dentro questa correlazione, infatti, secondo Blom, «la natura si riduce a un che di muto, a una pura risorsa, a un’esternalità economica». In questo senso, un pensiero che voglia porsi criticamente rispetto a quella condizione di assoggettamento e sottomissione della natura da parte dell’umano non può non mettere in discussione – sostiene Blom – tanto il concetto di natura e quanto quello di uomo.

 

3. Without nature

 

La critica al binomio uomo/natura è un tratto significativo di molti lavori che si sono occupati da diversi punti di vista della necessità di ripensare il nostro rapporto con il mondo. Tale critica è ad esempio esplicita nei lavori di Timothy Morton. Morton è un filosofo britannico che lavora negli Stati Uniti ed è indubbiamente in ambito filosofico uno dei pensatori oggi tra i più impegnati nell’elaborazione di un pensiero ecologico. Una delle tesi fondamentali di uno dei suoi libri più noti, cioè Being ecological (The MIT Press 2019) è l’idea che lo sviluppo di un pensiero autenticamente ecologico, ovvero di un pensiero in se stesso ecologico e non di un pensiero che assume come oggetto l’ecologia, implica innanzitutto una messa in discussione del modo in cui l’umano si è pensato nel suo rapporto con la realtà. Mettere in discussione questo rapporto significa, per Morton, metteregiocoforza in discussione tanto l’idea di natura quanto l’idea di uomo, le quali sono, secondo il filosofo britannico, due nozioni intimamente correlate l’una all’altra, in quanto frutto entrambe di una specifica metafisica e di una specifica visione del mondo fondate sull’assunzione dell’umano come fulcro e fondamento di tutto ciò che è. La natura, infatti, secondo Morton, è una nozione direttamente dipendente da una concezione dell’umano inteso come l’altro dalla natura e come ciò che, al contempo, proprio in quanto altro da essa e ad essa superiore, sarebbe ciò in cui la natura trova il suo senso. L’umano e il naturale, secondo Morton, indicano cioè dei modi d’essere che da una parte si definiscono reciprocamente, dall’altro lo fanno all’interno di una dinamica in cui l’umano si pone come un principio esterno e superiore alla natura. Scrive a questo proposito Morton:

 

«abbiamo pensato in tutti i modi per circa dodici millenni di essere in cima alle cose, fuori dalle cose od oltre le cose, in grado di guardare dall’alto e decidere esattamente il da farsi».

 

L’utilizzo della prima persona plurale rimanda ovviamente a un ‘noi’ che non è onnicomprensivo. Non tutte le culture hanno pensato infatti in questo modo. Il ‘noi’ cui si riferisce Morton è un ‘noi’ specificamente situato e corrisponde sostanzialmente alla cultura occidentale così come questa è venuta a svilupparsi soprattutto all’interno del pensiero moderno.

Secondo Morton, il concetto di natura, ovvero il modo in cui ‘noi’ tendiamo perlopiù a pensare il mondo indipendente da noi, è figlio di questa concezione, ovvero sarebbe lo specchio di una concezione della realtà già interpretata da quell’ente – l’essere umano – che si pone fuori di essa e che la guarda dall’alto. Il concetto di natura sarebbe cioè innestato in una maniera di guardare le cose che muove dall’assunzione della prospettiva dell’umano come se questa fosse la prospettiva assoluta, che è appunto ciò che chiamiamo antropocentrismo. Per questo, secondo Morton, pensare in maniera ecologica significa, in primo luogo, «sbarazzarsi di questa idea della natura». E sbarazzarsi di questa idea della natura, implica ovviamente anche sbarazzarsi di una certa idea di uomo. Pensare in modo ecologico, continua ancora Morton, significa infatti pensare «le conseguenze involontarie dell’antropocentrismo», che è a sua volta il punto archimedeo a partire dal quale è stata pensata quella realtà che ancora ci ostiniamo a chiamare natura. In quella denominazione sarebbe depositata, secondo Morton, la presa di distanza dell’umano dalla natura, la quale a sua volta costituirebbe, dentro questo paradigma – i si perdoni l’eccesso di semplificazione – un oggetto che riceve il suo statuto ontologico semplicemente in quanto altro e opposto rispetto al soggetto.  “Natura e Uomo”, sarebbe in questo senso uno di quei dualismi – insieme a “Natura e Storia”, “Natura e Libertà”, “Natura e Cultura” – dentro cui è ingabbiato il pensiero moderno. Dualismi dai quali, secondo Morton, è necessario liberarsi se si vuole pensare in modo autenticamente ecologico:

