di Pier Franco Brandimarte
[E’ uscito da qualche mese per Il Saggiatore La vampa, il nuovo romanzo di Pier Franco Brandimarte che con il suo esordio, L’Amalassunta (Giunti, 2015), si era aggiudicato l’edizione del 2014 del Premio Calvino. Pubblichiamo le prime pagine del romanzo.]
Nella vampa ho sempre sei anni, e sono io e non sono io il bambino che va per la sala da pranzo dopo che gli altri se ne sono già andati; seduto a capotavola, le mani a palma in giù sul tavolo di marmo, sono io e non sono io il bambino che sente come una scossa e la testa gli esplode.
C’è il cielo giallastro, filari sovrapposti a macchie d’ulivo, il taglio lucido di zolle scure. Una mattina, un pomeriggio, non è chiaro. Poi strattoni d’aria di percorrenza, cespugli di lavanda. Ho riconosciuto la strada ghiaiosa di buche, so dove siamo.
Era il giorno del coniglio, la macchina nera che entra a sobbalzi nell’aia. Io e mio nonno, l’euforia perché non eravamo mai usciti da soli, io e lui. Mi teneva la mano inguantata sul capo e quando si aprì lo sportello scivolammo in due sul sedile, attaccati. L’autista batté i piedi sul terreno. A che scopo? Non importa. Soli io (il bambino, il nipote) e mio nonno, il fondatore. L’autista si chiamava Lino ma lo chiamavo Tatolino. Svolazzi di galline, cani che annusano le scarpe. Mio nonno il fondatore raddrizzato di un palmo, il bastone e la testa del nipote premuti sotto i guanti. Bello il suo cappotto di panno morbido, ottobrino.
Pio, l’uomo che veniva in casa a portare la legna e macellare il maiale li accompagnò dalle bestie. Odore forte di letame; lungo la fiancata della stalla, oltre le stanghe, i culi delle vacche in batteria, le code che frustavano sui dorsi. Deviarono per una passerella inzaccherata tra gli erpici e i fusti vuoti, seguirono l’uomo in una baracca di lamiere. Nell’ombra dell’interno si avvertì un rimescolio, videro i conigli addossati sul fondo della gabbia, i nasi frenetici che tastavano la paglia. Il nipote si avvicinò a guardarli, il fondatore discuteva con Pio. Gli faceva domande, rideva con piccoli scoppi di tosse, si rilassava; le mani inguantate indicavano, contavano, battevano sulle spalle. Pio di faccia e corporatura era uguale a Mussolini, non ricordo se qualcuno lo chiamasse così. Il bambino intanto osservava il colore delle pellicce dei conigli, ce n’era uno che risaltava per il manto bianco come l’ovatta, era vicino alle mangiatoie, di profilo, col suo occhio infiammato. Il fondatore disse a Pio che ero suo nipote, il più piccolo dell’ultima figlia, Graziella, e Pio fece un fischio di sorpresa, disse che l’ultima volta che mi aveva visto ero alto così, indicando un punto della rete più basso di me. Il fondatore si girò verso la gabbia, chiese quale mi piacesse di più, voleva farmi un regalo. Io avevo immaginato di tenere il coniglio bianco in camera, di farlo vedere ai cugini, nessuno che conoscessi aveva un coniglio bianco, forse avevo già visto il cartone animato di Alice nel paese delle meraviglie, e lo indicai, dissi Quel bianco là, e nonno si aggiustò la tesa del cappello e fece un’alzata di sopracciglia a Pio, come a dire che era contento e che andava bene, che lo prendevamo, e infatti Pio aveva aperto il catenaccio ed era entrato facendo saltare gli animali negli angoli, aveva fermato il coniglio bianco nella morsa delle gambe e l’aveva sollevato per le orecchie portandomelo davanti, mostrandomelo tutto così allungato e tremante che non sembrava più l’animale che avevo scelto; avrei voluto ci seguisse da solo, a balzi, salendo in macchina, invece Pio aveva dovuto catturarlo. Bravo, disse con il coniglio a mezz’aria, e uscì fuori. Il nonno mi accarezzò la testa per spingermi di nuovo nell’aia dove Pio si era inginocchiato. Il cielo era giallastro e immobile, volavano sciami di mosche intorno al coltello che doveva essere già pronto, poggiato sul ceppo, e Pio teneva bloccato il corpo peloso con un ginocchio, tirava più forte le orecchie per scoprire una parte sufficiente di collo e tagliare di scatto. Il coniglio mandò un lungo squittio come quei pupazzi di gomma schiacciati. Il sangue sprizzò, colò denso come l’olio infradiciando la pelliccia, scavandoci rivoli fino al ventre, grondando sul legno del ceppo e sull’aia. Al bambino sembrò di avvertire il sapore salato di quando succhiava una ferita, l’aria ne era piena. Mentre finiva di scuoiarlo entrarono in casa e una donna baffuta gli offrì latte e biscotti, il nonno prese un bicchiere di vino allungato con la gazzosa. C’era la televisione accesa, il bambino pensava allo strappo che faceva la pelliccia separandosi dalla carne e a come questa balzasse viva e pulsante di sotto con le vene e tutto, pensò che fosse una lezione che doveva imparare. Gli veniva da piangere ma non lo fece.
