di Antonio Casto
Quarant’anni fa usciva un Wagner diretto da Tony Palmer, regista poligrafo e musicomane noto soprattutto per aver documento personaggi eminenti della generazione musicale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta (su tutti Frank Zappa, Leonard Cohen, The Beatles). La sua summa in 17 puntate All you need is love: The story of popular music (per la BBC nel 1977, il suo nome come regista fu apertamente sostenuto da John Lennon) divenne un involontario addio a una fase della musica e forse della storia, perché nel frattempo prendeva piede il punk e un certo più marcato degrado… Tra gli inizi come assistente a Ken Russell e la regia dei primissimi sketch di Palin e Jones ancora pre-Monty Python, Palmer cresce immerso in quel brodo di coltura formidabile, soprattutto musico-televisivo, che è la Gran Bretagna degli anni Sessanta. Però opta presto per una strada più austera e rigorosa, perché subito dopo intraprende un’imperterrita sequela di documentari, sceneggiati o strane mescolanze dei due, incentrati perlopiù su compositori classici o contemporanei (che continua ancora oggi: pare che la sua filmografia superi il centinaio di voci). Intanto diventa quasi portavoce ufficiale della famiglia Stravinskij, scrive libri e articoli, fa il critico musicale, dirige pièces e opere.
Queste personalità instancabili mettono sempre un po’ di soggezione, se non di sospetto: «ma come farà?…», e viene subito il dubbio che forse forse sorvolano su ogni lavoro con una certa superficialità, prediligendo quantità e immediatezza a spese della cura dei dettagli e della profondità, col risultato finale che poi in questa vasta mole di prodotti niente spicca davvero. Se questo sia il caso di Tony Palmer io non saprei, perché in verità di suo non ho visto quasi nulla. Però lo stacanovismo iper-produttivo, workaholic, è caratteristica piuttosto diffusa (a tutti i livelli) in Inghilterra, come anche nella Germania protestante e nel mondo ebraico, e forse sorprende più che altro noi latini. Un esempio italiano potrebbe essere Pietro Citati, nei cui libri quasi seriali si percepisce più che altro il dovere auto-imposto di affrontare un certo autore, e la fatica un po’ fredda di portare a termine l’argomento come un programma scolastico, senza altre spinte se non la buona coscienza di aver esaminato a fondo gli scritti originali e gli epistolari, ma più con la meticolosità imperterrita del pedante che con la rapsodia dell’ispirato, con la pretesa francamente assurda di consegnare alla storia un libro unico ed eccellente su Goethe, e poi uno altrettanto profondo su Tolstoj, e poi uno su Proust e poi uno su Leopardi e poi uno su Dostoevskij e poi uno su Omero e poi uno sulla Bibbia ecc. Chissà, forse è lo stesso demone della completezza che sprona Tony Palmer, perché l’impressione finale che lascia il suo Wagner è più o meno la stessa, di incertezza sulle motivazioni, di un’impresa vastissima che a tratti sembra intrapresa più per il gusto di ricostruire con puntiglio testimonianze, costumi e ambienti (c’è tra l’altro la fotografia di Vittorio Storaro, uno dei pregi maggiori; questo è un film che guadagnerebbe molto da un bel restauro digitale), per godersi la simulazione di eventi noti ai già informati, senza voler davvero aggiungere qualcosa alla (già incommensurabile) bibliografia wagneriana.
Comunque, se da un lato i dubbi sul senso e sull’obiettivo restano, dall’altro si è tentati di cogliere lo scopo del polpettone proprio in questa placida contemplazione che appare ricucita spigolando qua e là senza criterio, da cui (complice un ritmo disteso suggestivo) si resta effettivamente irretiti – a patto che l’argomento interessi già in partenza. Però è difficile immaginare un ignaro di Wagner catturato da questo film e mosso ad approfondirne il personaggio o la musica. È probabile piuttosto che ne resti intorpidito, spinto a credere che Wagner e ciò che gli ruotava attorno appartenga a un mondo paludato per noi ormai privo di vitalità e di collegamenti attuali.
