di Marco Viscardi

 

Premessa: ne capisco pochissimo di arte contemporanea, e già da questa frase si capisce che vivo dentro un pre-giudizio condiviso e diffuso: che l’arte contemporanea vada innanzitutto capita, come fosse un enigma che porta alla soluzione. Come fosse un rebus e non una res, una cosa. Una cosa che si muove, respira, ri-attiva anche meccanismi emotivi.

E quello che mi piace dell’arte di Stefania Migliorati è esattamente questo: il suo modo di attivare in me meccanismi emotivi che derivano dalle forme, dalle posizioni, dai dispositivi e che talvolta eccedono, o eccellono, la riflessione di cui le opere sono portatrici.

 

Quando ho conosciuto il suo lavoro, Stefania si dedicava a quella che mi sembrava una mappatura della città di Berlino. Le sue mappe erano incise, geometricamente perfette: esempi di prospettiva rinascimentale applicata alla città moderna e disorientante per eccellenza. Berlino, appunto, vista nella pura luce razionale dei suoi spazi. Il progetto si chiamava Die undichte Stadt (la città permeabile) e lì Stefania trasformava il fiume in «strumento critico di investigazione urbana». Cinque fotografie che fissano altrettanti punti differenti del lungofiume non si accontentano della bidimensionalità delle forme presentate ma si aprono ad inaspettate profondità. Sono paesaggi cittadini consueti e tuttavia le didascalie che l’artista aggiunge – esiste un erotismo della didascalia – elencano i luoghi dove si prendono decisioni di tipo economico, politico e culturale, destinate a influenzare le vite di molti, in Germania e in Europa. Quello che mi emozionava molto di queste carte era il contrasto fra una città razionale e i suoi fantasmi che in quel caso erano le leve occulte del potere: fantasmi discreti, quasi invisibili che attraverso quelle didascalie minime, finivano per invadere il quadro, rendendo sinistro un paesaggio che era parso perfettamente e conoscibile.

 

Pensavo a Sebald e Stefania faceva qualcosa di simile all’opera di questo grande scrittore: aggiungeva strati alla realtà, andando oltre la superficie delle cose. Il suo sguardo apparentemente geografico era geologico, penetrava quello che non ci era dato vedere.

Il mondo di Reclaiming realms è quasi l’opposto. Come se Stefania avesse fatto un passo dal vegetale all’animale. Guardo le immagini della mostra di Berlino e vedo Fenicotteri galleggiare su un pavimento barocco, di quelli che somigliano ai dorsi della carte da gioco e che trovo continuamente nelle chiese napoletane. Quel pavimento è un gioco, uno scivolo, un inghippo, quelle teste sono come teschi. Dei teschi hanno l’ironia, come i teschi sono sfuggenti e come i teschi sono il contrario della morte, perché il loro sorriso è rivolto a noi, in una comunicazione di fratellanza. Sono sospesi, eleganti. Invidio chi li ha visti in presenza perché deve aver provato lo sbandamento di Alice nel paese delle Meraviglie. Sono allegorie di qualcosa, ma l’allegoria non resta nel recinto del suo significano, rimanda necessariamente ad altro.

 

Fenicotteri a Quartu Sant’Elena, 2023. VBM Gallery, Berlino. Installation view.

 

Davanti alle chiese del medioevo si vede il leone che divora l’uomo. La guida ci spiega che nell’alfabeto simbolico dello scultore, il leone è un simbolo di Cristo e che il suo divorarci è immagine della salvezza che è possibile solo compartecipando alla natura di Cristo. Il fedele che con l’eucarestia mangia la vera carne di Dio è divorato dalla divinità e così accede al paradiso. È un discorso complesso e bellissimo, un grande mito eppure non ci basta. Quando guardiamo quei leoni porosi, levigati dal tempo, sentiamo che il significato non ci appacia, restiamo in qualche modo rapiti dalla forza. Così nel mondo degli animali di Stefania.

Le sue riflessioni ci portano nel mondo del cyborg, interrogano le nostre ambizioni manipolatorie, attaccano la nostra presunta onnipossenza, dichiarano la falsa coscienza. Ma nel contatto con le opere sentiamo, o almeno sento, di trovami nel disorientamento della fiaba. Di una fiaba nera ma non tragica, di una fiaba che nel nero contiene la comicità, la dissacrazione, il terrore e l’interrogazione.  Stefania lavora sui limiti per abbatterli, riporta animali scomparsi in vita, li fissa su sfondi biedermeier, parati di vecchie case DDR, ma questo aumenta la forza di queste creature, non le addomestica. Sono lì, immani, possiamo dialogarci, non hanno abbandonato il nostro orizzonte.

 

Supera i limiti Stefania. I limiti sono una esigenza della ragione, uno spazio nel quale noi umani possiamo essere liberi. Stefania invece ibrida, innesta, va oltre i bordi. Il suo è lo stesso realismo di Bosch, un realismo della scomposizione, ma allo stesso tempo è un realismo creaturale.

Foxes in Berlin, 2023. VBM Gallery, Berlino. Installation view.

