di Emanuele Leonardi e Paola Imperatore

 

 

[Pubblichiamo un estratto da L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso, in uscita per la collana “Ecologia politica” di Orthotes Editrice il prossimo autunno.]

 

 

In memoria di Angelo Baracca, militante anti-nucleare, pacifista.
In memoria di Ciro Adinolfi, operaio specializzato morto a 75 anni in un cantiere; Stefano Olmastroni, addetto alle pulizie;
Gabriele Lucido, camionista; Pasquale Izzo, operaio addetto alla segnaletica stradale.
Questo libro è anche per loro, lavoratori morti nel mese di luglio sotto il sole cocente, nel mezzo di un’ondata di calore senza precedenti.

 

 

Scriviamo questo libro perché abbiamo l’impressione che la portata epocale della giustizia climatica, per come è esplosa negli scioperi del 2019 e per il ruolo che gioca negli attuali processi di convergenza, non sia stata compresa appieno. Probabilmente sono note ai più le piazze ricolme dei global climate strikes, vale a dire i momenti-chiave di un vero e proprio tsunami sociale, che è tuttora in atto. Eppure, ancora pochissime sono le analisi politiche che sappiano tracciarne la parabola, valutarne complessivamente lo sviluppo, discuterne le prospettive. Proviamo noi ad aprire le danze, nella speranza che altri contributi vengano a nutrire il dibattito, per avanzare insieme.

 

La nostra tesi principale è che l’idea di giustizia climatica abbiano subito una profonda metamorfosi tra gli anni Novanta del Novecento, quando prende forma, e gli avvenimenti più recenti, inaugurati dal 2019: annus mirabilis, indubitabilmente. Certo, alcuni elementi di continuità persistono – e li metteremo in evidenza. Ma più importante è rilevare i punti di discontinuità, le aperture di possibilità, l’allargamento dello spettro – rispetto ai temi, senz’altro, ma soprattutto rispetto alle pratiche e alla capacità di stringere alleanze.

Ci tocca dunque partire da lontano: quello di Greta Thunberg non è infatti il primo volto di giovane donna a rappresentare l’attivismo climatico sul piano globale. Prima di lei – quasi trent’anni prima di lei – fu Severn Cullis-Suzuki a “zittire il mondo per sei minuti”[1] con il suo discorso al Summit della Terra che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992 e che può considerarsi la data di nascita della climate governance (strutturata attorno alle annuali Conferenze delle Parti, COP), cioè del tentativo orchestrato dalle Nazioni Unite di far fronte all’aumento delle temperature dovuto alle eccessive emissioni di CO2-equivalente. Figlia della scrittrice Tara Elizabeth Cullis e del noto ambientalista David Suzuki, Severn si presentò in Brasile all’età di 12 anni, come rappresentante dell’Organizzazione dei Bambini per l’Ambiente [Environmental Children’s Organization], che lei stessa aveva fondato, e inaugurò con le sue parole un genere che avrebbe avuto grande successo nell’ambito del governo globale del clima: la scudisciata giovanile alle delegazioni negoziatrici.

Finita per caso nel programma della conferenza – pare fosse stata notata per la perseveranza nel distribuire volantini davanti alle sedi dell’incontro – Cullis-Suzuki seppe cristallizzare in modo emblematico tre figure ricorrenti del dibattito sul riscaldamento globale:

 

– l’idea che la specie umana ne sia allo stesso tempo responsabile e vittima;

– l’appello ai leader affinché escano dal torpore e agiscano risolutamente;

– l’individuazione dell’asse Nord-Sud come perno dell’ingiustizia climatica.

 

Rispetto al primo aspetto, ecco il passaggio principale:

 

Certo, siete presenti qui in veste di delegati del vostro governo, uomini d’affari, amministratori di organizzazioni, giornalisti o politici. Ma in verità siete soprattutto madri e padri, fratelli e sorelle, zie e zii; e tutti voi siete anche figli. Sono solo una bambina, ma so che siamo tutti parte di una famiglia che conta 5 miliardi di persone […] E nessun governo, nessuna frontiera, potrà cambiare questa realtà. Sono solo una bambina, ma so che dovremmo tenerci per mano e agire insieme come un solo mondo che ha un solo scopo.[2]

 

Abbiamo qui un esempio lampante della metafora senza dubbio più diffusa in questa arena politica: siamo tutti sulla stessa barca. Se sommiamo stesse responsabilità e medesima esposizione ai danni, otteniamo l’urgenza e la necessità di affrontare il problema insieme, cioè mobilitando tutti gli esseri umani per ridurre le emissioni climalteranti e salvare il pianeta. Una sola specie, un solo obiettivo.

