di Carlo Enrico Roggia

 

[L’editore Quodlibet ha da poco lanciato nella serie Quodlibet Studio la collana Stilistica e storia della lingua letteraria, diretta da Davide Colussi, Carlo Enrico Roggia e Paolo Zublena. La collana è inaugurata da un saggio di C.E. Roggia, Il detective, il diavolo, la campagna. Un percorso nel Pasticciaccio: ne pubblichiamo, leggermente modificato, il terzo capitolo, dedicato al finale del romanzo.]

 

…lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi.

(Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana)

 

Una rivelazione, quasi

 

1. L’ultima parola del Pasticciaccio si offre al lettore come l’enigmatico sigillo della sua incompiutezza: quasi è un avverbio che indica approssimazione, vicinanza estrema a una soglia non raggiunta, una indubbia «mark of non closure» dunque[1], per un romanzo che nell’inverno del ’56-’57 Gadda poteva magari sentirsi prossimo a concludere sotto l’urgenza del suo implacabile editore. Ma in prima istanza e letteralmente l’avverbio si riferisce all’incompiutezza di un percorso mentale del commissario inquirente, e rappresenta quindi l’estrema infrazione alle regole di un genere (il giallo classico) che proprio nella compiutezza senza residui dei percorsi mentali dell’investigatore ha una delle sue più tradizionali invarianti. Il senso di questo quasi, che si tinge di sfumature metanarrative e gnoseologiche, è così tutt’uno con l’enigma voluto da Gadda per la conclusione del suo romanzo, su cui tanto si è scritto[2]. Il ritrovamento da parte di Giorgio Pinotti presso l’Archivio Liberati di Villafranca di un corposo dossier di materiali preparatori ha definitivamente sciolto quell’enigma sul piano filologico: non è quindi su questo vertono che queste ultime pagine, quanto piuttosto su come, avendo in mente un piano abbastanza chiaro di scioglimento del plot, Gadda è venuto orchestrando le ultimissime pagine del suo romanzo, portando lettore e investigatore fino all’avverbio conclusivo[3].

 

Torniamo allora a questa conclusione. Come si ricorderà l’avverbio arriva all’apice di un crescendo di tensione e aggressività che segna il confronto fra l’inquirente Ingravallo e la governante dei Balducci, Assunta o Assuntina, davanti al corpo agonizzante del padre di lei: in un’atmosfera satura di morte. Ingravallo, che dapprima aveva «stancamente» incalzato la giovane col ricordo della sua ex padrona, alza progressivamente i toni: dice di sapere chi ha ucciso Liliana (è un bluff), ma vuole che sia lei a dire il nome. È a questo punto, dopo una prima negazione della ragazza, che esplode simmetricamente la violenza dei due antagonisti. Prima Ingravallo, con il furore di un «ossesso» («“Sor dottó […] come j’ ’o posso dì, che nun so gnente?” “Anche troppo lo sai, bugiarda,” urlò Ingravallo di nuovo, grugno a grugno. Di Pietrantonio allibì»), poi la sorprendente reazione di Assunta, in due tempi:

 

«No, sor dottó, no, no, nun so’ stata io!» implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio: «No, nun so’ stata io!» Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi. (QP 307)

 

Quasi, si diceva, è un avverbio di approssimazione: indica che una certa variabile si è modificata avvicinandosi al livello di soglia che farebbe scattare un evento o uno stato di cose, ma o non ha raggiunto quel livello («mi ha quasi investito») o non lo ha ancora raggiunto («siamo quasi arrivati»). Dunque Ingravallo alla fine del romanzo o è indotto a pentirsi ma si arresta un attimo prima, oppure non è ancora arrivato a pentirsi: lo farà dopo, fuori dal testo, nella parte non scritta ma solo immaginata del libro. Due piste alternative per l’annosa questione dello scioglimento del romanzo.

