di Andrea Sartori
Le contraddizioni delle società liberali, da ultimo quelle che la Cancel Culture fa fiorire in seno alla difesa nominalistica della libertà, rendono oggi estremamente vario il discorso critico intorno alla censura. Sfuma, ad esempio, la contrapposizione tra società aperte e chiuse, mentre, dall’altro lato, una valutazione ponderata di che cosa voglia dire “censurare”, non può non rilevare che buona parte di quel che è innovativo nell’arte – nel teatro, alla radio, sui social – sorge dalla necessità di aggirare una proibizione, di convertire una barriera – ad esempio in contesti di repressione politica – in uno strumento di comunicazione.
Un saggio a più voci di Marta Rizzo (Non c’è che dire, La Lepre, Roma, 2023) offre un’ampia fenomenologia della censura – nella letteratura, nei luoghi istituzionali, nella cultura in senso lato e nel nostro contesto neoliberale d’esistenza – senza omettere d’evidenziare che, come s’accennava, v’è una censura paradossalmente funzionale alla libera espressione. È il caso di ciò che in conclusione del libro ricorda Edoardo Albinati, il quale rammenta che per poter produrre dei significati, occorre che essi siano costitutivamente abbinati a una forma – non a un mero ornamento. Questa forma per forza di cose si costruisce a partire dal linguaggio già dato, parlato da altri (il Simbolico, l’Altro lacaniano in cui già da sempre ci troviamo, per così dire). Tale linguaggio è lì a limitarci con le sue parole note, con le sue convenzioni, ma è anche a disposizione dei nostri atti d’interpretazione e, talvolta, di sovversione. Anche Freud, d’altra parte, nel quarto capitolo de L’interpretazione dei sogni (1900), imputava la creatività dell’inconscio, del suo esprimersi in sogni imprevedibili, in lapsus inattesi, in sintomi perfino bizzarri, alla sua stessa necessità di passare attraverso le forche caudine della censura (editoriale) esercitata dal Super-Io. In sintesi: più pressante è la censura, più originale è il risultato, perché le strategie per aggirarla devono avere un elevato gradiente di creatività.
Il libro ‘orchestrato’ da Rizzo non omette di dire questa cosa, ed è proprio essa a salvare l’operazione di Non c’è che dire dal rischio – implicito nel fatto stesso di lavorare a un progetto del genere oggi – di scivolare nel lamento, nell’atteggiamento del Oh tempora! Oh mores! Albinati potrebbe forse ricordare il caso di quando s’insegnano la grammatica a scuola, o il rispetto delle regole in un carcere: si tratta di capire che le regole (come la grammatica, come la forma dell’espressione, secondo quanto diceva Ludwig Wittgenstein in un testo pubblicato per la prima volta nel 1969, Della certezza) servono a dire e a fare qualcosa, a giocare un gioco, ovvero a mettere a frutto, come suggerisce Patrizio Gonnella, la propria capacità di libertà (Amartya Sen, La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Roma-Bari, 2007).
Dario Cecchi, a ragione, mette in evidenza le radici greche, e poi kantiane, del pensiero critico, e – come fanno in maniera approfondita anche Serafino Murri e Leonardo Clausi – vede nel modo in cui perlopiù viviamo e usiamo i social un ostacolo a questo stesso pensiero. Una delle cose che negli ultimi anni lascia perplessi, è infatti l’assenza – soprattutto nell’ambito accademico angloamericano, in cui vi sono tanti dipartimenti iper-specializzati in media studies – d’una riflessione sistematica, critica, appunto, sui social, insomma: l’assenza d’una teoria critica dei social media. Probabilmente, un tentativo di mettere in sequenza una serie di pensieri in questa direzione, è quello del contributo di Murri e Clausi in conversazione con Rizzo.
Prendiamo ad esempio la questione delle fake news. Come ha recentemente sottolineato anche Jürgen Habermas, con le fake news ne va ormai di qualcosa di più di qualche occasionale menzogna o distorsione propagandistica della verità, poichè a distorcersi è lo stesso rapporto tra realtà e immaginazione, ben al di là del sacrosanto compito dell’immaginazione d’essere immaginosa. La post-verità (Lee C. McIntyre, Post-Truth, MIT Press, Boston, 2018), ricordata da Murri e Clausi, indica infatti una vera e propria deriva illusoria del sapere, del dire, del credere, del ‘sentire’, e del vivere in quanto tali. La consapevolezza di tale deriva è stata anticipata, per certi versi, nel romanzo d’esordio (2000) di Frédéric Beigbeder (Lire 26.99, euro13,89, Feltrinelli, Milano, 2016), non a caso un pubblicitario disgustato dal suo stesso lavoro, consapevole che lo storytelling si sta ‘mangiando’ la realtà (come l’orrido ragno al termine dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello, 1916-1925, poiché con le genealogie, se si vuole, si può risalire la corrente quanto si vuole).
