di Pietro Pascarelli

 

Riesco ad accennare solo vagamente ai fatti (fatti per lo più connessi al mio essere, e al mio modo di vivere) in cui potrebbe inscriversi il mio impensato e fruttuoso ritorno a un’opera di immensa potenza logica e narrativa che fu scritta a Parigi quasi settant’anni fa. Da tempo, nei mesi scorsi, aveva preso a girarmi per la testa una frase in cui subito avevo riconosciuto il titolo di un lungo racconto di Gabriel García Márquez (Gabo): “Nessuno scrive al colonnello”. La pensavo di frequente, a un certo punto per un breve periodo di continuo, e non solo, come si potrebbe credere, come sponda accogliente per un moto d’orgoglio o di amara consapevolezza nei momenti di solitudine o di sconforto che all’improvviso possono arrivare. La dicevo, anche, ai miei cari e amici, con un misto di rabbia, di spavalderia e di tristezza, in occasione di delusioni o in periodi di sospensione sofferta rispetto a certe speranze. Quel titolo tuttavia mi piaceva senza una ragione precisa e dicibile, mi sembrava che rappresentasse il diritto d ciascuno a un mondo più giusto e generoso di quello in cui stiamo, ed era fonte di sollievo ogni volta che lo pronunciavo. Mi pareva peraltro implicare e contenere un fattore x che aguzzava l’intelligenza, quando mi sentivo di fronte a qualcosa che doveva essere compreso in profondità, quando non ci si poteva accontentare di un’analisi veloce se non superficiale. Anche in altri momenti mi accadeva di essere visitato, in condizioni di riposo e serenità o nel confronto con l’ignoto, da una speciale voluttà di contemplazione filosofica, ed era come se fossi, segretamente per gli altri, immerso nella fitta e pensosa rete della fantasia e della parola del giovane Gabo autore di quel racconto, con i poteri della sua mente a quel punto non più singolare e umana ma universale e assoluta. Avevo l’intima convinzione di vedere tutto con lungimiranza grazie agli strumenti che implicitamente quel titolo, quale tramite della mia consapevole identificazione con Gabo, sembrava fornirmi, costituendo una piattaforma iniziale da cui poi si diramavano e articolavano i discorsi e le scoperte della psiche in ogni direzione. E questo potere non mi sembrava e credo che non fosse mai protervo o arrogante e infecondo, ma esortava a rigore e modestia, era come la chiamata, nel privilegio di una guida speciale, a svolgere una precisa funzione con semplice e assoluta lealtà, nell’interesse generale. Quel titolo mi sembra contenere un segreto, una chiave interpretativa che può produrre l’accesso a scoperte altrimenti inaccessibili, a migliorare la vita di chiunque. Ma questo segreto giunge come gloria della vita paziente e del pensiero laborioso, diversamente  dal segreto del dio, capace di conferire un immane e tremendo potere su ogni cosa nel mondo, che di colpo si rivela a Tzinacàn, mago della piramide di Quaholom, nelle macchie della pelle giaguaro che gli fa la guardia nel tetro carcere in cui è imprigionato, nel racconto “La scrittura del dio” di Jorge Luis Borges. Tzinacàn, dopo aver cercato di scoprirlo per avidità di dominio per tutta la vita e la durata dell’interminabile prigionia, quando lo scopre è giunto a una concezione diversa della vita, che lo induce a rinunciarvi senza alcun rimpianto, perché ora non è più lo stesso che aveva desiderato l’onnipotenza, ora è un altro uomo, libero dalla prigione interiore delle sue smanie di cui il racconto è metafora. Il segreto potere conferito dall’opera di Gabo premia un lavoro del pensiero, e non è grandiosa e vuota affermazione di vanità a avidità, ma luce sulla via della conoscenza.

 

E dunque eccoci al racconto, di cui mi era rimasto accessibile per decenni solo il titolo nascosto in qualche angolo della memoria.

Un uomo di settantacinque anni, Aureliano Buendia, che vive nel paese di Macondo (futuro epicentro del capolavoro di Márquez, Cent’anni di solitudine) colonnello già a vent’anni nell’esercito rivoluzionario di un paese dell’America Latina, aspetta la pensione che la politica gli ha promesso per i suoi servigi al Paese. E intanto vive di stenti insieme alla moglie e a un gallo.

