di Francesca Donazzan
Navi nel deserto, esordio narrativo di Luigi Weber (Il ramo e la foglia 2023), è un romanzo affascinante: è infatti un oggetto di difficile catalogazione che è felicemente riuscito a farsi strada, dopo una lunghissima gestazione (30 anni, dal concepimento alla pubblicazione), nonostante il mondo editoriale viva spesso di tassonomie: la prigione dell’etichetta è, del resto, uno dei temi cruciali del libro. Ambientato in una terra inospitale e desolata, Navi nel deserto racconta le vicende, che si intersecano nel giro dei pochi giorni coperti dalla narrazione, di quattro gruppi: i Naviganti, che percorrono su navi dotate di ruote le piste del deserto, gli Isolani, stanziati nelle oasi, i Cittadini, al sicuro nelle loro rocche, i Pirati, che seminano distruzione e morte. Gli uni odiano gli altri, il disprezzo serpeggia per stereotipi di categoria: si tratta di schieramenti contrapposti e non comunicanti, se non per alcuni protagonisti del romanzo che, da esponenti anche di spicco del proprio gruppo – Conrad, capitano della nave Kairos ma ex cittadino, o il personaggio per molte pagine senza nome, pirata pentito – sperimentano o hanno già compiuto ciò che gli altri, visto l’integralismo sociologico imperante, definirebbero una conversione o un’abiura, più che un percorso naturale di cambiamento, intrapreso grazie a relazioni fortuite con l’Altro e ad una inusuale predisposizione al dialogo. Un nodo fondamentale del libro risiede proprio in questo: i personaggi principali, che si evolvono in un panorama statico, ci ricordano quanto la realtà – e la nostra identità – sia più complessa e fluida, al di là delle apparenze. Ci sono identità volubili perché in formazione, come per la giovane isolana Freya, e in consolidamento (il già citato Conrad), l’assunzione di identità diverse dalla propria intenzionalmente, tramite finzione e menzogna, o anche in modo meno cosciente. Tali figure, ricche di esperienze diverse ma ambigue perché non adese all’etichetta, di conseguenza vivono spesso in uno stato di emarginazione: l’uomo senza nome, emarginato al quadrato – prima pirata, poi traditore dei suoi – è non a caso la personalità più poliedrica, colui che attraversa tutti gli stati equilibrandosi tra finzione e rispecchiamento, nel suo percorso da pirata a naufrago, a finto navigante, a intruso tra i cittadini della rocca di Banka, fino a probabile futuro da isolano. È un tema che ritorna più volte, assumendo declinazioni diverse (ad esso concorre, ad esempio, anche la variazione del punto di vista) e che dunque palesa una necessità stringente, cioè quella di tenere a mente che, anche se si è deciso di essere in un certo modo, si può essere anche altro, tanto in potenza quanto concretamente: a chi lascia dischiusa in sé questa opportunità – che è anche una via di fuga in un mondo claustrofobico – diventa possibile, come per Conrad, «chiudere gli occhi, tirare un respiro profondo, e aprire una porta dove prima non c’era mai stata» (p. 79). Tale possibilità è negata a chi concepisce l’esistenza dell’Altro solo se assoggettata a un’etichetta e a una gerarchia, come al messo della rocca di Banka, ossia il luogo in cui si ribadisce, pur confluendo ad un certo punto le diverse compagini, l’impossibilità di una ricomposizione poiché l’Altro, che viene identificato con l’Esterno alla fine del libro, continua ad essere qualcosa da disprezzare e rigettare, in quanto non addomesticabile né mediante le regole né con la coercizione.
La dialettica tra le figure è rappresentata anche sul piano compositivo: nei dieci interludi in cui il libro si sviluppa, si alternano le pagine dedicate ora all’uno, ora all’altro scenario e si intersecano con naturalezza diverse voci narranti. La struttura del romanzo è congegnata alla perfezione: strategie di sospensione, anticipazione, allusione e i numerosi colpi di scena (che talvolta ti spingono a tornare sui tuoi passi, per constatare come l’esito sia impeccabilmente coerente) rendono la lettura famelica; anche gli inserti di altre storie che si incontrano lungo il libro contribuiscono ad appassionare il lettore al gioco e al divertimento di Weber nel cambiare momentaneamente registro, sperimentando stili e forme narrative diverse.
Pertanto, è anche attraverso lo stile che questo romanzo mostra la propria ricchezza: una scrittura molto curata, in cui è frequente un tono che si potrebbe definire evocativo, al confine con l’epico e talvolta con l’oracolare («Solo ora, nella luce livida del ricordo, vedeva le bende sui propri occhi e su quelli dei propri compagni, e gli insensibili lacci del fato che imprigionavano le sue mani. Era davvero come se un dio invido avesse voluto accecarlo: nessun avvertimento l’avrebbe distolto dal gettarsi verso il disastro così manifestamente predisposto per lui», p. 101), ma che lascia spazio all’ironia e, specie negli inserti, al comico spinto fino al boccaccesco, come nell’episodio in cui è protagonista il vescovo di Banka. Una penna vivace e duttile, dunque, nutrita sì di tante letture – oltre alle più evidenti, come Conrad, da cui derivano quasi tutti i nomi dei personaggi così come la genesi stessa del libro, o a quelle esplicitate dall’autore (Melville, Ballard, Dante…), si avvertono echi molto diversi, da Manganelli all’Edipo re («Anche per questo motivo decisi di rimanere un’ultima notte, determinato, ahimè, a raggiungere la conoscenza piena, senza ricordare il fatto che tutti coloro che s’erano ostinati su una strada del genere avessero finito per fare scoperte terribili», p. 208) – ma anche dotata di una sensibilità delicata, che ben si esprime nella discrezione, potentissima, usata nel racconto dei pensieri e degli stati d’animo di alcuni personaggi femminili minori, come Therese e Maria José. L’accuratezza dell’immaginazione si manifesta anche nella scelta di metafore, similitudini e analogie ricercate ma naturali, che non risultano mai forzate o stucchevoli:
I passi divennero innumeri e confusi, guidati dai solchi rettilinei nella sabbia, e alle sue spalle il fumo s’alzò in una grassa spirale verso il cielo, cozzò contro il soffitto delle nuvole che rotolavano indifferenti, perse il suo vigore, si sfece piano, molle come sonno, infine quella poca aria calda che in alto si muoveva lo disperse del tutto, simile a un chierico distratto che spegne i ceri e riassetta la chiesa dopo un breve, deserto funerale. (p. 98)
Ma, accidenti, quella non era affatto una voce normale. Aveva detto un «ciao» che sembrava appena raccolto da terra dopo essere caduto in una pozzanghera. (p. 330)
L’architettura ben congegnata, la trama dei significati, una scrittura scorrevole e al contempo accurata rendono la lettura avvincente fino all’ultima pagina. Navi nel deserto è ciò che ci si augura sempre di veder affiorare esplorando la landa della narrativa contemporanea: uno scrigno piuttosto consistente (376 pagine) di ottima fattura, che «occulta e conserva tutto alla perfezione. Se si impara a cercarci, certo, è possibile attingervi le più inattese risorse» – questa definizione, posta nella prima pagina apparentemente solo per descrivere l’ambientazione desertica, mi pare, se letta in senso metanarrativo, una sintesi perfetta del romanzo.
[Immagine: Yukultji Napangati, Untitled (2019)].
Bellissima recensione. Grazie.