 

«è questa inflessibile separazione delle cose in soggetti e oggetti a far nascere la perturbante, proibita zona di mezzo degli esclusi, del terzo escluso, fatta di entità che sono vicine a “me” la fonte dell’antisemitismo, tanto per dire – l’infinita sorveglianza di ciò che conta come umano, la protezione dell’Homo Sapiens dai Neanderthal».

 

In quest’ottica, afferma con enfasi Morton, «ciò che chiamiamo Natura (…) è direttamente l’Antropocene nella sua modalità meno ovvia».

A partire da questa analisi Morton propone l’idea di una ecologia senza natura (Ecology without Nature è il titolo di un suo libro del 2007 pubblicato da Harvard University Press). Il concetto di Natura sarebbe infatti un concetto, se così si può dire, radicalmente anti-ecologico: in quanto appiattente e reificante esso sarebbe infatti un concetto che assume senso solo nella sua differenziazione dall’umano e che in questo dualismo impedirebbe di fatto all’umano stesso di ripensarsi ecologicamente, ovvero di ripensarsi fuori dalla logica oppositiva e gerarchica cui il concetto di natura intrinsecamente rinvia.

 

4. Natura come nome proprio

 

L’idea di Morton secondo la quale il concetto di natura è quello del quale ci si deve sbarazzare per riuscire a pensare il mondo e a pensare se stessi in modo autenticamente ecologico è per molti versi coerente con l’impostazione di pensiero di Bruno Latour, il quale, all’interno delle famose Gifford Lectures del 2013, diventate poi un libro – Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique (La Découverte 2015) – scrive:

 

«L’ecologia, lo si sarà compreso, non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della “natura” intesa come concetto che ci consentirebbe di riassumere i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli».

 

Anche in questo caso, l’idea di un pensiero ecologico, piuttosto che costituirsi nei termini di un pensiero della natura o sulla natura, sembra rinviare alla necessità di una radicale decostruzione del suo concetto. Nell’epoca che chiamiamo Antropocene, ovvero in quell’epoca che altri nel tentativo di politicizzare la questione hanno chiamato anche Capitalocene, la quale è l’epoca che segna, per usare una felice espressione di Jason Moore, la fine della natura a buon mercato, il concetto di natura si rivela, scrive Latour, «come una versione monca, semplificata, esageratamente moralistica, eccessivamente polemica, prematuramente politica dell’alterità del mondo a cui dobbiamo aprirci per non diventare pazzi – diciamo alienati – in massa».

 

In fondo, l’idea stessa di Antropocene è già in se stessa, secondo Latour, la critica al concetto di natura, o se si vuole la manifestazione della necessità di andare oltre ad esso: «è necessario riassumerlo in una breve formula: agli occidentali e a coloro che li hanno imitati la “natura” ha reso il mondo inabitabile».

 

La nozione di natura costituisce, ancora una volta, una sorta di incorporazione di quella peculiare postura di dominio e sfruttamento assunta dagli umani nei confronti del mondo che ha condotto a pensare, in termini non semplicemente finzionali, alla possibilità stessa della fine del pianeta. In questo senso il concetto di Natura è un concetto che, nell’ottica di Latour, appartiene al passato, a una sorta di Ancien Régime in cui esso era irrimediabilmente connesso al concetto di Uomo, ovvero a quel concetto che ancora una volta nella sua pretesa neutralità e non marcatezza nascondeva invece una peculiare figura dell’umano, una declinazione marcata di esso. In questa contrapposizione – quella fra uomo e natura – il binarismo uomo-donna giocherebbe infatti un ruolo niente affatto banale. La donna è stata infatti perlopiù identificata nella storia con la dimensione naturale, ovvero con la dimensione riproduttiva e generativa, e contrapposta così all’uomo, il quale definisce la propria funzione per molti versi in termini di alterità e differenza rispetto a ciò che è semplicemente naturale e in questo senso femminile. Questa dimensione di alterità e differenza rinvia dunque allo spirituale come l’altro dal naturale, al sociale e al pubblico come contrapposto al domestico, e dunque alle funzione di dominio e potere della e sulla natura e conseguentemente della e sulla donna, come hanno sostenuto alcune importanti studiose esponenti del cosiddetto ecofemminismo come Carolyn Merchant (The Death of Nature: Women, Ecology and the Scientific Revolution, Harper Collins 1980) o Val Plumwood (Feminism and the Mastery of Nature , Routledge 1993).