 

2. Ma pentirsi di cosa, esattamente? Questo è il primo punto da chiarire. Si ricorderà che nel corso della perquisizione era emerso nel flusso di coscienza di Ingravallo («gli venne l’idea, là per là») «che l’assassino di Liliana, oltre all’aver avuto dalla Tina indicazioni per lui utili, “indispensabili anzi: che dico, utili?” potesse aver affidato i gioielli a lei stessa:… “alla fidanzata?”» (QP 302): come tanti altri elementi di questa missione a Tor di Gheppio, l’ipotesi è un duplicato di quella analoga («fidanzamentale topaziesca» QP 272) formulata nel precedente capitolo dal carabiniere Pestalozzi a proposito dei gioielli Menegazzi appena recuperati a casa di Camilla Mattonari. Ingravallo, insomma, si è persuaso che Assunta abbia avuto un ruolo di informatrice, e in sostanza di complice nel delitto: per questo le chiede ripetutamente il nome dell’assassino. Il lettore non sa da dove gli sia venuta questa idea, che motiva comunque la stessa perquisizione a casa della governante: nessun elemento precedente fa pensare al sorgere negli inquirenti di sospetti su di lei, e del resto tutta l’operazione a Tor di Gheppio, un’operazione di cattura, con tanto di avvicinamento furtivo e accerchiamento dell’abitazione, appare narrativamente priva di radici. È una delle piccole incongruenze narrative di questo finale, in cui Gadda incalzato da Garzanti precipita gli eventi a conclusione, anche a costo di imprimere curvature impreviste, per non dire forzate al suo racconto. Comunque sia, ciò di cui Ingravallo è sul punto di «ripentirsi» nel finale è chiaramente questo suo sospetto, pressoché ormai fatto certezza, che Assunta sia in qualche modo legata all’assassino, un assassino che Ingravallo immagina di sesso maschile fin da quando si trovava al cospetto del cadavere di Liliana («Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso» QP 70). Ora, però l’inaspettata reazione della ragazza lo induce a correggere questa ricostruzione, e due, di nuovo, sono le possibili direzioni di questo pentimento: a) Assunta non è complice ma estranea al delitto; b) Assunta non è complice ma colpevole del delitto.

 

Nella sua raffinata analisi di questo finale, Ferdinando Amigoni ha osservato che le due ultime battute di Assunta sono incongruenti rispetto alla domanda di Ingravallo, che aveva accusato la ragazza non di essere ma di conoscerel’assassino. Una excusatio non petita alquanto sospetta; per Amigoni, anzi, senz’altro una Verneinung freudiana, una «menzogna isterica»: la violenza del diniego è proporzionale all’insorgere alla coscienza del contenuto represso; l’assassino è la stessa Assunta[4]. In realtà, sappiamo ormai oltre ogni possibile dubbio che nei mesi decisivi, tra l’inverno del ’56 e l’estate del ’57, Gadda aveva in mente per il romanzo una conclusione del tutto in linea con le stesure precedenti […].

 

Ma torniamo all’Assunta. Perché allora, se non è lei l’assassina, quel «grido incredibile» lanciato in faccia a Ingravallo? Per Garboli quel grido è senz’altro «l’accento della verità», per Federica Pedriali il grido «di una Lazialità a suo modo innocente»[5]. Vero, se la colpevole ha da essere Virginia: ma fino a dove arriva questa innocenza? La domanda è dovuta, perché ci sono diversi elementi dentro e fuori il testo che fanno pensare che questa innocenza non dovesse essere affatto completa, che la violenza dell’excusatio non petita potesse quindi effettivamente coprire la coscienza di una colpevolezza parziale: di una qualche forma cioè di coinvolgimento o correità. La stessa già citata proposta di titolo fatta a Garzanti fa pensare che nella parte non detta del plot la governante dovesse avere un ruolo di un qualche rilievo (altrimenti perché intitolarle il libro?), e del resto è Gadda stesso che si premura di segnalare che nello scrivere l’ultimo capitolo stava pensando per la ragazza a un supplemento di attenzioni degli inquirenti. Mentre si avvicina all’abitazione alla testa di un drappello in fila indiana, Ingravallo immagina che Assunta li abbia sentiti arrivare: «Difatti, come si arrivò di poi ad accertare, li osservava di finestra, dietro l’ante accostate, ove il romore dell’automobile l’aveva indotta a portarsi» (QP 299, corsivo mio). La precisazione implica che gli accertamenti relativi all’Assunta non si esauriranno con le domande di Ingravallo ma avranno un seguito, e lascia intendere che il fatto che Assunta spiasse l’arrivo della polizia dovrebbe avere qualche rilevanza per le indagini […][6]. Magari non sarà irrilevante aggiungere che nel delitto Barruca, che dalle ricerche di Giorgio Panizza sappiamo ormai essere il vero nucleo ispiratore originario del romanzo, avevano agito due donne, una sola delle quali era materialmente l’assassina[7]. Insomma, sebbene certo non responsabile in prima persona dell’omicidio, Assunta non ne è neanche del tutto estranea: in linea quindi con la prima intuizione di Ingravallo, anche se non nel senso immaginato da lui.