Il libro di Rizzo, con il suo dare la parola ad altri allo scopo di scavare nella cosa da una molteplicità di prospettive (tra l’altro questo è quello che doveva fare l’essay, secondo Robert Musil), è il tentativo di richiamarci un po’ tutti, senza enfasi ma con metodo, al senso della realtà. Un senso, beninteso, non enfatico, poiché bisogna tenersi ben lontani dal sostenere che la Verità debba essere restaurata dopo il disorientamento arrecatoci dallo scoprirci nell’era della post-verità.
Murri e Clausi toccano il nervo della questione quando ricordano il caso di Tom Hanks, secondo il quale egli oggi lascerebbe la parte del protagonista di Philadelphia (1993) a un attore gay, poiché solo un uomo gay può interpretare un uomo gay. Che cosa vuol dire interpretare qualcun altro? Che cosa vuol dire tradurre i libri di qualcun altro? Hanks, in tutta risposta, si auto-censurerebbe.
La convergenza distruttiva di Cancel Culure, uso acritico dei social, addictive design dei social stessi, rimozione dall’agenda politica e dalla pubblica discussione della centralità del problema del lavoro (materiale o intellettuale che sia) ha determinato l’attuale fluttuazione di molti di noi – a partire da coloro che vivono nel cuore pulsante dell’odierno neoliberismo senza alternative, ovvero da chi vive nei luoghi in cui viene ideato l’immaginario neocoloniale americano (lo ricorda Massimo Carlotto nella Prefazione) – in un singolare dominio d’irrealtà. In questo ‘territorio’ in cui domina l’irrealtà – pensiamo a molti dipartimenti statunitensi (non tutti) in cui si studiano le Humanities – vige una “pace terrificante”, come la chiama Daniele Vicari, citando Fabrizio De André. Quando domina questa “pace terrificante”, il dissenso non viene espresso, non trova voce, ma quando infine viene espresso (il coperchio sulla pentola a pressione prima o poi scoppia), viene fuori in maniera rovinosa, nel migliore dei casi dando luogo a una esasperata, irragionevole, polarizzazione delle posizioni.
Come forse scriverebbe oggi Fritz Zorn (1944-1976) nel suo unico libro (Marte. Il cavaliere, la morte, il diavolo, Capelli, Mendrisio, 2006), un libro dedicato alla critica del perbenismo borghese di Zurigo negli anni ‘70, la “pace terrificante” che la Cancel Culture si prefigge è frastornante e accecante nel silenzio e nel nitore che impone. Da questo silenzio, o vuoto di colore (di generi, di corpi, come dettano le prescrizioni della gender neutrality linguistica) vengono espulsi anche i rapporti tra le cose, poiché sono forieri di fastidiosi e disturbanti e per nulla armonici attriti. Così scriveva Zorn, cogliendo l’inconciliabilità di bigottismo e comparativismo:
pareva proprio che le cose di questo mondo non fossero in sé e per sé paragonabili. Ma le cose non paragonabili sono sempre per loro natura prive di valore e se ne stanno isolate e incomprese in un gelido spazio irreale. Non stimolano alla critica né al consenso; non impegnano, non hanno alcuna risonanza (…). I conflitti non esistevano, e non avrebbero neppure potuto esistere, perché le cose del mondo scivolavano via senza scontrarsi, in un sistema di assoluta assenza di rapporti.
Certi settori dell’accademia guadagnerebbero molto leggendo il libro di Rizzo e, in generale, ritornando allo studio della profondità storica (ottica) degli eventi, della letteratura, della filosofia, ovvero a un vero dialogo con la (‘vecchia’) cultura europea. Quest’ultima si è macchiata di crimini orrendi, sì, ma ha senso cancellare quel che di buono, di valido per il nostro domani, ha prodotto?
Occorre separare il grano dal loglio, dice Fabrizio Funtò, e la cosa disperante è che questo vecchio detto andrebbe letteralmente insegnato ad alcuni dei più agguerriti theorists delle Humanities. È disperante, dire che questa cosa semplice andrebbe insegnata, ma è necessario (è necessario insegnarla), poiché il peggiore nemico della Cancel Culture è la Cancel Culture (si potrebbe ripetere lo stesso della complessità potenzialmente autodistruttiva dell’odierna società americana, dalla cui deriva tuttavia nessuno ha da guadagnare, da qui l’urgenza d’un intervento didattico serio che provenga dall’Europa).
È quasi commovente il modo in cui Walter Siti (il quale di solito non commuove affatto, anzi) esprime la funzione che avevano i personaggi inetti di Svevo, Pirandello, Tozzi e tanti altri. Gli inetti, i non-adatti, gli unfit, mettevano a fuoco le contraddizioni, i dubbi, le défaillance e le crisi della modernità, dei suoi attori perplessi, al limite inconcludenti: questa è la realtà (molto prosaica, a dire il vero, molto semplice da riconoscere, come il separare il grano dal loglio), che oggi viene assurdamente rimossa, censurata, da chi dogmaticamente afferma che la direzione della storia, senza tentennamenti e giravolte, è una sola.
E che tutto il resto è da cancellare.