di Pietro Pascarelli
La psiche si costituisce nel rapporto immaginario col mondo, e pur raggiungendo sufficiente autonomia e differenziazione mantiene dentro di sé parti costitutive che appartengono all’ambiente non umano. La psiche è estesa, la psiche è spazio. La psiche è cultura. Un uomo è una città.
Ma ci sono cose nella città in cui non ci rispecchiamo e che pure esistono, che non finiscono di sorprenderci, di estraniarci, di incuterci riprovazione, orrore e paura, per quanto grandi siano la nostra esperienza e la nostra mente.
Il noir, che si affaccia sulla parte della vita dove a un tratto cessa il lavoro della cultura, e si mostrano le verità più impensate e più crude sul registro del reale, deve accettare la sfida della fluidità e dell’enigma quale parte necessaria dell’universo. E deve misurarsi con le pulsioni e il fuori senso, e con un’ambivalenza e indefinizione che incurante del nome di questo genere letterario accosta la tenebra abissale a luce bianca accecante che ripristina il caos.
Le sue scritture sono impegno senza fine come la materia viva e cruciale se pur im-monda, violenta e tossica, che esso ci aiuta a fronteggiare, nell’intento di mantenere le condizioni di possibilità per la civiltà. Possiamo parlare di noir come notte oscura, o come trasmutazione e reversibilità della tenebra in luce che si sprigiona dall’abisso, luce insostenibile che tutto annienta eliminando forme e contorni: un caos bianco, entro il quale non c’è alcuna possibilità di rapporto, riconoscimento e conforto. Se il noir ha una specificità, paradossalmente non è nel colore, ma in un’ambivalenza e fluttuazione delle immagini del mondo, e nel rischio di perderlo o di perdersi in esso. Si esce qui da una logica binaria e, in un dispositivo topologico come il nastro di Moebius, il quale presenta una sola faccia che per un effetto ottico non appare tale, troviamo coesistenti sullo stesso piano delle realtà solo in apparenza contraddittorie e solo in apparenza situate su piani diversi e contrapposti. Il riferimento alla topologia è discorso che non solo esce dalla logica binaria, ma anche si ricollega ai modi di funzionamento dell’inconscio e del sogno, all’accettazione delle contraddizioni, a un’assenza del tempo comunemente inteso nella sua irreversibilità e unidirezionalità, al moto perpetuo della ruota dei significanti che vediamo sempre meno in rapporto, dopo James Joyce, con significati stabilizzati, al senso di estraneità del desiderio che pure ci pervade, alla distanza del soggetto dell’inconscio dalla persona totale in carne e ossa. Col noir siamo fuori da formule e dal rigore della logica, lontano dalla “persuasività dei legamenti del discorso che si sostituisce alla presa di contatto coi dati reali” di cui parla Sergio Solmi nei suoi Saggi sul fantastico, vicini al respiro della realtà in cui le cose avvengono mentre negli interstizi del tempo e dell’accadere si collocano l’azione e la variazione imprevedibili da procedimenti astratti idealizzati. E tutto ciò in un mondo, al di là della devastazione criminale dell’ambiente, che oggi presenta un inedito paesaggio sociale con nuovi oggetti, nuove relazionalità, in cui sfumano e soprattutto sono mutevoli i profili individuali, fino alla deleuziana-guattariana perdita del volto come operatore e significante sociale, fino a forme di esistenza poco rilevate dallo sfondo (come metafora dell’invisibilità di individui isolati come monadi), ecceità contraddistinte dal solo nome proprio, nell’incrocio con un’ora e un luogo, ad esempio Giulia alle otto della sera sul Tevere a ponte Sisto. Fino a sempre più invitanti e gradevoli rapporti con gli oggetti, per esempio quelli voluttuari creati dalla moda, con le sensazioni fredde eppure intriganti o estremamente morbide e confortevoli dei tessuti, oppure con le fruizioni senza limite offerte dal mondo dei cyborg, con nuove macchine e surrogati d’essere dotati del particolare “sex-appeal dell’inorganico” di cui parla Mario Perniola.