 

Per rendere esplicito che il concetto di natura non è un termine neutro, ma un termine che si pone all’interno di una costellazione di rimandi e di relazioni che implicano la dimensione di un Soggetto-Uomo a partire dal quale la natura viene pensata, in Facing Gaia Latour scrive tanto il termine Natura quanto il termine Uomo con l’iniziale maiuscola. Scriverlo in questo modo, dice Latour, è un modo per rendere quanto più esplicito possibile che Natura è «una sorta di nome proprio, il nome di una figura cosmologica fra tante, e a cui impareremo ben presto a preferire un’altra figura, designata da un altro nome proprio, e che si farà carico, in modo completamente diverso, di altri esistenti e di altri modi di collegarli, imponendo altre obbligazioni, altre morali e altre leggi». La lettera maiuscola è dunque usata da Latour nel corso di tutto il testo per indicare non la solennità dell’ambito considerato, quanto piuttosto il fatto che quel nome indica una peculiare figura, una peculiare declinazione del dominio a cui si riferisce. Parlando di Natura e di Uomo (invece che di natura e di uomo) Latour intende perciò parlare di un certo modo attraverso cui l’umano ha pensato se stesso e il mondo: un modo segnato dal dominio di una parte sull’altra, dalla convinzione che il naturale, così distanziato e differenziato, è un ambito che assume senso solo a partire dall’umano e che dunque l’umano ha conseguentemente a disposizione. Sulla base di questa diagnosi, quello che Latour propone è di tentare di fare un «un passo indietro con il termine così intrigante di “Natura”, di cui dimentichiamo troppo spesso, anche quando a esso aggiungiamo la maiuscola e le virgolette, che non è un dominio ma un concetto». Latour propone di fare con la parola Natura ciò che già abbiamo imparato a fare con la parola Uomo:

 

«Ricorderete sicuramente l’epoca non così remota – prima della rivoluzione femminista – in cui si utilizzava la parola “uomo” quando si intendeva parlare di chiunque, in modo indifferenziato e piuttosto sciatto. Per contro, quando si adoperava il termine “donna”, si trattava necessariamente di un vocabolo specifico che non poteva designare altro se non quel che allora chiamavamo il “sesso debole” o il “secondo sesso”. Nel linguaggio degli antropologi ciò significa che il termine “uomo” è una categoria non marcata: non pone alcun problema e non attira l’attenzione. È quando si utilizza la parola “donna” che l’attenzione è richiamata su un tratto specifico, ovvero appunto il suo sesso, ed è questo tratto che ne fa la categoria marcata che si distacca quindi dalla categoria non marcata che le servirà da sfondo. Di qui gli sforzi per sostituire “uomo” con “umano”, e far sì che questo termine comune alle due metà della stessa umanità stia a significare al contempo la donna e l’uomo – ciascuno con il proprio sesso o, in ogni caso, il proprio genere che li distingue entrambi, per così dire, allo stesso modo».

 

5. Natur-a, natur-e

 

Latour intende sostituire il nome proprio Natura con un altro nome proprio: Gaia, parola assai controversa che egli prende da James Lovelock e che egli assume nella consapevolezza che si tratta di una parola insieme mitica, scientifica, politica e, probabilmente, anche religiosa: «Gaia è qui presentata come l’occasione di un ritorno sulla Terra che consenta una versione differenziata delle rispettive qualità richieste alle scienze, alle politiche e alle religioni, ricondotte finalmente alle definizioni più modeste e terrestri delle loro antiche vocazioni».

