di Antonio Casto

Che una suora spretata (disuorata?) possa ancora sollevare un po’ di interesse oggi, anche solo nel frequentatissimo sottobosco del trash e dei meme, pare strano qui in Italia, dove le suore abbondano e risultano meno esotiche che in qualsiasi altra parte del mondo, e dove perciò dovremmo conoscerle bene. A maggior ragione quando si tratta di un prete esuberante, o di una sorella lanciata come cantante televisiva da baraccone, è difficile non prevedere l’esito della parabola “artistica”: dal convento a qualche deteriore passaggio televisivo fino a camarera barcellonese (forse in attesa di una chiamata da Almodóvar?).

 

Negli anni, i nostri sceneggiati televisivi le suore ce le hanno mostrate ovunque e in tutte le salse, soprattutto sulla piattaforma dichiaratamente chiesastica di Rai1, da Virna Lisi all’ormai inamovibile Elena Sofia Ricci, paredra “comica” di Don Matteo per i pensionati semiparalizzati sul divano (o piuttosto per le loro badanti slave). Certo sempre disciplinate e granitiche. Casomai è al cinema che si può aspirare a qualcosina in più. Il disincanto completo ce lo ha mostrato pochi anni fa uno dei nostri genî più sottovalutati, Pappi Corsicato, nella scena de Il seme della discordia in cui una moderna Marquise von O… rivela di essere incinta senza aver avuto rapporti a una suora che serve in un negozio di articoli religiosi: «Ma che stronzata» risponde quella. E quando viene mandata a quel paese: «Se lo vada a prendere in culo lei», finché la situazione degenera in una lotta coi ceri: «Te lo do io il miracolo.»

 

Forse oggi farà gola il fatto che le storie testimoniate sono “vere” (le virgolette sono di rigore), tra karaoke e reality, opinionisti col crocifisso e teglie di pizze moltiplicate dal Signore. O piuttosto che la vicenda si svolga appunto in tv e non al cinema, con la “perdizione” della suora canterina simboleggiata dalla catabasi dalle prime serate Rai ai pomeriggi Mediaset. Certo è che, evidentemente, resiste il fascino della suora come emblema, nonostante tutto. Gli splatter religiosi a suon di sorelle e conventi abbondano, e per chi crede che siano una fugace moda attuale, basterà scorrere la lista degli horror anni Settanta per scoprire un intero filone nutrito abbastanza da meritarsi un nome tutto suo, nunsploitation (la lista di Wikipedia sfiora appena la superficie). Non sorprenderà che il massimo rigoglio di questo genere si ebbe in Italia. Certo, a volerne rintracciare la genesi assoluta bisognerebbe risalire molto più indietro, almeno alle Lettere secentesche di quell’anonima monaca portoghese forse finta, e soprattutto, un secolo dopo, a La religieuse di Diderot (con progressiva nevroticizzazione, giacché al contempo saltava fuori de Sade), entrambi tradotti in film, ma oh quanto diversi: Rivette conserva un equilibro miracoloso tra lo sdegno civile dell’enciclopedista anticlericale e il gusto un po’ sardonico della vicenda piccante, rinunciando alle tentazioni erotiche di prammatica, mentre Jesús Franco imbastisce la solita accozzaglia softcore (ma l’errore anche più grave lo farà proprio con la sua trasposizione della Justine di Sade, laddove raccatta una tremenda Romina Power imposta dai produttori e spreca tragicamente Klaus Kinski chiudendolo alla Bastiglia con una penna d’oca in mano senza fargli mai aprire bocca). Per finire, a distanza di un altro secolo, l’ingombrante monaca di Monza (anch’essa alleggerita in tv dalla Marchesini).

 

Salta subito all’occhio che questi esordi sororali provengono tutti dai caldi paesi latini (su nel nord il problema erano piuttosto le streghe e i pastori luterani troppo rigidi, già da Häxan passando per Dies irae fino al tremendo patrigno di Fanny och Alexander). Perciò non sarà un caso che la trattazione tematica più limpida e asciutta (nonostante le apparenze) del problema delle suore represse lo darà la misurata Inghilterra, che le osserva dall’esterno. Il primato spetta certamente a Black narcissus, che in pieni anni Quaranta, a un pubblico probabilmente attonito, svelava, sub specie mélo, le tentazioni delle ceree anglicane dirottate sui cocuzzoli tibetani, conturbate dalle cosce abbronzate e pelose di Mr. Dean (una sorta di versione camp di A passage to India). Poi arriva The devils, e Ken Russell (partendo addirittura da Huxley) imbastisce un concerto blasfemo di visioni grottesche e denuncia vibrante: se Michael Powell aveva riversato ogni tensione nei colori accecanti e negli ambienti irreali, orchestrando il suo caratteristico passo di operetta, Russell tira fuori tutto nei corpi, tra gobbe e roghi, e siamo in pieno hard rock. (Per qualche strano motivo, che sarebbe il caso di approfondire, in ambito cinematografico sembra impossibile tenere le suore lontane dalla musica: non solo per Russell e Powell, registi di musical tout court, e nel trash di Almodóvar con tamburelli e laud: prima ancora dello smandrappamento totale di Sister act, già in The bells of St. Mary’s una Bergman buffamente velata si faceva accompagnare da Bing Crosby al pianoforte, per non parlare della Vitti suora alla chitarra in un episodio sgangherato di Dino Risi.) Russell fu l’involontario apripista di uno scadimento progressivo, che per tutti gli anni Settanta oscillò tra l’horror esplicito e l’erotismo più o meno velato. E quindi eccoci alle infinite versioni di Sade (ma per parlare di Sade al cinema servirebbe un libro intero, da Buñuel a Topor a Peter Brook passando da Salò), e infine all’exploit del nunsploitation.