 

Guardare il suo I bionici  è stata una folgorazione. Investito dalla pura luce dove galleggiano creature che Stefania dipinge col tocco della lontananza. Bestie che si manifestano più che esistere, appaiono nella loro verità. Gocce dorate – che sembrano provenire davvero da una pittura antica – rappresentano quelle protesi che per Stefania sono uno dei termini della superbia del mondo umano, spia della nostra volontà di umanizzare la bestia.

La de-estinzione è il tema dei lavori di Luogo Comune, esposti a Torino da SUTURA (in via Paolo Sacchi 24F) per la cura di quatz – contemporary art. platform. De-estinguere un animale. Studi, investimenti, ricerca per riportare in vita specie oramai estinte, spesso per colpa dell’uomo. Sembrerebbe una prospettiva moralista, un attacco al delirio antropocentrico dell’uomo che si india. L’Atlas della de estinzione è una carta del mondo in cui vediamo i protagonisti della storia: i de-estinti che non sembrano però particolarmente grati di essere stati riportati in vita. Perché loro stessi sono vita: vita pensierosa e compiuta. Stanno sospesi sullo sfondo delle terre emerse e la forza materia del colore sembra uscire fuori dal quadro. Questi animaloni incantano, sono disposti nello spazio come una famiglia, si rimandano, giocano, pronti a recitare le loro parti in un incanto. Attorno a loro fiori e piante disegnate con un tocco talmente leggero che potrebbero volare via al primo soffio, si potrebbero spargere in un altro ordine sul foglio, creando altre storie.

L’atlas della deestinzione #02, acquarello e stampa su carta cotone fatta a mano, 91 x 115 cm, 2023. Courtesy Sutura, Torino.

 

È una festa di colore, sono bellissimi gli Uccelli Elefanti che un tempo vivevano in Madagascar. Bellissimi nella posa elegante, nella malinconia del manto marrone si fonde coi decori: fiori verdi e neri che stanno sul foglio come fuochi d’artificio. L’animale e il vegetale si sovrappongono, vengono dallo stesso mondo felice e lontano. Che illuso l’uomo che pensa di poterci entrare, mentre dovrebbe solo essere grato di contemplare quell’astrattezza, di essere ammesso alla visione di quella lontananza. Sottratti al tempo che scorre, pensosi e assorti sulla soglia del mondo sono il Toxodon e l’Alca impenne, mammifero e uccello, dal profilo assorto e meditativo, immobili fra festoni di piante. Torna la riflessione sull’ibridazione di vita organica e protesi meccaniche. Torna nel Giardino degli animali bionici che richiama Bosch sin dal titolo. L’acquerello è quasi una filiazione dei bionici, ma quello che lì era visione, qui si fa movimento, quello che lì era apparizione ed estasi, qui si avvia ad essere narrazione e fiaba. Ancora una volta, le protesi sono d’oro. Un oro antico. Il genio (semi)nascosto dell’opera è il cavallo fa indisponente capolino da un margine dell’opera, solo per mostrarci il grugno e i denti nella minaccia che è un sorriso, dell’irrisione che è un avvertimento.  Stefania si mette in movimento, i suoi animali bionici, a cui dedica quattro acquerelli sono nobili e impazienti, fiabeschi e corporali. Il camaleonte è scorbutico e un po’ schifato (non nasconde il suo disgusto nel guardarci), il serpente sta per mettersi nello stemma che sovrasta portoni e torri, la capra è un sogno e il cervo sembra dare corpo a un sogno medievale: quello del cacciatore, uomo di sangue e violenza, che scopre Cristo nell’epifania e nella pura luce dell’animale maestoso, delle corna d’oro. Così il predatore si convertiva ad un a nuova etica, ma nel mondo di Stefania non esiste morale, non esiste conversione perché tutto è grazia, tutto è fragilità e giustizia. La morale è nostra, di chi guarda, noi abbiamo il cruccio di tracciare confini, delimitare le nostre azioni, indirizzarle verso un senso: gli animali meravigliosi di Stefania, letteralmente le sue Creature, vivono e basta.

Il giardino degli animali bionici, 150 x 150 cm, acquarello su tela, 2023. Courtesy Sutura, Torino.

 

Ed per questo ci dicono qualcosa di noi, qualcosa di quello che potrebbe essere la vita se accettassimo di essere macchie di colore consustanziali ai fiori e alle bestie. Nessuna malinconia mortuaria, nessuna geremiade colpevolizzante: che siamo una merda è dato per scontato, ma la bellezza è fatta per esseri imperfetti, e qui la bellezza investe nella gioia del colore, nella cura quotidiana del lavoro. Le opere in mostra sono una denuncia, ma quando le guardo mi sento altrove, nella felicità di un colore che meraviglia perché viene da una dimensione altra, nella quale non ci sono limiti, non c’è tempo ma solo durata ed esistenza. La città permeabile è diventato un cosmo vivo nel quale io sono in relazione, faccio parte di un insieme più grande del quale Stefania ha iniziato a rompere le pareti.

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