Il tempo gli ha scavato il volto, che non vede perché “lo specchio mancava da molto tempo”, sicché “ si faceva la barba “a tastoni” e indurito il corpo (“Era un uomo arido, con ossa solide articolate a bulloni e cacciavite….Le ossa delle sue mani erano foderate di cute lucida e tesa, coperte di chiazze brune come la pelle del collo”), e colui che era stato, nella mia percezione, un giovane di aspetto fiero ed elegante, pur mantenendo ora tratti di personalità e sembiante che lo distinguono dai normali abitanti del villaggio, è ingrigito, e il corpo è ingessato da abiti fatalmente démodé e tristi nelle loro forme di trascorsa attualità, che datano decenni (il migliore risale al matrimonio)  e sono stremati,  ridotti a una spoglia rigida e sfibrata, come un cartone o un tessuto sul punto di polverizzarsi e scomparire, salvo i sapienti e ripetuti interventi su quei pochi capi di sua moglie per sfruttarli fino all’ultimo, rinnovandoli in parte con scampoli di tessuto migliore abilmente recuperati e ricuciti (“I pantaloni…chiusi alle caviglie con fettucce scorrevoli, si sostenevano alla vita con due linguette dello stesso panno che passavano tra due fibbie dorate cucite all’altezza delle reni. Non usava cintura. La camicia color cartone antico, dura come cartone, si chiudeva con un bottone di rame che serviva al tempo stesso per allacciare il colletto inamidato. Ma il colletto inamidato era rotto e così il colonnello rinunciò alla cravatta. … Seduta  tra le begonie del patio, accanto a una scatola di roba inservbile, compì di nuovo l’eterno miracolo di creare indumenti nuovi dal nulla.  Ricavò colletti dalle maniche e polsini di tela dalla schiena, e fece rammendi quadrati, perfetti, anche se con ritagli di differente colore”)[1]. Tali sono anche i vetusti stivaletti di vernice rinsecchiti e altre scarpe sformate che senza rapporto con le stagioni, ma con rispetto per le occasioni sociali cui di rado partecipa, il colonnello indossa consigliandosi con la moglie. Gli occhi hanno visto, possiamo immaginare, notti buie e cieli stellati, la bellezza del mondo come gli orrori della guerra, e l’animo ha conosciuto intense dolcezze e fatali aggressioni e perfidie. Il suo sguardo è disilluso, acuto, e coglie la qualità e la miseria dei suoi interlocutori. La sua natura emotiva dominata forse più dal tedio della vita che dalla disciplina, è come un fuoco che arde sotto la cenere, e gli fa leggere nel cuore degli altri come in un libro, a incremento del tedio e del disincanto, condannandolo perciò a maggior pena, e al rimedio della solitudine e della distanza, al ritiro in un mondo fatto di molta attesa e di rare mosse. Come se fosse un paese sempre uguale nel tempo, che saltuariamente è scosso da un terremoto o da un’inondazione, o da una guerra, o da una carestia, ma che nel frattempo non ha perso la capacità di assaporare discretamente, quasi in segreto per proteggerla, la gioia di alcune belle stagioni, di un buon raccolto, il sapore della vita. Sulla scena di questo mondo i semplici, necessari al mondo come il pane o l’acqua, possono piangere o far festa. Non è così per il colonnello, non è così per coloro i quali, come lui, Aureliano Buendia,  hanno avuto da volontà imprscrutabili, o se si vuole dalla provvidenza, il compito di custodi dell’illusione e del sogno, della grandezza e della perpetua amarezza.

 

Da quindici anni si reca ogni venerdì al porto ad aspettare la lancia che insieme a merci e viaggiatori porta la posta. Ma la sua attesa è sempre stata vana. Il plico postale avvolto in una cerata che egli scorge, prima ancora dell’attracco, da qualche parte sul ponte, e segue con lo sguardo mentre l’addetto lo porta a terra, contiene tante cose, soprattutto stampa censurata e lettere per il medico del paese, ma mai la missiva con la buona notizia dell’assegnazione della pensione. “Nessuno scrive al colonnello”, dice allora fra sé e sé ma anche a qualcuno. A un certo punto, se il dottore si mantiene sempre discreto e non fa alcun commento, il postino invece ormai scambia col colonnello, in quei momenti topici, sguardi d’intesa che valgono più delle parole e anticipano l’ennesima delusione. E una volta il postino, in una imprevista e inspiegabile variazione, pronuncia anche lui quella stessa frase che ha sentito talora dalle sue labbra.

