di Antonio Devicienti 

 

 

Scrive Francis Ponge: «Le rapport de l’homme à l’objet n’est du tout seulement de possession ou d’usage. Non, ce serait trop simple. C’est bien pire.

Les objets sont en dehors de l’âme, bien sûr; pourtant, ils sont aussi notre plomb dans la tête.

Il s’agit d’un rapport à l’accusatif.

 

*

 

L’homme est un drôle de corps, qui n’a pas son centre de gravité en lui-même.

Notre âme est transitive. Il lui faut un objet, qui l’affecte, comme son complément direct, aussitôt.

Il s’agit du rapport le plus grave (non du tout de l’avoir, mais de l’être).

[…]

Par bonheur, pourtant, qu’est-ce l’être? – Il n’est que des façons d’être, successives. Il en est autant que d’objets. Autant que de battements de paupières.

D’autant que, devenant notre régime, un objet nous concerne, notre regard aussi l’a cerné, le discerne.

[—]

Mais le monde est peuplé d’objets. Sur ses rivages, leur foule infinie, leur collection nous apparaît, certes, plutôt indistincte et floue.

[…]

L’homme, le plus souvent, n’étreint que ses émanations, ses fantômes. Tels sont les objets subjectifs» (L’objet, c’est la poétique – febbraio 1962, testo contenuto in Le nouveau recueil).

 

Se si prende avvio dal titolo del libro più recente di Marco Giovenale, vale a dire Cose chiuse fuori. Una autobiografia semivera degli anni Dieci (e poco dopo) (Nino Aragno Editore, Torino 2023) gli objets di cui scrive Ponge possono essere identificati con le cose che, in quanto situazioni, luoghi, ricordi, testi (e spiegherò presto che cosa intendo dire), risultano chiuse fuori (en dehors, scrive Ponge); l’atto del chiudere fuori presuppone una dialettica tra interno ed esterno non solo in termini spaziali, ma anche temporali e lungo due direttrici possibili: tali cose sono già di per sé, costitutivamente “chiuse fuori” (potremmo definirle ontologicamente “chiuse fuori”), oppure vengono (o sono state) chiuse fuori (stato resultativo di un movimento precedente). Stando poi al sottotitolo emerge il dato cronologico, per cui alla dialettica ”spaziale” tra esterno e interno se ne aggiunge (o se ne sovrappone) una tra un prima e un dopo, tra uno ieri e un oggi, più precisamente tra Novecento e primo decennio e mezzo del nuovo secolo.

 

In un illuminante ed esaustivo intervento consacrato a Delvaux (libro del 2013) e leggibile sull’edizione “on line” di Semicerchio (http://semicerchio.bytenet.it/articolo.asp?id=826), Cecilia Bello Minciacchi rifletteva proprio sul rapporto tra Giovenale e il Novecento e Cose chiuse fuori esplicita in una sorta di ricapitolazione premesse e risultanze di tale complesso e fecondo rapporto.

 

Ma ancor prima di accostarsi alla lettura di alcuni passaggi del libro ci si soffermi sull’esergo da Rilke («Felice chi ora potesse guardare sempre nei giardini») molto probabilmente apposto in maniera ironica sia perché l’intera opera di Giovenale fin qui pubblicata smentisce e decostruisce l’assunto rilkiano, sia perché Rilke, eletto a santo patrono di gran parte della poesia lirica e introspettiva e più o meno spiritualistica italiana, costituirebbe un esempio di scrittura in versi che la ricerca di Giovenale puntualmente avversa e sconfessa, anche facendo riferimento, per esempio, agli scritti di poeti e intellettuali come Jean-Marie Gleize o Gustav Sjöberg che stigmatizzano ogni sacralizzazione della poesia (anzi, della Poesia); l’ironia è risoluta presa di distanza da stilemi, retoriche, tematiche giudicate superate, anch’esse da “chiudere fuori”, ma nel senso di radicale critica e rifiuto – ed è questo uno dei modi tramite i quali Giovenale fa i conti con il Novecento.

 

Né si trascuri, inoltre, l’attributo “semivera” riferito all’ “autobiografia” del sottotitolo, autobiografia che, costituendo appunto un ponte tra il Novecento e i primissimi decenni del XXI secolo, non può non avere anche i tratti della finzione o della parodia e dell’autoparodia – si ascolti Marco Giovenale leggere i propri testi e si avrà contezza di come anche la lettura ad alta voce risolutamente s’incanali verso un antilirismo che fa di ogni vocabolo e di ogni struttura sintattica un oggetto sul quale viene gettata la luce fredda e impietosa della consapevolezza critica, del processo ermeneutico inteso a smantellare ogni residuo di aura e di mitografia.