 

Per quanto alcune delle intenzioni di fondo lo accomunino a Latour, diverso è il modo di procedere di Philippe Descola. Par-delà nature e culture – dove  l’idea di “oltre” vuole indicare la necessità di porsi in un orizzonte di superamento rispetto a un dualismo che impedirebbe di pensare in modo plurale e inclusivo i termini coinvolti – è il titolo di un imponente lavoro pubblicato da Gallimard nel 2005 e riproposto nel 2021 in italiano da Raffaello Cortina. Qui Descola, che come noto fino al 2000 è stato il titolare della cattedra di Antropologia della natura al Collège de France e quindi Direttore del famosissimo Laboratorio di antropologia sociale fondato da Claude Lévi-Strauss, si concentra appunto sul problematico dualismo che caratterizza l’intera cultura moderna occidentale fra il naturale e il culturale. Lo studio di Descola delle diverse forme di atteggiamento in cui nelle diverse società umane viene pensato il rapporto tra l’umano e ciò che noi chiamiamo il naturale mostrerebbe che quella forma di oggettivazione della natura caratteristica del pensiero occidentale, insieme alla sua correlata contrapposizione a un mondo culturale che sarebbe invece proprio solo degli umani non è affatto un tratto universale, e dunque una caratteristica specifica degli umani, bensì una interpretazione decisamente etnocentrica del rapporto fra l’umano e la natura. Il concetto di natura inteso come contrapposto al concetto di cultura si è affermato, scrive Descola, in tempi tutto sommato recenti. Esso si sarebbe infatti sviluppato in Europa solo in epoca moderna quando con natura, appunto, si è cominciato a intendere «un dominio di oggetti retti da leggi autonome sulla base del quale l’arbitrio delle attività umane poteva dar prova del suo seducente splendore». In questo senso, come ricorda Nadia Breda nell’introduzione alla prima edizione italiana del libro di Descola (Seid Editori 2014), ciò che l’indagine antropologica di Descola in qualche modo costringe a intraprendere è una sorta di pluralizzazione del concetto di natura, «che con questo lavoro diventa “natur-e”, “diversità di nature” e infine nel dibattito antropologico e scientifico più ampio sedimenterà il concetto di “multinaturalismo”». Secondo Descola, non si dovrebbe più parlare di natura al singolare, se non, appunto, alla maniera di Latour, accompagnando la parola con la lettera maiuscola e per intendere con essa quella natura che caratterizza la modernità europea e occidentale. Si dovrebbe invece parlare di natur-e, al plurale, mettendo così radicalmente in discussione gli «attributi della natura unica del naturalismo» e insieme ad essi gli attributi di un concetto di umano che a quella natura unica è inestricabilmente connesso. La natura del naturalismo, infatti, secondo Descola, «nel suo aspetto singolare, fa direttamente riferimento a questo dominio ontologico muto e impersonale i cui contorni furono tracciati definitivamente con la rivoluzione meccanicistica». Rifacendosi anche ai celebri saggi di Erwin Panofsky sulla prospettiva e chiamando dunque in causa anche le modalità attraverso cui in epoca moderna in Europa viene rappresentata la natura, Descola osserva che il processo di oggettivazione operato dal soggetto sulla natura produce un doppio effetto: da una parte «crea una distanza tra l’uomo e il mondo restituendo all’uomo la condizione di acquisizione di autonomia nelle cose», dall’altra «sistematizza e stabilisce l’universo esteriore proprio conferendo al soggetto il dominio assoluto sull’organizzazione di questa esteriorità nuovamente conquistata». L’uomo, cioè, – e il termine è anche qui usato in questo modo proprio per enfatizzare che si tratta di una specifica figurazione e declinazione dell’umano – acquisisce autonomia dalla natura, facendo della natura un oggetto regolato da leggi eterne e inviolabili distanziato perciò dall’umano inteso come altro risetto ad essa. Questo processo di autonomizzazione dell’umano dal naturale e del naturale dall’umano, che Descola con espressione insieme forte e paradossale paragona a un colpo di stato, rappresenterebbe appunto il processo attraverso il quale la modernità nascente libera l’uomo dall’insieme degli oggetti animati e inanimati, facendone un soggetto esterno alle cose a partire dal quale viene legittimata la sua posizione di dominio su di esse.