Il che non fa che aumentare l’importanza del rispecchiamento con l’ambiente naturale come fonte di sicurezza ontologica, e con un ambiente umano generico come sfondo necessario delle relazioni, del pensiero e della comunicazione, perché la famiglia dell’uomo è il linguaggio. L’unità del genere umano si può ricostituire, sosteneva nel 1973 Stuart Hampshire sulla New York Revue of Books, non attraverso la storia delle strutture sociali, ma attraverso una “filologia indomita, fantasiosa e di ampio respiro”. Siamo nei modi e nelle parole con cui diciamo e scriviamo la nostra epopea. Si veda al riguardo, per andare oltre Omero e James Joyce, il contributo poetico di William Carlos Williams, che identifica un uomo con la sua città, e canta la storia della sua Paterson, immersa in una natura splendida, per opera dei suoi umanissimi eroi e luoghi (donne, contadini e operai, bambini, animali, acque, boschi, montagne) nel suo poema Un uomo come una città. Si veda il rapporto di Oran Pamuk con Istanbul, cui è dedicata l’opera omonima, in tempi più recenti.
L’uomo non coincide con se stesso, e non può essere senza l’altro, allo stesso modo in cui il significante non è che rapporto con un altro significante.
Non si può pronunciare una parola o un nome, il nome di un che di sublime e insostenibile. E di questo qualcosa è in un solo momento negata e affermata l’esistenza. Non si sa di volta in volta se si tratti di un concetto, o di allegoria, di un’allusione per immagine, a un’entità o universo diverso e lontano. L’abisso in cui guarda il noir contiene ciò che non si vede e non si conosce perché non è ancora venuto allo scoperto, forse per necessità che resti segreto, come quell’elemento nascosto nel nostro intimo che deve restare sconosciuto e intatto come rileva Freud riprendendo Schelling :”Unheimlich [ ] è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato”. La sola minaccia della violazione del segreto fa insorgere in noi il fenomeno del perturbante (Das Unheimliche), con la sua ambivalente e contraddittoria consistenza, che è coesistenza di cosa estranea e familiare nello stesso tempo, di ciò che eravamo abituati a vedere in un modo e che adesso ci mostra un’altra faccia.
E non è forse un caso che in alcune culture sia il bianco il colore della morte, mentre in altre è quello della vita e della gioia. Ricordo inoltre, per entrare nella dimensione letteraria, che a introdurci nella sinistra atmosfera del noir è una luce bianca che è dovunque sulla scena ed esplode in certi dettagli come i gigli o il marmo o il candore idealizzato della giovane protagonista votata all’immortalità, in un raffinato e agghiacciante racconto di Robert Williams Chambers, dal titolo La maschera. Qui il rapporto cruciale intorno a cui gira il discorso è quello fra il vivente umano e la materia non umana, sulla scena dell’inorganico e dell’organico, con le forze sconosciute che governano la morte e la vita, inarrestabili trasformazioni che corrono in tutte le direzioni, coinvolgendo nella loro anarchica direzionalità anche il tempo. In agghiaccianti artifici è l’orrore che la bellezza (la fanciulla, sontuose architetture d’interni, fiori freschissimi, statue, l’arte stessa) nasconde, come Rilke suggerisce nelle sue Elegie duinesi.
Non è in gioco solo la qualità di superficie o la salute intrinseca dell’ambiente rispetto ai viventi; se si va oltre la superficie, ad esempio parlando dei crimini delle ecomafie, si vede che non solo è minacciata la vita di ogni vivente, ma la possibilità che vi sia ancora un posto e una dignità per ciascun essere, una storia per l’umanità, e una possibilità di coesistenza civile in seno alla legge e alla civiltà. Il noir segna il confine fra la polis e la barbarie, e trae la sua importanza dal fatto che incrocia un attacco al cuore stesso dell’uomo e del suo mondo, alla sua radice e alla scena che riflettendone l’immagine e la voce, il calore e l’energia, danno forma e senso alla sua esistenza.