 

Così, dopo un primo Novecento di suore glamour (Deborah Kerr e Ingrid Bergman, appunto, e poi Anna Karina ma anche l’incongrua Audrey Hepburn), le suore tribolanti degli anni Settanta sarebbero state direttamente Jenny Tamburi, Zora Kerowa, Franca Stoppi, Barbara Bouchet (ne La badessa di Castro, dove tanto per dare un’idea c’è anche Mara Venier), e le immancabili Florinda Bolkan (almeno due volte) ed Edwige Fenech (ma anche la Loren, forse in anticipo su tutte, nel ’71), ben prima degli anni Ottanta di Almodóvar (e dei Monty Python, in una delle sequenze più esaltanti della storia del cinema, il mini-musical cattolico “Every sperm is sacred” in The meaning of life) e poi Novanta e oltre (Whoopi Goldberg e Meryl Streep, però anche Susan Sarandon, benché vestita in borghese, e adesso Diane Keaton e Charlotte Rampling).

 

Per tornare agli anni Settanta, un esempio un po’ oscuro ma assai eclatante di questo genere è un film del 1979 dall’esilarante titolo di Suor Omicidi (distribuito fuori dall’Italia come Killer nun). Sulle soglie degli anni Ottanta, il pressocché ignoto Giulio Berruti ci offre un raro anello di congiunzione tra il mondo fantastico di Fellini e quello lugubre di Dario Argento, due estremi della cartina di tornasole dell’Italia. Anzitutto si incrociano qui, entrambe suore, due attrici feticcio dei due registi: Anita Ekberg e Alida Valli, due mondi non proprio vicini. E dopo lo shock iniziale pensiamo: ma certo! La Ekberg non era praticamente vestita da suora quando le volava il cappello su Piazza San Pietro ne La dolce vita? E la Valli insegnante severa in Suspiria (uscito appena due anni prima di Suor Omicidi) non era anche lì una sorta di madre superiora controllora (anche in Inferno fa la portiera, evidentemente ha poteri da gatekeeper). Unica pecca, non le vediamo mai nella stessa inquadratura: la sola sequenza dove si trovano assieme ha la Ekberg sullo sfondo e chissà quale controfigura della Valli di spalle: forse avevano impegni diversi e non potevano girare negli stessi giorni? Si odiavano o temevano? Chissà. Finisce per essere una scena svuotata e fuori tempo, che ottiene quasi lo stesso effetto spiazzante di quell’altra più famosa, in Just a gigolo di David Hemmings, dove recitarono senza mai incontrarsi Bowie in doppiopetto e la Dietrich in guanti bianchi e veletta nera, nell’ultimo film della sua vita.

 

Suor Omicidi ha un’insospettabile eleganza formale, e benché diventi presto noioso e confuso, almeno nella prima metà è molto difficile confonderlo con i film di suore para-erotici o pseudo-horror degli stessi anni. Già la parata sororale nei titoli di testa richiama la recita scolastica di Giulietta degli spiriti, e l’accusa del prete nel confessionale è un po’ quella nel flashback della Saraghina in . Ma tutto il film è intessuto di rimandi felliniani sorprendentemente espliciti, evidentemente voluti. Le comparse sono prelevate dritte dritte dal suo universo (forse anche certe facce sono le stesse): il paziente che fa gli squat e si vanta della «terza gamba dura», la donna che saltella e sta per farsela addosso, la “baronessa” che vuole la colazione a letto, le vecchie gemelle, le frasette marginali intessute alle voci principali, la carrellata nel parco come quella nella sorgente termale all’inizio di , le suore che ballano (e le suore stesse, ovviamente), la sorella che fa vedere le tette al paziente in sedia a rotelle («prendi il biscottino» le dice lui), l’acquazzone improvviso nel momento della festa come il finale di Amarcord, la scena degli esercizi all’aperto (potrebbe figurare in qualche vendetta femminista de La città delle donne, che Fellini stava girando quell’anno). Anche la colonna sonora a un certo punto imita in modo esplicito Nino Rota ne La dolce vita.