 

6. Natura e Uomo

 

In The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton University Press 2015, trad. it. Keller 2021) l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing inizia la sua ricerca sul mondo dei funghi matsutake – un fungo pregiatissimo che cresce all’interno di paesaggi perturbati dall’azione antropica – mettendo da subito in questione la nozione di natura propria della modernità occidentale. Una messa in questione che, ancora una volta, non riguarda solo ciò che chiamiamo Natura, ma che coinvolge anche l’altro termine, che secondo Lowenhaupt Tsing per molti versi costituisce il fondamento stesso della nozione di Natura e rispetto al quale essa comunque trova la sua determinazione e definizione – ovvero il termine Uomo. Scrive infatti Lowenhaupt Tsing:

 

«Sin dall’Illuminismo, i filosofi occidentali ci hanno proposto una Natura maestosa e universale, ma anche passiva e meccanica. Natura come scenario e risorsa per le intenzioni morali dell’Uomo, in grado di controllarla e addomesticarla. Il compito di ricordarci delle attività vitali di tutti gli esseri viventi, umani e no, veniva lasciato agli autori di favole, anche non occidentali e non civilizzati».

 

Nell’analisi di Tsing questa visione è stata messa in discussione fondamentalmente da tre ordini di problemi o per meglio dire da tre forme di emergenza:

 

1. L’emergenza ecologica: «addomesticare e controllare la Natura ha prodotto un tale pandemonio che non sappiamo neanche più se la vita sulla Terra possa proseguire»;

 

2. L’emergenza del non-umano: «intrecci tra specie un tempo ritenuti solo materia di fiabe sono ora diventati oggetto di seri dibattiti tra biologi ed ecologisti, che mostrano come la vita abbia bisogno dell’interazione tra diversi tipi di esseri viventi: gli uomini non possono sopravvivere calpestando tutti gli altri»;

 

3. L’emergenza decoloniale: «in terzo luogo, uomini e donne di tutto il mondo hanno reclamato lo status un tempo riservato all’Uomo. La nostra presenza ribelle mina le intenzioni morali della mascolinità cristiana dell’Uomo, che aveva separato l’Uomo dalla Natura».

 

L’idea di fondo a partire dalla quale Tsing intraprende il suo viaggio all’interno del mondo e delle storie dei funghi matsutake è che dobbiamo essere consapevoli che ogni volta che noi parliamo di Natura ci muoviamo di fatto dentro un orizzonte che implica anche l’Uomo, ovvero un certo modello di umanità (maschile, bianca, occidentale). Dire Natura significa perciò per l’antropologa dell’Università di Santa Cruz, dire anche, sempre, un modo peculiare e determinato di pensare la soggettività umana e conseguentemente un modo peculiare e determinato di pensare la relazione tra l’umano e il mondo.

 

Per questo anche Tsing scrive perlopiù il termine Natura e il termine Uomo con l’iniziale maiuscola, al fine di rendere quanto più esplicito possibile che con essi si intendono dei nomi propri, ovvero che termini come Natura e Uomo non possono essere considerati termini neutri riferentesi a una universalità onnicomprensiva, ma sono, invece, specifiche istanziazioni storiche, culturali e ideologiche che è necessario portare a esplicitazione e ad evidenza per cercare di pensare al di là dei presupposti che essi veicolano.

 

7. La parolaUomo

 

I diversi tentativi di problematizzare il concetto di natura per come esso è andato costruendosi soprattutto nel corso dell’epoca moderna sono sempre, come si è visto, anche una radicale problematizzazione del termine uomo, che viene letto come il correlato indisgiungibile di quella natura e per molto versi ciò che fonda quel modo di considerarla che ne fa una pura risorsa a disposizione dell’umano stesso.