 

3. Tutto questo, ad ogni modo, varrà per l’autore che viene organizzando la sua trama, o al limite per quel che da lettori possiamo ricostruire delle sue intenzioni al momento della stesura. Ma che dire del suo personaggio, di Ingravallo? Per lui, l’investigatore-psicologo amante dei «libri strani» e che si esprime in «una terminologia da medici dei matti», un percorso del tipo indicato da Amigoni resta ben plausibile. Rileggiamo. Ciò che fa vacillare la convinzione di Ingravallo è soprattutto la violenza del «grido incredibile», la carica di aggressività che improvvisamente si palesa nella sua interlocutrice. Occorre fare attenzione alla metamorfosi subita da Assunta nello spazio tra la prima e la seconda negazione: quasi un’epifania. Dopo una prima reazione «di dovere», all’aggressione di Ingravallo la ragazza oppone in una sorta di contrattacco («all’offesa») una fiducia spavalda nella propria vitalità e giovinezza («negli enunciati di sue carni») cui non poteva che essere destinato un avvenire radioso («giorni che avrebbero ad essere splendidi»): un’affermazione del diritto vitalistico al godimento che coincide con un accesso d’ira, palesato oltre che dalla voce dal pallore e dall’espressione del volto. […] Perché mai, insomma, Ingravallo avrebbe dovuto leggere in tutto questo un indizio di estraneità al delitto? Semmai, con ogni evidenza, il contrario. Del resto nella sua mente l’idea che i sentimenti della governante per la sua malinconica padrona fossero segnati da una sotterranea violenza (una violenza che riproduce in minore quella conclamata di Virginia) aveva attecchito in modo subliminale fin dal suo arrivo a casa dell’Assunta. Si ricorderà come di fronte al primo apparire sulla soglia della ragazza il commissario fosse stato colto da un fulmineo ricordo involontario:

 

«È issa, è issa,» meditò non senza un batticuore composito: la stupenda serva dei Balducci, con lampi neri sotto le ciglia nerissime dove la luce albana s’impigliava, si diffrangeva iridandosi (la tovaglia bianca, spinaci) dai capelli avviluppati neri su la fronte quasi ad opera del Sanzio. (QP300)[8]

 

Un lampo mnestico, testualmente isolato dalla parentetica e marcato dalla sintassi nominale-giustappositiva: una delle tipiche emergenze «divinanti» di Don Ciccio. L’episodio degli spinaci rovesciati da Assunta sulla tavola del pranzo nel primo capitolo del romanzo, con il connesso momento di tensione tra la serva e la padrona, assume retrospettivamente i connotati di una scena rivelatrice, quasi simbolica: di profanazione (la tovaglia bianca) e rattenuta aggressività.

 