 

Perché dunque non siamo già in marcia, tutte e tutti? Perché chi prende le decisioni a livello politico molto parla ma poco agisce. Ecco dunque la seconda figura:

 

Mio padre dice sempre siamo ciò che facciamo, non ciò che diciamo. Ciò che voi state facendo mi fa piangere la notte. Voi continuate a dire che ci amate, ma io vi lancio una sfida: per favore, fate che le vostre azioni riflettano le vostre parole.

 

Il terzo punto è in realtà una ragionevole messa in prospettiva del primo:

 

Nel mio Paese produciamo così tanti rifiuti… Compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via, compriamo e buttiamo via. Tuttavia, le nazioni del Nord non condividono la ricchezza con quelle più bisognose. Anche se abbiamo più del necessario, abbiamo paura di condividere, abbiamo paura di dare via un po’ della nostra ricchezza. In Canada viviamo una vita privilegiata, siamo ricchi d’acqua, cibo, case; abbiamo orologi, biciclette, computer e televisioni, e la lista potrebbe continuare. Due giorni fa, qui in Brasile, siamo rimaste scioccate, mentre trascorrevamo un po’ di tempo con i bambini di strada […] Non posso smettere di pensare che quelli sono bambini che hanno la mia stessa età, e che nascere in un Paese o in un altro fa ancora una così grande differenza; che potrei essere una bambina in una favela di Rio, o una bambina che muore di fame in Somalia, o una vittima di guerra in medio-oriente, o una mendicante in India.

 

Si tratta di una precisazione importante, perché inserisce – pur nel quadro dell’unità di specie – una differenza significativa nell’agglomerato umano: per risolvere la crisi climatica, occorre che le diseguaglianze tra nazioni ‘sviluppate’ (per lo più situate nel Nord globale) e nazioni ‘in via di sviluppo’ (per lo più situate nel Sud globale) si riducano considerevolmente. È nella volontà di tenere assieme afflato unitario della specie e distinzione tra nazioni ricche e nazioni povere che prende forma il principio fondamentale del governo globale del clima: responsabilità comuni ma differenziate. Una sola specie, due diverse implicazioni (c’è chi ha maggiormente contribuito all’accumulo storico delle emissioni, e chi invece non è imputabile), un solo obiettivo.

 

Non è difficile scorgere in questo principio il segno del contesto storico in cui fu formulato. La Conferenza di Rio, infatti, si tenne pochi mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Gli anni seguenti – quelli decisivi per la messa a punto dell’infrastruttura economica del governo globale del clima (il Protocollo di Kyoto, con i suoi meccanismi flessibili centrati sul mercato, è del 1997) – furono marcati dall’ideologia della globalizzazione, la convinzione cioè che l’unipolarismo a trazione statunitense avrebbe comportato una nuova era di prosperità globale in grado di assottigliare le iniquità tra aree ‘sviluppate’ e aree ‘in via di sviluppo’ più efficacemente di quanto non fosse successo nell’epoca della divisione del pianeta in sfere d’influenza contrapposte (primo, secondo e terzo mondo – con quest’ultimo conteso dai primi due nell’orizzonte della Guerra Fredda). È per questa ragione che il Sistema delle COP – strumento attuativo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, a sua volta emanazione del Summit della Terra – appare uno strano ibrido tra progressismo politico (si raccoglie una sfida inedita, basata sul riconoscimento dell’origine dello sconvolgimento atmosferico sia antropogenica – cioè: sono le attività umane, in particolare l’utilizzo di combustibili fossili, a causare il riscaldamento globale) e neoliberismo economico (si sostiene che solo i mercati possano risolvere la crisi: non le politiche pubbliche, non la cooperazione internazionale, non la partecipazione della società civile planetaria – solo i mercati).