 

Il termine ‘uomo’ nella lingua italiana è un termine notoriamente ambiguo. Esso indica, infatti, tanto la specie di mammiferi primati ominidi appartenenti al genere Homo, tanto l’essere umano in generale, quanto l’essere umano di sesso maschile, in contrapposizione espressa o tacita, come recita il dizionario Treccani, a donna. Nella lingua italiana la parola uomo e il plurale uomini possono dunque avere oltre all’uso determinato che indica una relazione con il genere, anche un uso, cosiddetto, “non marcato”, un uso cioè generalizzato, che va ad indicare tutti gli individui caratterizzati come umani indipendentemente dal riferimento al genere. La compresenza di un uso marcato e un uso non marcato all’interno della lingua crea talvolta dei problemi, che soprattutto negli ultimi cinquant’anni hanno portato a discussioni a volte anche molto accese. Come ha osservato la linguista Anna M. Thornton «sempre più spesso in epoca recente, ma in qualche caso anche già da tempo, non tutti i parlanti di lingue che conoscono il fenomeno del “maschile non marcato” accedono con la stessa naturalezza all’interpretazione generica, inclusiva, “non marcata” dei nomi maschili, e li interpretano invece come riferiti specificamente solo a persone di sesso maschile». Questa sorta di disagio nell’uso del maschile non marcato per cui determinati soggetti che sono inclusi in esso si sentono di fatto da esso oscurati e marginalizzati, ha prodotto e produce ovviamente delle conseguenze, come accade peraltro sempre nelle lingue, le quali non sono strutture eterne e stabili, ma entità vive, storiche e in movimento. Per esempio, ricorda sempre Thornton, la Chiesa Cattolica – diciamo non la più mobile delle istituzioni – ha sostituito nel 2020 il plurale non marcato ‘fratelli’, che appariva in diverse parti della messa e nel testo di diverse preghiere, con la formula ‘fratelli e sorelle’.

 

Non esiste ovviamente una soluzione immediata in grado di rispondere al tipo di problemi che sono emersi con forza in questi anni, e soprattutto non è probabilmente con l’imposizione di regole che vengono vissute e percepite come artificiali ed estranianti (sia in senso conservativo, sia in senso progressivo) che si risolve il problema. Al contempo, non considerare quello che Thornton definisce come «il senso di esclusione delle donne provato di fronte a usi cosiddetti non marcati di uomo/uomini e fratelli, e di molti altri sostantivi maschili», oppure anche i problemi e le difficoltà che caratterizzano la vita delle persone che non si riconoscono all’interno di una identità di genere binaria, fondandosi su nomenclature e classificazioni autorevoli e comunque ovviamente artificiali,  è un atteggiamento che, ancorandosi a una qualche forma di auctoritas storica di fatto nega le emergenze della storia stessa.

 

Il fatto che la lingua sia organizzata in un certo modo non è un dato naturale e anzi, come scrive la linguista Cecilia Robustelli in un articolo che si intitola Lingua e identità di genere, ciò che emerge in modo lampante nelle pratiche linguistiche di questi anni è «il contrasto sempre più evidente tra l’ascesa sociale delle donne e la rigidità di una lingua costruita da e per i maschi».

Altrettanto in quel testo giustamente famoso che sono le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana che risale a quasi 40 anni fa (fu pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1987), la linguista Alma Sabatini scriveva:

 

«in questo particolare momento in cui gli enormi cambiamenti sociali che sono avvenuti e stanno avvenendo nei ruoli dei due sessi premono per avere un riconoscimento linguistico, è importante favorirlo e aiutarlo, dando indicazioni per una liberazione da stereotipi banalizzanti e mutilanti e da segnali linguistici che rivelano e rinforzano il predominio maschile».

 

Una lingua androcentrica, secondo Sabatini, tende sempre, per quanto in modo perlopiù irriflesso, a far pensare in modo androcentrico. Sabatini infatti sostiene, come commenta a sua volta Robustelli, che al linguaggio va riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile:

 

«è perciò necessario che (il linguaggio, LI) sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi». 

 

Un discorso che oggi sempre più merita di essere ulteriormente articolato non solo in rapporto alle donne, ma anche rispetto a tutte quelle persone che non si riconoscono né all’interno del genere maschile, né all’interno del genere femminile.

Peraltro, nelle stesse Linee guida per un linguaggio amministrativo e istituzionale attento alle differenze di genere elaborato dall’Università di Padova, Annalisa Oboe scrive:

 

L’italiano frequentemente subordina il femminile al maschile in nome del cosiddetto maschile generico o ‘non marcato’, cioè un maschile presunto neutro e universale, che comprende sia l’uomo che la donna. Il maschile generico rappresenta in realtà uno degli usi linguistici dagli effetti più discriminanti, che fa sì che solo gli uomini siano rappresentati nella lingua, e che le donne restino invisibili. Non è esagerato pensare al maschile generico come a uno degli strati del ‘soffitto di cristallo’ che riducono l’accesso delle donne al lavoro e ai vertici della società, che schiacciano le loro scelte all’interno delle aspettative definite dagli stereotipi di genere e che concorrono al mantenimento delle disparità tra donne e uomini.