E difatti anch’io, a essere onesti, mi sono sorbito questo Wagner del 1983 non per Tony Palmer, ma perché frequentatore assiduo del compositore, o dovrei dire piuttosto sua vittima affatturata, con conseguente smania enciclopedica. Insomma era l’ennesima scusa per ripercorrere ancora e sempre questo personaggio inesauribile, che come un maelstrom si pose solo e contro tutti al centro dell’Ottocento, assorbendolo per intero, per poi acquattarsi silenzioso alle spalle del Novecento, insondabile demiurgo del mondo contemporaneo. Le ramificazioni della sua vita e della sua opera come una radioattiva tela di ragno si stendono su tutta la modernità, si ritrovano da allora sotto ogni sasso della cultura, più o meno visibili, nascoste dietro ogni forma più o meno recente dell’arte, della filosofia, della politica, della società: Wagner è l’ombra di Marx, è il burattinaio di Nietzsche, la prova generale di Freud, l’inventore del cinema d’autore, l’infusore della vitale riscoperta del mito e dell’Oriente, e perfino nelle sue spremiture più affrettate e contorte avrebbe ancora dato carburante a certa ideologia nazista e a tutta la popular music, fin nelle sue tragiche propaggini attuali, culto devozionale delle rockstar compreso.
La storia della pellicola è travagliata, soprattutto per montaggi e durate, e ogni versione ha generato commenti anche diametralmente opposti nella critica cinematografica: Palmer mette assieme un film di quasi otto ore, poi lo riduce a cinque (lodatissimo), poi lo manda in tv in dieci puntate da quasi un’ora l’una, qualche anno dopo negli Stati Uniti in una versione di quattro ore (stroncato), e quando lo fa uscire in DVD lo divide in tre puntatone che recuperano il taglio originale, di sette ore e tre quarti. Per inciso, si ha l’impressione che ogni volta che si tira in ballo Wagner, anche indirettamente, debba per forza dilatarsi tutto, dimensioni dei libri e durate dei film (Ludwig, Hitler: A film from Germany, la mostruosa biografia di Newman), ma non è affatto vero: il miglior film su Wagner per me resta ancora quello di Dieterle degli anni Cinquanta, che dura appena un’ora e mezza e scorre via con adorabile semplicità. – Comunque, io ho visto le dieci puntate, dunque la versione più integrale.
L’inizio fa scattare una certa aspettativa, perché si parte dalla fine a Venezia (sotto – inutile dirlo – c’è la marcia funebre del Siegfried): la salma scorre in gondola lungo i canali, Cosima in piedi come a vedetta in gramaglie (sembra quasi il finale di Don’t look now). Soprattutto, assistiamo all’immediata produzione in serie di busti del maestro, che sembra già una presa di posizione ironica, come a dire che Wagner è già diventato oggetto di consumo, mentre la sostanza manca (e forse, vuole sottintendere Palmer, è sempre mancata?).
Peccato che, riportati subito dopo ai tumultuosi anni della giovinezza, la prima scena a cui ci tocca assistere è un’arringa di Wagner al popolo in subbuglio, in cui parla di spazio vitale per i tedeschi, e anzi dice proprio «Germany must have its place in the Sun»… Siamo ancora ai paragoni con Hitler?! E già nel primo quarto d’ora? La delusione è grande. Il suo pubblico infervorato inneggia («Wag-ner! Wag-ner!»), e come se non bastasse, agli osanna della folla Palmer sovrappone audio di parate naziste, con tanto di ben udibili Sieg heil. Un vero disastro. Ma decidiamo di soprassedere (poco dopo vedremo il compositore addirittura dirigere di persona l’incendio del teatro di Dresda, ridendo con le fiamme sullo sfondo).
Ci sono altre scene che, al di là della veridicità, sono al limite della sciocchezza o almeno lasciano dubbiosi sulla loro funzione o utilità: nella terza puntata la sacra musica del Parsifal serve ad accompagnare Wagner e la Wesendock che si affacciano al balcone per sbadigliare e stiracchiarsi. Bah. Nella stessa puntata Minna entra nella stanza in cui Wagner sta lavorando, e i due dialogano mentre Wagner compone – qualunque wagneriano sa che nessuno avrebbe osato disturbare il compositore al lavoro. Verso la fine del film, la rampogna di Nietzsche prima di abbandonare il maestro e la consorte è altrettanto inconcepibile, e molto pedante. Altri pezzi presenti (diretti appositamente per il film da George Solti) dobbiamo ascoltarli assieme al canticchiare e urlare dei vari direttori d’orchestra, per quella fastidiosissima abitudine di rappresentare il direttore-macchietta che dirige sempre incazzato e trascinato dall’ispirazione (ci hanno costruito intere serie tv, mentre l’unico che ha colto davvero le misteriose implicazioni di questa figura resta Fellini in Prova d’orchestra).