Se si passa all’analisi genetica delle forze in gioco che portano alla costruzione narrativa, e a conseguire con essa scopi psichici e sociali, ci sembra che il noir abbia la stessa origine del weird, e affondi le sue radici in un tempo immemoriale, in cui di certo l’uomo, all’alba della sua storia, o ancor prima, non aveva ancora la sicurezza della kantiana unità trascendentale dell’autocoscienza, in una condizione aurorale dominata dal sentimento della paura di fronte all’ignoto, a forze immani che nella vita egli scopre, primariamente nei fenomeni naturali. Fenomeni che, pur consapevoli della loro completa indifferenza rispetto a noi, comunque investiamo di senso e descriviamo tanto come grandiosi, maestosi, quanto come spesso ingovernabili, crudeli e distruttivi. Troviamo germi di queste visioni terribili e consone all’atmosfera del noir, che sono vere e proprie proiezioni di materiali inconsci, senza peraltro che si possa identificare l’inconscio come il regno dell’orrore, nelle potenze oscure, nei gorghi attraenti e subdoli che inghiottono come il maelström in Edgar Allan Poe (Gordon Pym), nell’alone malevolo soffuso intorno a una perfida Stella Polare che ammicca orribilmente come un occhio folle in Howard P. Lovecraft (Polaris) e nelle subdole fascinazioni che portano al dissolvimento psichico e alla perdita della differenziazione dell’individualità dal mondo nei fenomeni dell’olonismo descritti da Ernesto De Martino, il nostro più grande antropologo, autore di Il mondo magico, di La terra del rimorso, di Sud e magia.
Nella terra del rimorso un dispositivo coreutico-musicale guarisce i tarantolati, ponendosi la tarantola come un dispositivo culturale mitico-rituale per l’espressione/elaborazione teatrale, dunque ambientale — espressione ormai critica — di una condizione esistenziale di totale marginalità e subordinazione. È rispetto a questa crisi che si esplica l’azione terapeutica del succitato dispositivo di musica, danza e colori, documentato dalle ricerche antropologiche nel Mezzogiorno d’Italia di Ernesto De Martino. Quando i modi di elaborazione del negativo falliscono si giunge alla crisi della presenza, alla perdita dell’agentività e centralità del soggetto umano. Ed è allora che il mondo esce dai cardini, e la cicala nella canicola e nella noia estiva diviene assordante, corre col suo canto verso l’eternità gelando la tarantata in un attimo prodromico della crisi. Vi è corrispondenza dialogica fra stati d’animo e paesaggio visuale e acustico, animali, insetti, condizioni atmosferiche, e dilaga nel mondo una phoné, per dirla con Carmelo Bene, una sorta di brusio di sottofondo che rompe il grande silenzio del primo orizzonte umano. Può esservi integrazione dell’antropologia del suono, della voce, della musica, degli affetti e dei sensi in un dialogo con tutti i viventi e persino gli oggetti e spazi inanimati in cui la phoné risuona, oggi coinvolti insieme a noi nel declino ambientale planetario. E si può ad esempio pensare, con l’etnomusicologo e linguista Steven Feld e con l’antropologo Giovanni Pizza, a una costellazione acustico-ambientale, a un’articolazione di senso, a una sorta di abbraccio tra canto umano e canto delle cicale.
Di questa specie di concordanza è espressione anche il canto degli uccelli, in cui l’antico pensiero dell’Arcadia individuò il metro di un’ armonia cosmica che non detta solo i ritmi e le melodie musicali, ma anche le leggi che regolano la vita umana, ed è la misura di tutte le cose. Essa è il nomos, che corrisponde all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, e a un metro che indica “ogni azione giusta”, come osserva Monica Ferrando nel suo libro Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico. Fu riconosciuta col nomos la possibilità che un impulso di conoscenza dal mondo non umano trapassi come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte. Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di Dike– la Giustizia – venne inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
È questo mondo simbolico ciò che può andare davvero perduto. Nella eliotiana Waste Land si perde quel legame di familiarità che è alla base dell’abitabilità del mondo. Si perde il contatto, lo scambio, l’ispirazione continua, che quell’arché rappresenta. Il noir che guarda all’ambiente intercetta appunto l’attacco a questo legame.