 

Ma perché il colonnello continua ad aspettare con rinnovata fiducia ogni volta qualcosa che non arriva mai?  Si potrebbe supporre, cominciando ad abbozzare una qualche ipotesi, che la lettera che egli aspetta abbia proprio la funzione, e il compito, di non arrivare, quasi a esorcizzare la morte, che quindi rappresenterebbe. Ma la funzione di questo mancato arrivo è multipla e sovradeterminata, si direbbe in termini psicoanalitici. Senza entrare nel merito ora di una disquisizione sulle motivazioni inconsce che si potrebbero rinvenire, è già abbastanza interessante quanto si rileva in superficie, e cioè che essa possa essere, in primo luogo,  un mantenere per un tempo che non si chiude mai l’attesa di qualcosa di buono. La convinzione che questo prima o poi arriverà mantiene in vita, schiarisce l’orizzonte, nutre la speranza. L’illusione, scrive Márquez, non si mangia, ma alimenta. In secondo luogo, se la cosa buona è il simbolo di una capacità personale, di un merito e di una ricompensa sociale duramente conquistata, pur col disappunto per il suo mancato arrivo, che conferma tuttavia la legittimità dell’aspettativa, è indice di vitalità e potere del titolare di questo diritto acquisito. Ma di più, è come se il colonnello ogni volta sfidasse la sorte e forze immani con la sua incrollabile fiducia, come se ogni venerdì tutto si azzerasse — la fame cui è ridotto insieme alla moglie, i malumori e le discussioni inevitabili — è come se non si accettasse neanche l’idea lontanissima  della rassegnazione, si rinnovassero le energie, si mantenesse aperto un conto col destino. E così si potesse ricominciare non sulla base di una frustrazione, ma di una rinnovata fede, e continuare a vivere a testa alta e in pace con se stessi. Il mancato arrivo della lettera (della pensione che gli è stata promessa, pur preziosa per chi è alla fame) per strano che appaia è la cosa nascostamente attesa, che mantiene aperta la relazione e la speranza di una sua ricomposizione positiva, con un mondo incomprensibile, cui si è dato senza ricevere altro che un torto, un mancato riconoscimento, segnali d’oblio o di insignificanza. Inoltre, l’interlocuzione incessante col mondo della storia, folle e irriconoscente nei confronti del colonnello come forse di chiunque (solo che il colonnello rivoluzionario non può dimenticare né rielaborare senza un grido d’accusa), denaturalizza la sua vicenda, pur dotata di un profondo ancoraggio ecologico, e la mantiene in una dialettica culturale. Essa mantiene in un mondo umano, per quanto a stretto contatto con forze sconosciute,  la quotidianità sua e della moglie con cui vive, sottraendola a una monodimensione acontestuale e astorica caratterizzata solo dall’afa e dalle piogge torrenziali di un clima e di un luogo infernali che sottraggono le forze, peggiorano l’umore, fanno marcire nella fame d’aria della consorte asmatica e nelle oscure fermentazioni intestinali del colonnello in sintonia con microesseri del creato, rendono necessarie fumigazioni giornaliere per difendersi dal tormento di assidui insetti, e aggiustamenti fantasiosi delle idee circa il reale stato del corpo, che negano la razionalità clinica nonostante gli interventi del medico del paese,  per sopravvivere senza disperarsi. Senza il fiume cui si reca tutti i venerdì, che rappresenta un elemento cosmico e immortale, ma è anche il legame col mondo e rappresenta il corso e la trazione della storia, per dirla con lo scrittore e poligrafo russo Viktor Borisovič Šklovskij, la vicenda del colonnello Aureliano Buendia resterebbe muta e isolata.  Quella lettera che non arriva, proprio in quanto non arriva rappresenta un elemento allegorico dell’epopea di un uomo e della rivoluzione. Essa è la sua age d’or, la sua gloria in battaglia, il suo sacrificio per la patria, è denuncia delle promesse facili e infedeli di politicanti ingannatori, indignazione del giusto. Si tratta dunque di un elemento simbolico che tuttavia non si perde in retorica ma si lega al quotidiano, al diritto sia alla memoria che alla meritata mercede. L’elemento che incastrandosi al suo posto salda e chiude il mosaico è il gallo lasciato dal figlio, che lucrava dalle sue battaglie, ucciso dalla polizia controrivoluzionaria. Il gallo è quanto resta del figlio al colonnello e a sua madre, che, come egli osserva, non ha mai per questa morte versato una lacrima, nella coscienza di un soffrire che non finisce mai in un singolo colpo della sorte, di una inutilità del pianto in una vita che è fatta di tragedia condivisa con altre vite cui la violenza dei tempi non dà valore. C’è come un enigma irrisolto e che non può sciogliersi, o forse una maledizione, che aleggia su tutto, e appare come parte ineliminabile del mondo, mentre è attenuata la possibilità di distinguere un colpo dall’altro in una vita che è tutta