Anche il finale è sgraziatissimo. Wagner elenca le persone che l’hanno abbandonato. L’idea è molto bella, e aderisce a certe malinconie degli ultimi anni che si trovano a più riprese nell’autobiografia e nei diari di Cosima. Ahimè, in questo flusso nostalgico spicca la nota grottesca, ancorché veritiera, di sentir Wagner sottolineare (col Parsifal di sottofondo) che secondo lui Nietzsche si masturba troppo – il risultato è involontariamente comico. E subito dopo, un ingiustificabile crollo a sceneggiato o mélo per descrivere la morte del compositore: Cosima apre il fogliettino di una spasimante di lui, gli fa una scenata e a lui viene l’infarto, praticamente davanti a tutti a tavola – scena quanto mai ingloriosa, tanto più che è quasi gratuita. È vero che ci sarebbe davvero stato un diverbio tra i due a causa di una delle Zaubermädchen quel fatidico giorno, ma certo non così soapoperese a ridosso dell’infarto (una descrizione millimetrica, succinta ma devota di quell’ultimo giorno la dà Sven Friedrich, direttore del Museo Wagner a Bayreuth, nell’ultra-raro documentario di Herzog Die Verwandlung der Welt in Musik).
Particolarmente deludente è il primo incontro tra Wagner e Ludwig II – uno degli eventi più romanzeschi, fiabeschi, romantici, di tutta la storia della civiltà, e che qui si situa al centro esatto della serie (tra quinta e sesta puntata) e ne costituisce il momento culminante a cui tende tutta la prima parte. Eppure questo incontro (come tutti i successivi) è breve, giustamente imbarazzato, piuttosto insignificante nei dialoghi (li controbilancia però il volto perfetto, incredulo e quasi sospettoso di Burton), e passa subito in secondo piano per prediligere di gran lunga le susseguenti beghe economiche del compositore, uno dei chiodi fissi di questo film (e della mitologia wagnerista). Certo, qualsiasi rappresentazione di Ludwig II deve sempre fare i conti con quella di Visconti e Berger, tanto più fresca nel 1983. Ma qui la figura del re ne esce davvero infelice in molti punti, con picchi da sceneggiato Canale 5, ad esempio quando nell’ottava puntata Ludwig visita i suoi feriti della guerra austro-prussiana.
In generale il livello della recitazione è piuttosto scarso. Burton sessantenne che interpreta Wagner trentenne nelle prime puntate è semplicemente ridicolo (tra l’altro qualche volta prova, anche lui, a intonare qualcosa, ma l’impressione è che fosse molto stonato; come anche l’attore che interpreta Ludwig, in un’altra scena opinabile dove lo vediamo canticchiare in una vasca piena di schiuma). Vanessa Redgrave, che interpreta Cosima e qui ricorda molto Tilda Swinton, recita a lungo come se fosse catatonica o ampiamente autistica (almeno fino alla richiesta di divorzio da Bülow), non ho capito bene perché, quando si pensa con che pugno di ferro la vera Cosima avrebbe mandato avanti la baracca di Bayreuth per cinquant’anni ininterrotti fino alle soglie dell’hitlerismo. Quando partorisce Siegfried pare invece Mia Farrow in Rosemary’s baby, e le doglie durano forse più di cinque minuti ininterrotti, non scherzo. Tutto lo sviluppo dell’amore di Wagner per Cosima, come anche la complessità dei suoi rapporti con Liszt, passa molto in sordina, e credo resti indecifrabile per uno spettatore non informato. Al contrario, il debole di Wagner per le donne raggiunge parossismi non solo nel finale ma anche a metà serie, dove a un certo punto una sequenza sfumata di volti femminili che si susseguono vira quasi verso il toboga de La città delle donne, e Wagner occhieggiato alla soirée è a un passo da Mr. Katzone (intanto la povera Minna diventa sempre più una Giulietta Masina tradita, in giro per l’Europa a impetrare l’amnistia come Bette Davis in Juarez). L’aulico trio John Gielgud, Ralph Richardson e addirittura Laurence Olivier è forse il più grande mistero del film, un casting incomprensibile e completamente sprecato, soprattutto Olivier che si limita a barocchismi facciali senza quasi mai aprire bocca.