Insomma, un Ingravallo fin qui intimamente convinto che Assunta sia solo complice o in qualche modo legata all’omicida, è tentato di vedere nell’improvvisa violenza della sua reazione l’inatteso segno di una colpevolezza piena. Si arresta, sta per cambiare idea: arriva «quasi» ad accusare direttamente la ragazza dell’omicidio, ma il percorso mentale che porta a questa conclusione non arriva a compimento, come si diceva. Il fatto è che questo percorso segue la via del Logos, della riflessione («lo indusse a riflettere»); ciò che gli impedirà di arrivare in fondo non è quindi tanto o solo l’interruzione del romanzo, ma piuttosto il sopravvenire ormai imminente dell’intuizione risolutiva, che segue tutt’altra via che quella della riflessione cosciente: Ingravallo, ormai lo si è detto più volte, è un detective dell’Eros non del Logos. Nel tardo Incantagione e paura (1966), Gadda spiegò che «lo snodarsi impreveduto del groviglio è simultaneo col bagliore folgorante che illumina al commissario protagonista la realtà dell’epilogo. Il nodo si scioglie a un tratto, chiude bruscamente il racconto», e nell’intervista di poco successiva a Dacia Maraini: «Io [il Pasticciaccio] lo considero finito […], letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta»[9]. Due affermazioni citatissime: ma si noti che, se questo è vero, il romanzo è tagliato un istante prima di quel bagliore risolutivo, con Ingravallo che ancora non ha preso coscienza («non intese») di ciò che le sue facoltà intuitive e pre-razionali («l’anima») sono «in procinto d’intendere». Il bandolo dello «gnommero» è colto per noesi, è un lampo divinatorio che rimane propriamente fuori dal romanzo: arriverà un istante dopo che è stata scritta o letta l’ultima parola, e allora sì spazzerà via ogni rovello deduttivo, ogni dubbio, lanciando nell’inchiesta (negli ulteriori due o tre capitoli immaginati) il nome di Virginia verso cui tende il percorso, anche topografico, di Ingravallo[10].

 

Ma intanto l’investigatore (e noi con lui) rimane sospeso, intercettato da una conclusione narrativa che avrebbe dovuto essere solo provvisoria nel momento stesso in cui le diverse istanze che lo abitano stanno venendo a sintesi, e il suo destino gnoseologico e umano sta per compiersi: si compie, quasi.

 

Note

 

[1] F. Pedriali, Symmetries of closure (gli occhi del Lazio) [2001], in Ead., Cain and other symmetries (the early alternatives), in «Edimbourgh Journal of Gadda Studies», 6, 2007 (EJGS Monographs, vol. 3: http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/journal/monographs/pedriali/pedricain4.php).

[2] Una panoramica delle tante interpretazioni suscitate da questo vessatissimo passo è in M. Bignamini, Mettere in ordine il mondo? Cinque studi sul Pasticciaccio, Clueb, Bologna 2012, pp. 61-81.

[3] Rinvio a G. Pinotti, Ingravola in campagna. Un inedito finale («imperfetto») del «Pasticciaccio», «Strumenti critici», XXI, 2 (2016), pp. 199-211, e soprattutto all’ampia Nota al testo finale di QP, con la ricostruzione minuziosa e completa di tutta la storia redazionale del testo.

[4] F. Amigoni, La più semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio», il Mulino, Bologna 1995, pp. 126-39.

[5] Cfr. rispettivamente C. Garboli, «Quer pasticciaccio» tra Gadda e Garzanti, in «Paragone», 54, 636-40 (2004), p. 16; F. Pedriali, Il «Pasticciaccio» e il suo doppio, in Ead., Altre carceri d’invenzione. Studi gaddiani, Longo, Ravenna 2007, pp. 19-35.

[6] La conferma viene dal dossier dell’Archivio Liberati, da cui peraltro emerge che fino all’ultimo Gadda resta incerto su come sciogliere il nodo dell’apporto di Assunta e della relazione tra i due delitti: cfr. Pinotti, Nota al testo cit., p. 337.

[7] Cfr. G. Panizza, Da due sorelle a due cugine cit.

[8] Mio il corsivo. Il ricordo si riferisce a QP 18-19.

[9] Cfr. rispettivamente SGF I p. 1215; e C.E. Gadda, «Per favore mi lasci nell’ombra» cit., p. 172.

[10] Così infatti appare progettata la scena fin da un appunto del 1956: «Quando la domestica di servizio che non è andata al funerale, l’Assunta Crocchiapaini [sic] dice “non sono stata io”, balena per la prima volta all’Ingravola il sospetto che ad uccidere sia stata una donna, forse una donna di servizio licenziata» (G. Pinotti, Nota al testo cit., p. 337).

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