un bagno caliginoso di sofferenza e miseria. E rispetto a questo cupo e immutato cielo che ogni giorno incombe, la lettera che non arriva è un modo per sfuggire a quel doloroso continuo presente, in cui tocca industriarsi e spogliarsi anche degli oggetti più cari o anche solo intimi e banali, talora peraltro invendibili, per mangiare. La lettera mai pervenuta è un niente di cui la vita si sostenta, e che dunque a suo modo c’è. Ma addirittura la si potrebbe vedere finanche come l’essere stesso del colonnello in quanto rappresentante di tutti noi, e idealmente della presenza e dignità umana, che non accetta l’ingiustizia e l’insensatezza, che non si lascia schiacciare o mettere a tacere vilmente, che non cede sulla sua missione, su ciò in cui crede, e non si lascia annientare, non si arrende a potenze oscure. Così pure la vita del gallo, che nella penuria totale compete per il cibo con gli umani, è tuttavia un prezioso elemento di rottura con quel maleficio terreno, in quell’angolo di mondo che non riconosce la traccia dei singoli individui sulla terra, se si sono fidati degli ideali e non si sono fatti forti, con l’astuzia e l’avidità, del denaro, come il cadaverico Don Sabas gonfio di diabete e denaro. Per il colonnello è il rapporto col figlio, con la sua storia personale, la rivoluzione. Il gallo è un sole, un logos, un dio forse, ancora una volta è qualcosa che sfugge alla dimensione naturale, e ha un posto misterioso in quell’altrettanto misterioso universo che il colonnello scruta nelle sue elucubrazioni notturne sospeso sull’amaca, componendo nella mente un complesso sistema di relazioni fra le sue parti e gli eventi, su cui può fare solo congetture. Congetture che però lo tengono in vita, senza riduzioni e semplificazioni, e soprattutto senza amarezza, senza insofferenza rispetto a una vita il cui problema minore, alla fine, è la mancanza di denaro fino all’inedia come sua conseguenza. Come un osservatore del firmamento, il colonnello scruta, registra, si entusiasma, spera, esulta, non si abbatte: è in pieno contatto con qualcosa di grande che eccede la dimensione comune, e fa vivere in un modo differente, asciutto e fermo anche se segretamente palpitante. Il gallo che il colonnello accudisce tenendolo in casa accanto al camino, legato per una zampa, e spesso meta di visite dei ragazzi del paese, dà voce a questa scena. Eroe di solito taciturno, se si eccettua quel solo rauco verso, che a in certi giorni emette, e che sembra un commento su quel che accade nel mondo.  Su di lui si accanisce la rabbia della moglie del colonnello, la quale a un certo punto esige che sia venduto per smettere finalmente di svuotare la casa svendendo oggetti, e per mangiare. Il colonnello ancora una volta cerca di assecondare la moglie e le sue ragioni.  Ma in quel fosco e luminoso universo che ha raggiunto non c’è spazio per quel tipo di razionalità. Nel colonnello Aureliano Buendia il sangue ribolle sempre più e una strana e forte determinazione lo pervade e lo inebria, e lo determina ad adottare qualunque altro rimedio per racimolare lecitamente qualche soldo, pur di tenersi il gallo. E di fronte alle pressanti richieste della sua consorte, irritata dalla sua opposizione, che gli chiede cosa faranno se questa o quella delle loro strategie di sopravvivenza fallisse, risponde al solito modo con gentilezza e comprensione per la sua compagna ormai troppo provata per continuare a sognare, se pur mite e devota e infinitamente paziente. Ma qualcosa di nuovo comanda in lui, si afferma con facilità e sicurezza, si fa disincantata e innocente consapevolezza. Fornisce così una suprema sintesi, con cui si conclude il racconto, che è quasi un canto liberatorio allo zenit della sua riflessione complessiva sulla realtà, sulla sua condizione e posizione cosmica, sulla prospettiva giusta per inquadrare la sua vita, il senso della sua presenza nel mondo, il destino suo e di sua moglie, del gallo e del fiume, del figlio morto, della rivoluzione e della controrivoluzione, quando la moglie chiede ancora ripetutamente cosa mangeranno se il gallo perderà, se nessuno lo comprerà, se la pensione non arriverà, se i loro tentativi di procurarsi qualcosa per vivere non approderanno a nulla: «Il colonnello ebbe bisogno di settantacinque anni  —i settantacinque anni della sua vita, minuto per minuto— per giungere a quel momento. Si sentì puro, esplicito, invincibile, nell’istante in cui rispose: “Merda”».

 

Nota

 

 

[1] Tutte le citazioni fra virgolette sono tratte dal volume El coronel no tiene quien le escriba, tr. it. Nessuno scrive al colonnello, trad di Enrico Cicogna, introduzione di Dario Puccini, 1982, Milano, Arnoldo Mondadori Editore.

 

[Immagine: Rafael Ferrer, El Cuarto del Coronel Aureliano Buendia, 1982].

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