 

La differenza naturalmente è lo sguardo distante, invidioso e malato della Ekberg: quel mondo scanzonato, e innocente nella sua volgarità, è improvvisamente diventato una casa di pazzi, pericoloso, da guardare con sospetto. Quindi ecco saltar fuori tumori, allucinazioni, incubi, sangue, impulsi omicidi, droga e morfina (in anticipo su Entre tinieblas). C’è poi una discrepanza più subdola ma più essenziale: qui Anita fa effettivamente l’amore. Nella sequenza più stramba e dissociata del film, la suora esce dal convento, indossa abiti civili e va a cercarsi un uomo in un bar forse belga. I suoi pensieri mentre punta e sceglie il tizio da “predare” potrebbero a loro volta figurare nella prima parte de La città delle donne. Tuttavia qui l’uomo accetta l’avance e i due si accoppiano, in una scena francamente poco invitante e smisuratamente lunga (del resto è l’unica esplicita concessione all’erotismo d’obbligo in questa categoria di film). Ciò sarebbe stato assolutamente inimmaginabile in Fellini, dove la Ekberg era per definizione il donnone irraggiungibile, puro femminino (il primo di una lunga serie, ma il più candido e lirico). Tant’è che viene da chiedersi se Fellini nel 1979 si prese lo sfizio di andare al cinema e vedersi almeno questo momento. La Ekberg negli spasimi dell’amore gliel’aveva già rivelata il suo inconscio, sappiamo anche di preciso quando (è nel Libro dei sogni), 22 novembre 66: «il mio membro è infilato nel ficone di Anita che finalmente vedo godere. Ah! Che gioia, il suo limpido occhio di bambina viziata e crudele, si appanna nell’orgasmo, la palpebra scende come a velarne l’estatico godimento… Finalmente!». Rivelatorio, anche lì l’appagamento non raggiungeva la conclusione: «Ma ecco, la grande valchiria pur continuando a cavalcarmi mi volta la schiena, che puttana, penso, per non perdere tempo si è già vestita, ha in testa un colbacco, fra un attimo mi pianterà per correre da un altro cliente…». Né mai potrebbe durare così tanto, perché per Fellini il coito prolungato è un incubo (come in Lynch): l’unica volta che vi assistiamo nei suoi film è infatti con Mastroianni preda della moglie assatanata e indigesta proprio ne La città delle donne. Del resto la Milo beffarda, in Caro Federico (presunto romanzo di fantasia, ma con tutti i nomi veri e al posto giusto) faceva dire proprio a Fellini, nello sconcissimo resoconto del loro primo amplesso: «Non muoverti troppo, sennò vengo subito».

 

Comunque, qui lo sfogo sessuale della Ekberg in borghese non basta (la carica sensuale del film sembra piuttosto concentrata in Joe Dallesandro, dritto dalla Factory di Warhol – un altro attore che pare piombato nella pellicola per errore; una suora si deciderà a leccargli la patta, ma non oserà spingersi oltre). Per questo motivo partono finalmente gli omicidi, un po’ blandi per la verità, con annesse lunghe (troppo) allucinazioni chirurgiche, fino al colpo di scena finale (il tipico twist di quegli anni, un altro elemento argentiano). Insomma, se proprio non sono assassine, queste suore comunque non la fanno mai giusta, e finisce che portano un po’ sfiga perfino quando sono porche. Forse la morale è che conviene sempre darsi una toccata quando ti passano accanto? A ben vedere, non è la comparsa di una suora che, in Vertigo, fa cascare Kim Novak dal campanile proprio quando tutto sembrava risolto? E, a scavare tra i documenti del passato, c’è effettivamente da restare terrorizzati. Ecco per esempio la suora Margherita Maria Alacoque, oggi santa e ripubblicata (credo per scherzo) da Sellerio. Siamo in Francia nel 1686: «Una volta, volendo pulire il vomito d’una malata, non riuscii a impedirmi di farlo con la lingua e di mangiarlo […] E una volta in cui ero stata colta da nausea mentre accudivo una malata che aveva la dissenteria, […] mi vidi costretta, mentre andavo a buttare via ciò che quella aveva fatto, a bagnarvi a lungo la lingua dentro e a riempirmene la bocca. […] “O mio Signore, lo faccio per farvi piacere e conquistare il vostro cuore divino”». E, a conferma che l’abbinamento suore e scatologia è inaggirabile, possiamo tornare a Corsicato, che non contento di aver reso suora addirittura Iaia Forte (ne Il volto di un’altra, dove tra l’altro c’è una scena di attività fisica all’aperto che richiama direttamente Suor Omicidi), le fa dire, a Lino Guanciale manovale sexy e sporco che vuole scioperare: «Su muoviti Che Guevara, che c’è da portare i water nella discarica.»

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