 

Il problema non riguarda però solo la lingua italiana.

Se nella lingua tedesca, come è noto, oltre ai sostantivi Mann (uomo) e Frau (donna) esiste anche il termine Mensch, che, pur essendo anch’esso declinato al maschile, consente comunque di parlare degli esseri umani indipendentemente dal genere (non a caso esiste a Monaco di Baviera un Museum Mensch und Natur), la lingua inglese non ha invece un termine neutro ed era piuttosto frequente, almeno fino a un certo punto, vedere usato il sostantivo man e il plurale men con un significato sovraesteso. Basta tuttavia una semplice ricerca in rete per vedere come il man sovraesteso sia sempre più marginalizzato non solo nella produzione scientifica di lingua inglese, ma anche nelle pratiche linguistiche ordinarie. È diventato sempre più frequente, ad esempio, nella comunicazione scientifica di lingua inglese l’uso del pronome she come pronome sovraesteso e con l’emergere di nuove sensibilità e attenzioni ai linguaggi più inclusivi, tra chi non si riconosce come donna o come uomo, e quindi nei pronomi “he” o “she”, si è diffusa la pratica di definirsi in modo neutro con il “they”, sfruttando, in ciò, una caratteristica già presente nella lingua inglese.

 

Non è un caso, dunque, se nel 2020 il famoso San Diego Museum of Man a Balboa Park dopo una lunga discussione abbia deciso di cambiare denominazione e di diventare il Museum of Us o che in Canada l’importantissimo Museum of Men di Ottawa sia diventato già nel 1986 il Museum of Civilization o ancora che, sempre in Canada, il Manitoba Museum of Man and Nature sia diventato già alcuni fa il Manitoba Museum.

 

La lingua francese ha problemi simili alla lingua italiana. La critica però all’uso non marcato e sovrasteso del maschile ha in Francia radici piuttosto lontane. Nel 1791, infatti, come è noto, Olympe de Gouges pubblica la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in risposta alla Dichiarazione dell’uomo e del cittadino del 1789, denunciando così, in piena cultura illuministica, nell’uso di un termine marcato, ma assunto in modo universalistico quale è il termine Homme una esclusione di fatto della donna da quello che viene considerato uno dei testi fondanti della modernità politica europea. In realtà, però, all’interno della cultura francese, dove le questioni relative alla lingua, come scrive Nadine Celotti sono sempre, letteralmente, Une affaire d’État, una questione che coinvolge i fondamenti stessi su cui si regge la statualità francese, l’assunzione del termine Homme come sostantivo non marcato resiste ed è a tutt’oggi oggetto di discussioni anche aspre. Non a caso il grande museo dell’antropologia di Parigi, il famosissimo Musée de l’Homme mantiene ancora questo nome, anche se sono stati in molti coloro che, soprattutto in occasione del rinnovamento e della riapertura nel 2015, avevano chiesto che si passasse da Musée de l’Homme a Musée de l’Humanité. Il termine Homme, sostenevano infatti quelli che chiedevano il cambio di denominazione, non è un termine neutro. Come ha scritto Elianne Viennot, infatti, usare il termine “homme” per designare l’umanità non solo non consente di rappresentare le donne e i soggetti che non si riconoscono nei binarismi di genere, ma soprattutto oscura il loro posto nella società (En finir avec l’homme. Chronique d’une imposture – Donnemarie-Dontilly, Editions iXe, 2021).

 

Tuttavia, come dice sempre Celotti in un contributo che si intitola «Femme, j’écris ton nom… ?» Un’escursione nel mondo vario delle lingue francesi, altri paesi francofoni hanno intrapreso, anche sul piano della lingua istituzionale, strade diverse. Ad esempio, come accaduto in Canada, sostituendo l’espressione «Droits de l’homme» con l’espressione «Droits de la personne».