Il quadrante ecologico del noir si rivolge sia verso l’ambiente umano, che finora è stato più studiato, anche dalla psicoanalisi, sia verso l’ambiente non umano, comprendente la natura sia come scena del mondo inorganico, come paesaggio ed elementi primordiali, sia come teatro della vita, del pensiero magico e della scienza, cogliendo la centralità del mondo vegetale, degli alberi e delle piante fuori da ogni vieta o strumentale retorica idealizzazione nella cornice dell’incontaminato fuori dal tempo. Il mondo vegetale, seguendo la pista filosofica tracciata da Emanuele Coccia nel suo libro La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, è inteso come protagonista che crea mondo attraverso la fotosintesi clorofilliana, e non come entità o fenomeno residuale.
Al di là di ciò, vanno considerate come parte vivente dell’ambiente umano la cultura, le possibilità offerte di libera espressione e creatività. Ma il rapporto con l’ambiente non umano è fondamentalmente dilemmatico, poiché ci troviamo continuamente a oscillare fra la spinta verso differenziazione e distacco, e quella tendente a farci restare parzialmente ancora fusi e confusi. Alla fine, comunque, si può ritenere che nell’inconscio ci sentiamo comunque trascinati insieme all’ambiente in uno stesso destino. La psiche, afferma Freud, è estesa. La psiche si costituisce in estensione, anzi è estensione, non è nello spazio, bensì è spazio, cioè esteriorità e realtà, è ciò che in essa trova iscrizione nei rappresentanti psichici, nelle identificazioni, nei simboli linguistici, nei processi di pensiero sottesi alla percezione, alla riflessione, al ricordo. La psiche, noi, noi che siamo anche gli altri, è e siamo il mondo in cui ci riconosciamo e anche quello da cui ci differenziamo.
Il mondo è autonomo e indipendente da noi e dalla nostra esistenza nonché, come osserva il filosofo Alfred Norton Whitehead, dal nostro bisogno di metafisica e teorie “scientifiche”.
Se però il mondo, la natura, non hanno bisogno di noi e sono da noi autonomi, noi siamo ad essi legati profondamente non solo nella fruizione nella vita cosciente ma nell’inconscio, attraverso processi mimetici e rielaborativi di incorporazione, introiezione, proiezione.
Il mondo animato e inanimato, come ci dicono le osservazioni psicoanalitiche di Harold Searles, le prime sistematiche in ambito psicoanalitico, e ancora le più originali e rilevanti, è di fondamentale importanza per lo sviluppo psichico e gli equilibri psichici di chiunque, e i giovani in particolare hanno necessità di un riferimento stabile per trarne sicurezza e speranza, per derivarne energie, per scaricarvi le tensioni e i materiali psichici altrimenti inelaborabili, in un processo di scambio sotterraneo e invisibile, e tuttavia imprescindibile.
Il mondo non umano è parte di noi, e non ce ne accorgiamo tanto la cosa è ovvia e naturale. Ognuno di noi ha in sé una componente non umana perché i processi di differenziazione non sono mai completi.
Per le strade del mondo, dispersa in minuti frantumi e polverizzata su una miriade di oggetti, vaporizzata nel paesaggio, troviamo dappertutto la nostra immagine come individui e gruppi umani, che l’ambiente, coi suoi tratti specifici e i suoi simboli, riunifica quale nostro specchio.