 

È su questo sfondo – meglio: in costitutiva tensione con questo sfondo – che prende forma l’idea di giustizia climatica. Una definizione preliminare potrebbe essere la seguente: quadro analitico secondo cui il riscaldamento globale non designa in primo luogo una questione atmosferico-ambientale, bensì un’istanza di iniquità. Non solo al modo di Severn Cullis-Suzuki, cioè come fattore abilitante rispetto alle soluzioni, ‘a valle’; ma anche – e soprattutto – in chiave di attribuzione di responsabilità ‘a monte’: coloro che più hanno contribuito a creare il problema (in generale, il Nord globale) sono anche coloro che meno subiscono le criticità a esso legate. Di converso, le aree che meno hanno storicamente emesso (in generale, il Sud globale) sono anche quelle più colpite dall’accresciuta frequenza di eventi meteorologici estremi. In questo quadro, l’innalzamento delle temperature indica simultaneamente un nuovo fronte dell’ingiustizia e un fattore di accelerazione di tutte le ingiustizie già esistenti. Il giornalista Ferdinando Cotugno, dopo aver riportato i dati di Climate Vulnerability Monitor – secondo cui delle 530.000 persone che moriranno nel 2030 per cause direttamente riconducibili al riscaldamento globale, l’1% avverrà nelle nazioni ricche, mentre il 99% avrà luogo in quelle povere – chiosa: “la crisi climatica è l’astronave madre di tutte le diseguaglianze”.[3]

 

Va inoltre messo in evidenza che l’elaborazione di questa idea-forza avviene all’interno del processo che, nella seconda metà degli anni Novanta, dà vita al movimento ‘no global’, di cui la mobilitazione contro il G8 di Genova nel 2001 ha finito per rappresentare l’emblema. È in quel frangente, infatti, che l’ecologia cessa di essere percepita come ambito tra altri ambiti, come compartimento stagno da collegare ad altri, per assumere invece le sembianze di un punto di vista sistemico, un tessuto connettivo generale, una prospettiva ampia attraverso la quale ridefinire il tradizionale dualismo tra natura e società. Non è un caso, del resto, che la stessa espressione ‘giustizia climatica’ sia stata coniata nel 1999, in un testo diffuso alla vigilia della rivolta di Seattle. In quel contesto, ciò su cui il movimento dei movimenti intendeva porre l’accento era “la dimensione etica e politica del riscaldamento globale”, dunque “non puramente ambientale o climatica”.[4] Vale la pena di enfatizzare questo passaggio, perché il superamento della prospettiva settoriale rappresenta il piano di continuità – ciò che, nella metamorfosi, è rimasto invariato – tra la giustizia climatica delle origini e quella che da qualche anno non cessa di sollevarsi, progettare, resistere.

 

Rispetto al Sistema delle COP, si produsse un’attitudine contraddittoria – che più avanti definiremo ‘prossimità critica’. Da un lato, correttamente, si indicava nel negazionismo climatico una risposta reazionaria a una sfida enorme e senza precedenti: fare della stabilità atmosferica una posta in gioco politica. Dall’altro lato, problematicamente, si individuava nel governo globale del clima – cioè nell’arena negoziale a guida ONU – una risposta forse troppo timida ma comunque accettabile in quanto consapevole della natura antropogenica del problema. In questo senso, almeno fino alla COP 21 di Parigi (2015) – benché al netto di significative divergenze interne – i movimenti per la giustizia climatica mantennero una postura ambigua, in particolare verso il Protocollo di Kyoto: a tratti se ne sottolineava la natura di trattato legalmente vincolante e la funzione anti-negazionista; poi però se ne registrava l’insufficienza in termini di risultati effettivamente conseguiti, individuando nella centralità esclusiva del mercato la radice della scarsa efficacia. Ma il punto-chiave è che la funzione svolta dalla maggioranza delle organizzazioni che si richiamavano alla giustizia climatica è stata quella di fornitori di legittimità politica al governo globale del clima. Del resto, è la stessa Convenzione Quadro a rivendicare questo aspetto: il processo politico che si svolge al suo interno viene presentato simultaneamente come multilaterale (l’Accordo di Parigi, per esempio, è stato firmato da 196 Paesi) e partecipativo (cioè aperto alle istanze della società civile planetaria).

 

Ciò che avviene a partire dalla COP 24 di Katowice (2018) è il rifiuto, da parte dei movimenti per la giustizia climatica, di fornire legittimità al governo globale del clima. Questa svolta ha un motivo e un volto. Il primo è semplice: la strategia centrata sul mercato è risultata fallimentare, come il Global Carbon Project certifica impietosamente:

 

Figura 1. Global Carbon Project [2021]

 