Le scene meno imbolsite non mancano, benché rare: Wagner giovane che litiga con il libraio musicale, o ancora dal medico, o al sanatorio che legge Schopenhauer. E più avanti, quando i coniugi Schnorr disperati tentano di imparare il Tristan, e lui li dirige calmissimo e compreso di sé, senza superbia ma con irresistibile superiorità. La nascita di Isolde, col povero Bülow remissivo. Le prove del Rheingold con l’orchestra dislocata in giro per la casa di Tribschen (un lungo piano sequenza circolare). Richard Burton, che sarebbe morto l’anno dopo questo film, sembra piuttosto (in)sofferente e distratto, raramente partecipe, ed è comprensibile conoscendo lo stato fisico in cui versava. Non proprio quello che ci vuole per interpretare l’instancabile Wagner. Ma qua e là quest’ombra di sofferenza rabbiosa torna a suo vantaggio, perché anche Wagner – lo si dimentica quasi sempre, nell’ossessione di sottolineare le sue manie di grandiosità – era continuamente osteggiato da afflizioni croniche di tutti i tipi, e almeno questo il film ha il merito di mostrarlo più di una volta.
Comunque, i momenti migliori sono – ed è la sorpresa di questa serie – quelli in cui non succede nulla: Wagner in gondola, il pianoforte sballottato per mezza Europa, le passeggiate in montagna, i primi piani di chi ascolta la musica, o anche le scene inutilmente lunghe, come l’iterata sequenza dei fischi durante la prima del Tannhäuser a Parigi. Qualche volta anche un po’ incongrue, come se Palmer avesse deciso di montare tutto senza operare nessuna selezione, finendo magari per incrociare in modo non proprio convincente sequenze che da sole non reggerebbero, pur di inserirle per intero (per esempio Wagner che prova per la prima volta in teatro a Monaco di Baviera, alternato a Ludwig che passa in rassegna le sue truppe). Funzionano insomma quelle sequenze in cui Palmer si prende il suo tempo, ha il coraggio di mantenere un respiro disteso, un ritmo contemplativo che per qualche motivo non prende mai l’aspetto di riempitivo vuoto, di indulgenza verso il proprio girato come invece le lunghe attese inutili e fastidiose degli odierni film soprattutto indie (ho steso un breve decalogo per girare un film che abbia sicuro successo su MUBI, ma nessuna rivista cinematografica osa pubblicarlo). Credo che alla radice del piacere per questi momenti allentati, spaziosi, ci sia soprattutto, anzi soltanto la musica. Alla resa dei conti, la presenza della musica di Wagner (appositamente diretta da Solti per l’occasione, ma con tagli e sovrapposizioni qualche volta un po’ indigeste) qui spadroneggia – è inevitabile –, e Palmer ha il buon senso di riconoscerlo e farsene guidare ogni volta che può. Sull’impiego della musica di Wagner nei film si potrebbero scrivere più libri, fatto sta che ogni volta finisce per avere il sopravvento sull’immagine (recentemente ho sentito il preludio del Tristan perfino in una scena di sesso di Russ Meyer). Certe sequenze del film finiscono completamente travolte dalla musica, e senza musica sarebbero non solo troppo lunghe ma molto vacue. Al compleanno di Liszt, nella seconda puntata, la regia si impenna improvvisamente sul sottofondo della Walküre (l’immancabile cavalcata, non c’è scampo), con un piano sequenza abbastanza elaborato: è la musica che lo fa scattare e che lo guida, che rende creativa la regia. Quando per la prima volta sentiamo il preludio del Tristan, nella terza puntata, l’immagine si rarefà a una semplice serie di primi piani: la narrativa prende una pausa, si riversa nella musica. In tal senso il punto più alto arriva forse con la prima del Tristan nella settima puntata: l’intoccabile Liebestod fa da sfondo a una sequela di primi piani dei personaggi/spettatori implicati nella messa in scena dell’opera, per sondare l’effetto che la musica ha su di loro, quasi escludendo Wagner stesso: Cosima estatica, i ministri di corte che si guardano incerti poi sbadigliano ostentatamente, il povero von Bülow che tornerà a casa sudato e solo, dopo aver diretto l’opera, perfino un ardito salto temporale per raccontare la tragica fine, anni dopo, di Ludwig II.