Nel ritorno, superata la campagna, di nuovo sull’asfalto, cigolavamo; Dottore scusasse, Tatolino per capire il difetto spense il motore e lasciò andare la macchina in folle sul rettilineo, provò i pedali, disse che potevano essere le pinze dei freni da ungere. Sigillati nel sedile posteriore oscillavamo alle frenate, io la testa aderente al cappotto del nonno gli sentivo di dentro lo stomaco un altro rumore, il vino e gazzosa o qualcos’altro che ancora scorreva. Il coniglio morto stava dietro, in una busta.
La casa era vasta, labirintica, grande come un paese. Comprendeva il parco e palazzine indipendenti dove stavano le quattro figlie del fondatore con la loro famiglia. Costruita nel Seicento come tenuta di caccia, era diventata azienda agricola, fortino, villa estiva, palazzo di rappresentanza. Il fondatore mio nonno l’aveva comprata negli anni cinquanta e voleva che noi tutti la chiamassimo casa.
Il fondatore pescava a mani nude nel vassoio di carne spezzata, strappava le cartilagini e rigettava gli ossicini. Un’aria casereccia sotto le candele elettriche del lampadario di Murano. Gli invitati abituali si adeguavano, monsignore versava il Trebbiano, De Collibus, l’avvocato Sarini, l’ingegner Chinaglia parlavano della penuria, quando si strofinava la fetta di pane sul prosciutto che pendeva dal gancio, dalla parte del grasso, oppure sulle sardelle o sull’aglio per dargli sapore, e si mangiavano insalate rudimentali di crespigno e recchiapecura, carne una volta la settimana. Sembrava che tutti avessero fatto la fame e mangiassero più soddisfatti; gli orologi da polso apparivano e sparivano dalle maniche come i camerieri.
Il fondatore amava le costate cotte alla graticola con il grasso che sfrigolava gocciolando sulla brace. Non voleva mousse e cremine, né piatti decorati o cucina francese. Degli animali si faceva portare anche le parti scabrose, le lingue, le creste, le zampe. Regressione al passato contadino: i brodi e le pastine se hai l’influenza, il vino scaldato, il medico personale lontano dalla tavola.
Gli abituali gli sedevano intorno con nonna Giacoma e Clara Sarini; il tavolo proseguiva con altri posti che restavano vuoti o venivano occupati da mia madre, dagli zii e dal maestro tedesco. All’altro capo c’era una zona frequentata di rado, a disposizione di Athos e dei suoi ospiti ai quali sarebbe arrivata la luce del secondo lampadario e delle ultime vetrate del giardino d’inverno, e un menù differente. Dei nipoti io ero l’unico ammesso, il più piccolo, incuneato tra il prete e il fondatore che spesso girava la testa a guardare come mi comportavo, si infilava il tovagliolo nel colletto e mi diceva di essere onesto e obbedire agli anziani – come fossero le sue ultime parole e temesse di cadere morto da un momento all’altro col boccone fra i denti. Mi diceva di non dimenticare mai che noi venivamo dalla campagna, che cioè eravamo tenaci, schietti e lavoratori. Frase che mio padre Athos delle volte ripeteva e coloriva: veniamo dalla campagna e ci abbiamo due palle così, diceva facendo il gesto di afferrare due cose grosse e pesanti. Non che lui avesse mai dovuto fare lavori di fatica per bisogno tanto da potersi dire contadino o campagnolo, certo da giovane gli piaceva partecipare alle vendemmie e all’aratura mettendosi tra gli altri col gusto di compartire gli sforzi e mangiarsi il piatto di maccheroni a mezzogiorno, ancora sporco e sudato, umile tra i lavoranti a giornata degli anni settanta, ma pur sempre figlio di padrone, di chi prima di averci le palle ci ha le terre, e ci ha le palle appunto perché ci ha le terre, diceva mio nonno. Perché Athos era nato dai Franceschi, famiglia proprietaria, mentre lui, Riccardo Angelini, si era dovuto fare la sua parte da mulo dato che i genitori di suo padre erano mezzadri e quelli di sua madre braccianti, nati e morti qui – batteva il dito sulla tovaglia – nei confini di Ranieri, in una casa in via Pieve di Rocca così scoscesa che se mettevi male il piede finivi a valle dentro il corso petroso del fiume, diceva il fondatore. Ma la regressione interessava anche il linguaggio che era diventato più lacunoso e dialettale, per cui si capiva poco: diceva una mezza parola, faceva un verso, un colpo di tosse e finiva. Poteva liquidare l’intera storia della sua famiglia con un gesto di fastidio. Non voleva e non sapeva raccontare ma io lo capivo. Diceva che dovevo crescere migliore di lui.