Non solo le emissioni hanno continuato ad aumentare in termini ‘assoluti’, ma anche il tasso di emissione è cresciuto. In altre parole: non solo non si è riusciti a invertire la rotta, riducendo le emissioni; si è anche proceduto più speditamente nella direzione opposta rispetto a quella auspicata. Ironia della sorte, si è recentemente appreso che dal 1990 (anno-base del Sistema delle COP) al 2021 è stata emessa più CO2-equivalente di quanta non ne sia stata emessa dal 1750 – anno della prima stima rilevata – al 1990.[5]

 

Il volto della svolta, dell’avvenuta metamorfosi della giustizia climatica, è invece quello ormai celeberrimo di Greta Thunberg, che nel 2018 aveva 15 anni e in Polonia parlava per conto di Climate Justice Now!. Approfondiremo più avanti le specifiche articolazioni del suo pensiero; per ora ci interessa mostrare la discontinuità profonda tra il messaggio di Greta e quello di Severn, di quasi un trentennio precedente. Thunberg – in un discorso ancor più breve: 3 minuti – ripropone inizialmente un tratto caratteristico della scudisciata giovanile alle delegazioni negoziatrici: “se alcuni bambini possono ottenere le prime pagine dei giornali di tutto il mondo semplicemente non andando a scuola, allora immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo davvero”.[6] Ma questa volta non si tratta di una captatio benevolentiae:

 

Parlate solo di crescita economica, verde ed eterna, perché avete troppa paura di perdere consensi […] Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno. Pure questo compito lo lasciate a noi bambini. Ma a me non interessa il consenso. Mi interessano la giustizia climatica e la vita sul pianeta. La nostra civiltà viene sacrificata affinché un ristrettissimo numero di persone possa continuare a fare soldi in enormi quantità.

 

L’infantilismo qui gioca per contrasto: non si vuole ottenere l’effetto-ingenuità (del tipo: “siete troppo concentrati sulla procedura, non perdete di vista l’obiettivo finale”), ma la squalifica e l’ostracismo (del tipo: “sapete tutto, eppure non fate nulla: che ai bambini tocchi proteggere razionalità e coerenza testimonia della vostra inadeguatezza”). Dalla ‘prossimità critica’ nel rapporto con il Sistema delle COP si passa alla ‘contestazione manifesta’. La conclusione è infatti allineata alle premesse, e non lascia margini di interlocuzione:

 

Occorre lasciare i combustibili fossili sottoterra; occorre concentrarsi sull’equità. E se è così impossibile trovare soluzioni all’interno del sistema, allora forse bisognerebbe cambiare il sistema stesso. Non siamo venuti qui per implorare i leader mondiali di preoccuparsi. Ci avete ignorato in passato e ci ignorerete ancora. Abbiamo esaurito le scuse e siamo fuori tempo massimo. Siamo venuti qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia oppure no. Il vero potere appartiene al popolo.

 

Delegittimazione maggiore non potrebbe esistere: un quarto di secolo per ottenere risultati, ma si è addirittura arretrati rispetto al punto di partenza. “Avete fallito, fatevi da parte, ora è il nostro turno”: questo traspare tra le righe. Che una tale radicalità sia sfuggita a non pochi osservatori, anche intelligenti, e a parecchie comunità accademiche, anche prestigiose, può apparire sorprendente. Ma senza un’interpretazione politica della metamorfosi che abbiamo descritto, non è difficile confondersi e trascurare dettagli importanti. Quel che è certo è che l’essenza del messaggio di Thunberg è giunta senza fraintendimento alcuno alle orecchie di una generazione vogliosa di prendersi la scena e di ritagliarsi un ruolo da protagonista. La forza performativa del discorso di Katowice è dimostrata dagli oceanici global climate strikes del 2019, cominciati pochissimi mesi dopo. Uno tsunami sociale, niente di meno. Ora, qui è opportuno fare chiarezza: l’effetto-Greta si distingue dall’effetto-Severn perché laddove il secondo apriva la fase di ‘prossimità critica’ tra giustizia ambientale e governo globale del clima, il primo la chiude irrimediabilmente. Il carattere ‘definitivo’ della rottura è certificato da due fatti, entrambi datati 2021: dal lato della giustizia climatica, dopo svariati tentativi di recupero, Thunberg reitera, alla pre-COP 26 di Milano, attraverso l’arcinoto discorso del bla bla bla, che il governo globale del clima non solo ha fallito, ma non ha rappresentato alcun passo avanti – per quanto piccolo – nella giusta direzione:

 