È un peccato che, nonostante questo, nel film sia assente la resa dell’immane sforzo creativo a cui Wagner volontariamente si sottopose per le sue opere, tanto più se si considera che Palmer non arretra di fronte all’allungamento delle scene. Eppure dedica pochissimo spazio a esplorare la progressione delle partiture, le stesure, gli scritti politici, artistici, filosofici (eccetto l’arcinoto pamphlet antisemita, ovviamente). Nulla, per esempio, segnala l’interruzione del Siegfried per stendere il Tristan, o la miracolosa ripresa del Ring dopo i Meistersinger.
Non solo: per qualche motivo la serie ignora quasi completamente, in colonna sonora e in narrativa, le tre giornate del Ring: Walküre, Siegfried e Götterdämmerung, mentre c’è una vera e propria ossessione (compare in ogni singola puntata, ed è l’unico pezzo di cui si descriva a fondo il momento dell’ispirazione e la stesura musicale) per l’inizio della terza scena del Rheingold, la discesa di Wotan e Loge nel regno dei Nibelunghi (un intermezzo stupendo, cinematografico; vi si sofferma anche von Trier in Nymphomaniac), con tanto di nani veri che battono il ferro su uno sfondo di fuoco, e che compaiono in dissolvenza anche nei momenti più impensati. Il motivo lo si comprenderà forse notando il focus del film: Wagner non fa che chiedere e prendere soldi (batte cassa, appunto); tutto ruota attorno alla sua smania di affermazione, in altre parole attorno alla vieta accusa di megalomania, inganno e sfruttamento dei buoni sentimenti altrui che costituiscono la vulgata più superficiale del personaggio – assieme, va da sé, all’antisemitismo (non c’è puntata in cui non salti fuori un qualche suo gratuito insulto agli ebrei) e al presunto pre-nazismo (l’associazione più sciocca di tutte).
Che tutto il racconto della vita di Wagner si orienti in questo senso lo accettiamo, sconsolati: è irritante, ma ormai ci siamo quasi abituati (ed erano solo gli anni Ottanta…). Il problema però è che dovrebbe almeno emergere, in parallelo, il fanatismo magnetico che quest’uomo ispirava, e che spingeva gli altri appunto a sostenerlo anche economicamente, un mecenatismo che serpeggiò per tutta Europa e che altrimenti sarebbe inspiegabile: con la sola forza della parola e della sua ostinazione, quasi senza “fatti” in mano, soltanto con schemi grandiosi tutti mentali, Wagner, povero, esiliato, reietto fin quasi sulle soglie della vecchiaia, seppe crearsi con amara fatica una corte di adoratrici e adoratori che si andò misteriosamente ingrossando negli anni, inscenando one-man-shows lunghissimi di letture recitate con trasporto tra libretti, pamphlet e riduzioni per pianoforte, che dobbiamo immaginare (nonostante tutto) assai estenuanti – non proprio ciò che la borghesia tedesca e svizzera doveva considerare l’epitome di una serata spassosa. Per inciso, quella dei ritrovi in cui si pende tutti dalla bocca di un idolo ma si rischia il collasso è un’altra fissa tedesca, meravigliosamente immortalata da Mann nella Carlotta a Weimar, con il pranzo offerto da Goethe, deludente e banale, che in certi punti finisce per assomigliare pericolosamente alle memorie di Albert Speer sulle interminabili e noiosissime cene hitleriane (si addormentavano tutti, Hitler compreso, ma se eri invitato dovevi andare per forza). E se Mann la descrive così bene, dev’essere perché anche lui sottoponeva l’intera famiglia alla stessa tortura, leggendo ogni santo giorno a moglie e figli riuniti ciò che aveva scritto la mattina (Erika e Klaus scapparono il prima possibile).