Sospendeva la coscia di coniglio, rievocava Colagrande e gli antichi dipendenti che esclamavano, Ha stato lo vento, quando le foglie morte ostruivano le tramoggie e formule superstiziose riguardo ai mulinelli che faceva la polvere di grano sulle banchine di scarico e ai tonfi dei quintali nell’interno dei silos; braccia e cervelli che muovevano i mezzi della Spiga Azzurra con orgoglio, che erano la sua vera famiglia e avrebbero dato la vita per lui altroché. Nel mugugnare e rievocare guardava i posti a sedere come potesse trovarseli ancora fedeli e forti ad applaudire per una cena offerta o i regali di Natale – avrebbe voluto tenere un discorso e proiettarli nei tempi a venire, riprendersi il comando e la storia che aveva iniziato. Ma lo capivano a stento, diceva in dialetto: quanti anni, quanti anni sono passati, e le poche volte che c’era mio padre era ancora più amaro e mostrava le mani, chiedeva se fosse valsa la pena lavorare una vita per finire a quel modo, per vedere quanto aveva fatto andarsene alla malora negli spropositi del genero, nell’indifferenza dei famigliari, bollicine di saliva gli affioravano alla bocca. Allora De Collibus e Sarini intervenivano, gli facevano notare l’esagerazione; mio padre lo ignorava, nemmeno lo sentiva da là in fondo. Lui si rabboniva, si faceva consolare, con gli occhi lucidi carezzava la testa del nipote come fosse un’arma segreta, e finalmente mordeva la coscia.
Nell’ultima parte della vita dicevano avesse perso il contegno maturato negli anni della leggendaria fondazione, e nell’espansione poi dell’azienda che portava il suo nome, l’Angelini Grani; ramificata poi, complicata poi, rinnovata nel marchio e nei settori dal genero Athos, mio padre, detto il giocatore – un animale aggiunto nel logo, l’uccello che volava sempre più in alto sovrapposto alla Spiga Azzurra del 1948.
Il fondatore ripose il tovagliolo quando vide che il nipote non si decideva; il bambino non mangiava, osservava il piatto, si faceva domande, non trovava il coraggio. Poi pensò che il coniglio così fatto a pezzi e cucinato non aveva più niente a che fare col coniglio che gli era piaciuto e che avrebbe dovuto fare un enorme sforzo di immaginazione per affezionarcisi ancora e magari rivederlo come il bianconiglio di Alice che fa la strada a balzi urlando nevrotico che è troppo tardi, troppo tardi e intanto sotto il panciotto e il frac si sta cuocendo e improfumando, anche il cuore, la lingua, il fegato, che il fondatore avrebbe tenuto per sé facendoseli portare in un pentolino a parte e dividendoli solo con il maestro tedesco che aveva un gusto particolare per le frattaglie in cui diceva si concentrasse l’anima dell’animale. Quel coniglio non era più quello che avevo scelto, pensai, non aveva più occhi per guardare né la pelliccia, né il sangue. Scostai le olive e la foglia d’alloro, sollevai dal sughetto un pezzo di torace e cominciai a spolparlo coi denti. Mangiai la mia parte senza fare una piega. Ero un bambino ubbidiente. Un bambino speciale, fortunato innanzi tutto per dov’ero nato.