Naturalmente tutto questo, soprattutto in Italia, viene non di rado ridicolizzato, ovvero viene interpretato come uno dei deliri che sarebbero connessi agli imperativi della correttezza politica o una delle tante subdole manifestazioni di potere dell’ideologia woke. Che esistano non pochi problemi rispetto a questi imperativi nessuno lo nega. Altrettanto non si può non notare come la critica alla correttezza politica sia spesso – non sempre, ma spesso – una maniera facile e banale per evitare di mettere in discussione i modi con cui si è abituati a pensare. Essere consapevoli del legame che intreccia quello che si pensa con il modo in cui lo si pensa, ovvero essere consapevoli delle conseguenze e delle implicazioni che sono connesse ai termini che si usano, è in realtà un esercizio che si dovrebbe sempre fare, soprattutto in ambito scientifico, per evitare di pensare implicitamente ciò che magari esplicitamente non si intende pensare.

 

8. Conclusioni

 

Intitolare questo nuovo museo “della Natura e dell’Uomo” non è di per sé “errato”. È un museo di antropologia e di storia naturale, se così si può dire, e con i due termini – Uomo e Natura – ci si intende evidentemente riferire da un lato a Homo, ovvero al genere di primati ominidi da cui proviene Homo sapiens, e dall’altro a quel dominio di realtà abitato dai minerali, dai vegetali e dagli animali non umani. E tuttavia, questa denominazione, che non era certo l’unica possibile, suona al contempo come un’occasione persa. Pensare il nome di questo museo poteva essere infatti un’opportunità per un’istituzione universitaria di entrare con una propria idea dentro un dibattito fra i più accesi e interessanti che attraversano la cultura e la scienza contemporanee, ovvero per testimoniare, soprattutto come Università, la volontà di inoltrarsi verso direzioni magari ancora inedite, ma certamente maggiormente rispondenti alle urgenze del tempo in cui si agisce. In ogni caso, con un piccolo sforzo di creatività a cui sarebbe stato bello convocare l’intera comunità scientifica universitaria, si sarebbe potuta evitare l’impressione di una reiterazione di dinamiche che possono legittimamente apparire discriminatorie e per chi in quei dualismi, in quelle classificazioni e in quelle nomenclature non è più disposto a riconoscersi.

 

Chiunque lavori con le parole sa o dovrebbe sapere che le parole – tanto più se connesse a istituzioni che mirano a permanere nel tempo – non sono mai contenitori neutri: proprio perché immerse nella vitalità della lingua e della cultura, le parole sono sempre anche veicoli più o meno consci di presupposti ideologici, culturali e di potere. A loro volta, le resistenze ideologiche, culturali e di potere alle modificazioni degli usi linguistici o anche grammaticali sono non di rado cieche alle trasformazioni della società, e si fondano spesso o su un’idea fissa della grammatica intesa come norma eterna e intoccabile o sull’autorità della tradizione, ovvero, in entrambi i casi, negando tanto la storicità dei nostri modi di pensare quanto la specifica storicità della lingua, come se essa fosse una sorta di tabernacolo intoccabile e perciò priva di una sua specifica evoluzione. Farebbe invece bene e sarebbe certamente anche utile pensare della lingua ciò che Darwin pensava del mondo naturale alla conclusione dell’Origine delle specie, ovvero che in esso «innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi».

 

[*] Ringrazio per la lettura del testo e per i consigli che mi hanno dato: Marco Bonutto, Francesco Campana, Felice Cimatti, Michele Cortelazzo, Luca Corti, Alessandra Fussi, Elisa Gremmo, Giulia La Rocca, Giovanna Miolli, Elena Nardelli, Annalisa Oboe. Ovviamente la responsabilità di quanto scritto è solo mia.

 

[Immagine: Museo della Natura e dell’Uomo dell’Università di Padova].

2 thoughts on “Le istituzioni e le parole. Il Museo della Natura e dell’Uomo dell’Università di Padova

  1. Grazie di questo commento, risulta molto importante. Sarebbe interessante conoscere il dibattito intorno alla scelta del nome a livello cittadino (che mi pare sia stato assente) e soprattutto all’interno dell’istituzione universitaria…

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