Ma il noir è anche approccio al non identico, si mette di fianco al nostro sguardo e descrive un modo inaudito di riconoscimento della parte di sé che non si può conoscere direttamente, senza mediazioni. Il noir scorge nell’altro e nella scena del mondo qualcosa che è allogeno e non ci rispecchia. Il confronto con ciò che non rimanda la nostra immagine ci interpella nella nostra costituiva divisione fra autocoscienza e inconscio, fra noi e l’Altro, che è cifra della mancanza ad essere, in quanto fondati dal desiderio dell’Altro, che segna la nostra vita. Siamo persona totale ma anche soggetti di desiderio senza soggettività, senza genere, né cicatrici, né patria. Il confronto con ciò che non rimanda la nostra immagine ci fa incontrare il reale, quel registro dell’impossibile, dell’irriducibile al linguaggio, che non cessa di non scriversi. Non si confonda il reale di Lacan con la realtà. Il reale di Lacan è quanto ci coglie sempre d’improvviso in modo inatteso e irrecusabile, e consiste in qualcosa che sfugge alle possibilità di essere detto. Il reale è qualcosa che non governiamo, è la pulsione, la spinta vitale, come pure per converso la morte, che ci è così estranea da non avere una sua rappresentazione nell’inconscio, anche se i suoi temi e immagini infestano la vita. È l’improvvisa comparsa della maligna stella che minaccia il mondo sotto lo sguardo incredulo e atterrito dei popoli, nell’omonimo racconto di H.G. Wells (La Stella), è la visione della cosa immonda di Lovecraft (Quella cosa sulla soglia). È l’imponderabile, è il furto della valigia e dell’ombrello, in America di Kafka, che il giovane protagonista aveva raccomandato alle attenzioni di una persona, giusto all’arrivo in porto, al momento dello sbarco. Ma è anche un successo improvviso, qualunque cosa che anche in meglio subitaneamente cambia la vita.
Ci segna il fatto di desiderare l’impossibile, l’introvabile, qualcosa di cui abbiamo nostalgia senza averla mai avuta, qualcosa che amiamo sommamente, e che perciò invade tutte le altre senza remissione, rimanendo tuttavia inafferrabile, dispersa nelle distese dell’ambiente non umano e umano.
E allora nel noir, noi umani sempre legati a una speranza, all’attesa di qualcosa di buono che ci conforti, possiamo intravvedere il nostro traumatico rapporto col reale, con ciò che, come il sogno, ci lascia confusi, sorpresi, estraniati, estasiati, ci vede impauriti e fuggitivi. O esitanti nel senso di Todorov, ma anche nel senso di Freud e del suo perturbante di fronte al quale restiamo inquieti e attoniti, rabbrividiamo tanto più quanto più la razionalità illuministica ha voluto scacciare, negandola, la nostra componente di “sragione”, quando è negato ogni spazio al soprannaturale e a modi di funzionamento mentale che integrano in una sorta di accettazione incantata le superstizioni, le ossessioni, le paure, il passato che non è passato e vuol tornare. Il noir riproduce come il sogno un rapporto che ancora non c’è col mondo, che ci mette a confronto coi nostri più cupi fantasmi e coi nostri più grandi desideri. Esso ci mostra l’altra faccia, quella che diremmo disumana, dell’umano. E impariamo che non tutto possiamo controllare e capire e che c’è qualcosa che non mai incontriamo se non appunto nel sogno, come pure che non tutti gli incubi si presentano mentre dormiamo. Come nessuno potrà mai davvero trovare il suo oggetto del desiderio, o porsi oltre l’ignoto, cioè dare all’ignoto una collocazione, così anche nessuno potrà mai porsi oltre il luogo dell’angoscia, della paura, della ricerca amorosa senza possibilità di successo, di mondi nuovi, di una patria ideale che non c’è. Il noir con quel certo suo sguardo non può aver fine, come tutte le cose immateriali, ma anche in virtù delle sue funzioni al servizio dell’umanità. Esso ci mostra con un gesto illusionistico le terre perdute che si estendono al di là del principio di piacere, dove c’è solo eccesso, morte e distruzione. È perciò un monito, e un legame con la vita.
Il noir a sfondo ambientale è indipendente dalle malefatte degli uomini che tuttavia utilmente indaga ai fini dell’arte e del progresso estetico e sociale. Quel che conta e ne fonda il valore è la contemplazione e lo studio che offre dell’ambiente, in tutti i suoi aspetti contraddittori, come parte fondamentale della vita —rendendo possibile, quale palestra transferale—elaborare nell’inconscio tanti nostri conflitti e angosce. Le specifiche narrazioni tematiche sono un dono aggiuntivo che soddisfa le necessità della cronaca e dell’attualità riflessa in un formidabile prodotto letterario che studiando il suo oggetto e raggiungendo i suoi lettori di rimbalzo si rigenera.