Oltre il 50% della CO2 in atmosfera è stata rilasciato dal 1990 a oggi. Il 33% dal 2005 a oggi. E mentre ciò avviene, i media ci riportano solo quel che i leader dicono che faranno, anziché cosa realmente stanno facendo. E poi nessuno gliene chiede comunque mai conto di quello che fanno, o meglio: non fanno.[7]

 

E ancora, un mese più tardi, in occasione della COP 26 di Glasgow:

 

Non è che i leader non stiano facendo nulla. Stanno attivamente creando scappatoie per avvantaggiarsi e continuare a trarre profitto da questo sistema distruttivo. Si tratta di una scelta consapevole da parte dei leader: quella di continuare a permettere lo sfruttamento delle persone e della natura e la distruzione delle condizioni di vita presenti e future.[8]

 

Dall’altro lato, quello della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, si è invece preso atto della defezione di un pezzo importante della sua architettura tradizionale. Nel corso della COP scozzese sono infatti state annunciate le sedi delle conferenze successive: Egitto per la COP 27 (2022) ed Emirati Arabi Uniti per la COP 28 (tra pochi mesi, dicembre 2023). Come si vede, l’arena politica ONU rimane certamente un processo multilaterale, ma di partecipativo avrà ben poco, essendo vietata in quei luoghi ogni forma di partecipazione popolare che non sia celebrativa dell’azione di governo.

 

Insistiamo: questa rottura è cruciale perché tutto quel che viene dopo – le sollevazioni della terra in Francia, la battaglia anti-carbone di Lutzerath in Germania, la convergenza tra movimento operaio e movimento per il clima in Italia e nel Regno Unito (per limitarsi all’Europa a noi più vicina) – dipende (anche se in nessun modo si esaurisce) nell’effetto-Greta. Ne dipende, perché è a partire dalla presa d’atto del fallimento del Sistema delle COP che l’immaginazione politica è tornata a esercitarsi al di fuori della compatibilità – di più: dell’affinità elettiva – tra centralità del mercato e riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Ma non si esaurisce in esso, perché l’alleanza tra la rivolta dei gilets gialli e la giustizia climatica – certificata dall’occupazione a opera di Extinction Rebellion del centro commerciale Italie 2, a Parigi, il 5 ottobre 2019[9] – non era certo un esito necessario dell’effetto-Greta. Anzi: l’effettivo darsi di tale alleanza ha creato un inedito uno spazio per la composizione di istanze sociali e climatiche. Da allora, pensare l’efficacia dell’azione climatica come funzione del restringersi della polarizzazione di classe è diventata una possibilità reale. Affinché ci siano davvero mitigazione e adattamento, bisogna che la distanza tra chi vive in povertà e chi nuota nell’oro si riduca drasticamente. E infatti pure Thunberg, in quel manifesto rivoluzionario che è The Climate Book,[10] recepisce il messaggio (peraltro connettendolo a un’attitudine fermamente anti-coloniale). Poi naturalmente, si può e si deve andare oltre, rivendicare esplicitamente il protagonismo di chi lavora, la saggezza dei territori e la pianificazione ecologica: ci arriveremo. Ma tutto parte da lì: dall’esaurirsi di uno stile di governo, dalla ratifica di un fallimento, da una giovane donna che non chiede più ascolto, bensì annuncia un ammutinamento.

 

 

[1] J. Wilson, Severn and the Day She Silenced the World, Second Story Press, Vancouver 2015.

[2] Si veda https://www.democracynow.org/2012/6/21/at_rio_20_severn_cullis_suzuki [2012].

[3] F. Cotugno, Primavera ambientale, Il Margine, Trento 2022, p. 63.

[4] Transnational Resources and Action Centre, Greenhouse Gangsters vs Climate Justice [http://www.corpwatch.org/sites/default/files/Greenhouse%20Gangsters.pdf]

[5] Institute for European Environmental Policy: https://ieep.eu/news/more-than-half-of-all-co2-emissions-since-1751-emitted-in-the-last-30-years/ [2020].

[6] Si veda https://www.democracynow.org/2018/12/13/you_are_stealing_our_future_greta [2018]. Qui e successivamente, traduzione nostra.

[7] Si veda https://www.democracynow.org/2021/10/4/youth_climate_summit_milan_italy [2021]. Traduzione nostra.

[8] Si veda https://www.democracynow.org/2021/11/8/greta_thunberg_speaks_at_cop26 [2021]. Traduzione nostra.

[9] D. Gallo Lassere – P. Guillibert – E. *, Guida. *

[10] G. Thunberg (a cura di), The Climate Book, Mondadori, Milano 2022.

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