Se Wagner era capace di radunare un gran numero di persone tutt’altro che ingenue e far loro sganciare denaro sulla sola base della lettura dei suoi scritti e di qualche stralcio mai messo in scena, la spiegazione è una sola: doveva avere un potere di fascinazione, una convinzione interiore talmente persuasivi, talmente saldi, fulgidi, senza i quali hai voglia a chiedere soldi, anche con tutta la prepotenza di questo mondo. Insomma, quando nel film, in mezzo alla folla, il giovane Richard urla: «Io sono Richard Wagner!», la scenetta, che vorrebbe indicare patologica tracotanza, in realtà fa pensare, a noi posteri, che lui effettivamente… era Richard Wagner, e lo sapeva, e forse a nulla sarebbe servito fingere umiltà o disconoscimento delle sue doti così superiori rispetto al mondo che lo circondava. Wagner pretendeva ciò che (noi oggi lo sappiamo) aveva il diritto di pretendere, e pazienza se a molti sul momento poté sembrare un presuntuoso egoista, prima e dopo l’intervento di Ludwig. È fin troppo facile dileggiare la continua fame di denaro, ma bisogna tenere presente che Wagner ebbe una vita tremenda e umiliante praticamente fin sulla soglia della vecchiaia. Cosa c’era di sbagliato nel chiedere con onestà quello che credeva e sapeva di meritare, e di chiederlo proprio per i suoi meriti, di non voler scendere a compromessi, tanto più se chi aveva attorno gli credeva? Si può davvero fargliene una colpa, ora che sappiamo che nella sua testa si agitavano il Ring e il Tristan, e che se nessuno l’avesse sostenuto sarebbero scomparsi per sempre con lui? Bisognerebbe dissotterrare piuttosto l’ansia feroce che deve aver divorato quest’uomo, capace di non cedere al suo immenso idealistico coraggio, di dedicarsi per anni a stendere una tetralogia sterminata quando tutto faceva presagire che nessuno l’avrebbe mai ascoltata, anzi che non esistevano teatri, cantanti e orchestre in grado di metterla in scena. In breve, la supposta megalomania a me sembra piuttosto una lucidissima onestà. Tanto più se si confrontano le sue affermazioni con quelle che oggi siamo abituati a sentire ovunque da chiunque per ogni misera cagata “artistica” (ogni spettacolo è sovversivo, ogni film è il migliore dell’anno, ogni libro è imperdibile, ogni artista è irraggiungibile e scostante e resterà nella storia – nessuno dura più di un’estate).
Insomma, in questo film, come quasi sempre quando si parla di lui, il grande assente resta proprio Wagner, e forse è giusto che sia così. Tutti i suoi comprimari sono ben caratterizzati, e di lui invece dobbiamo sorbirci l’enfasi, le sfuriate, la rigidità, e se ci va bene qualche primo piano con lo sguardo perso nel vuoto.
In conclusione, è difficile emettere un giudizio preciso, i sentimenti restano ambivalenti, benché possiamo dire che qualsiasi buona biografia di Wagner sarà più emozionante di queste 10 ore, a dispetto dei paesaggi, dei costumi, della fotografia e del rispetto delle fonti. Ma non importa: film su Wagner non ce n’è mai abbastanza. Anzi non sarebbe ora di provare a raccontarlo di nuovo, al cinema (si potrebbe farlo ogni cinque/dieci anni, le possibilità sono inesauribili)? Io ad esempio ci vedo benissimo Toby Jones. Bisogna sbrigarsi.
Siamo così sicuri delle fonti che continuamo a costruirci su dei florilegi assai interessanti, proprio perchè vanno a pescare nelle nostre conoscenze superficiali dei “fatti” a tutti noti del soggetto di turno. Resta il dubbio però che tali voli pindarici siano un senz’altro bello esercizio di stile ma nulla di più; che a guardar bene le conoscenze acquisite sul campo delle fonti così raffazzonate alla bell’è-meglio nei suddetti florilegi e anche su cose della tradizione considerate più attendibili per ragioni di stile e di gusto, ebbene codeste conoscenze vanno a scalzare tutta quella superficialità a favore della “tradizione”, laddove nel caos susseguente il conflitto fra tradizione e florilegio vince la “tradizione” del protagonista di turno, fonte anch’esso attendibile perchè più serio del florilegio di turno. Per esempio su Wagner val molto di più un libro di Nietzsche che uno sceneggiato televisivo che delle fonti non ha nemmeno l’ombra a fare da tema ispiratore…
il film è potere…