Infine vale la pena leggere l’ultima delle Note (pp. 83 e 84) nella quale si dichiara che «Il libro conclude e sigilla, “chiude fuori”, una possibile esalogia (“ES-a-logia”, volendo), di cui qui di séguito si dà il disegno – con nessun riferimento cronologico: i tasselli che andrebbero infatti pensati come “contemporanei in quindici anni” circa (2000-2015) sono La casa esposta, Delle osservazioni, Shelter, Delvaux, Maniera nera – e, appunto, questo libro.

 

Cose chiuse fuori – oltre a pagine inedite – riprende in parte – e colloca in struttura – vari e variati testi usciti in Altre ombre (La camera verde, 2004), Superficie della battaglia (La camera verse, 2006), materiali inclusi nel Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007), e Delvaux (Oèdipus, 2013)».

Proprio nel  Nono quaderno di poesia contemporanea i testi di Giovenale sono riuniti sotto il titolo di Cose chiuse fuori – e si ricordi che nell’attività di Marco Giovenale sono prassi, anzi direi sono metodo sistematico la rielaborazione frequente e la ricollocazione dei testi che, in quanto cose/objets, sono, appunto, manipolabili (Ponge scrive nel testo citato: «Chacun d’eux (scilicet des objets) peut devenir notre point d’amarrage, La borne où nous appuyer. […] Plutôt que de notre regard, c’est alors l’affaire de notre main, – qu’elle sache filer la manœuvre») e dislocabili in una costituzione e dissoluzione costante dell’opera; nel caso di Giovenale non si tratta delle tradizionali “varianti” offerte allo studioso di filologia, ma, appunto, di manipolazioni che pervicaci contestano e contraddicono sia la sacralizzazione del testo che dell’opera (dovrei scrivere, forse, Testo, Opera…) in direzione di un realismo (o liittéralité) magistralmente teorizzato e attuato da Jean-Marie Gleize e che Marco Giovenale concretizza soprattutto nei lavori dell’ultimo decennio; le indicazioni cronologiche fornite nella nota significano, infatti, che i testi pubblicati in Cose chiuse fuori vengono elaborati negli stessi anni di quelli contenuti nel volume collettivo Prosa in prosa (prima edizione Le Lettere, 2009) e delle ricerche nell’ambito sia della scrittura asemica che dell’installance; tutti questi dati biografici in senso lato ricevono conferma nella conclusione della citazione da Ponge che ho proposto in avvio di questo contributo, là dove si parla dei “ fantômes” ovvero degli “objets subjectifs” che trovano singolare riscontro in quanto Laura Pugno scrive in quarta di copertina: «Un mondo fantasmale, i cui abitanti – fantasmi – si condensano reattivamente in oggetti, dove la physis è psiche e ci balza incontro. Una sezione geologica di nostro – di ognuno, di tutti, di chi scrive – passato che sembra reinventare una forma di cinema nel senso primario di narrazione per luci e ombre, con luci e ombre trattate in un cut up, come se fossimo all’inizio dell’uso del mezzo, in un territorio di sperimentazione, anch’essa, primaria. E la parola narrazione non stoni, ma sia anzi intesa nel senso più vasto, dilatato e sfrangiato possibile: come sinonimo di allucinazione» – per “abitanti” si intendano anche gli oggetti e i luoghi che, di fatto, “abitano” i testi e i testi stessi che, per usare un’espressione-concetto cara proprio a Laura Pugno, si dispongono ad abitare un “terzo paesaggio” scientemente altro sia dal paesaggio della poesia, direbbe Giovenale, pubblicata e promossa dall’editoria main-stream, sia dai paesaggi addomesticati e falsificati di gran parte della letteratura, dell’informazione, della politica.

 

A inverare le riflessioni della quarta di copertina soccorra il testo seguente:

 

Spinte dagli acidi verso l’esterno

le intenzioni di freddo dell’ur-

fotografo Atget

dicono la verità su vue de la gare

quanto la prosa del Fargue:

grani in sospensione

nell’aria avanti

le baracche, i fili fuori, stecchi

e ritte e tenute le girandole, spavaldi

i coltivi favolosi, di stagnole

(p. 16)

 

Con la lucidità (talvolta anche beffarda, sempre coerente con sé stessa) che gli è propria Giovenale non elude (e costringe chiunque eserciti la scrittura nelle sue diverse forme a non eludere) la questione del passaggio dal Novecento al nuovo secolo, obbliga a porsi davanti a un cambio di paradigma necessario non per ragioni “letterarie” o di “stile”, ma storiche e politiche, là dove storia e politica investono in pieno la lingua e la scrittura: se la “tradizione” poetica occidentale e la lingua da essa usata sono in larga parte di matrice borghese-capitalista, quando non fascista o, comunque, anti-libertaria, allora è necessario cercare e trovare scritture non più corree ai dispositivi di condizionamento e di controllo – applicando il concetto di littéralité elaborato da Jean-Marie Gleize (a sua volta ispirato, si sa, a Ponge e che Andrea Inglese discute con encomiabile lucidità qui https://www.nazioneindiana.com/2018/07/09/iconoclastia-artistica-e-concetto-di-litteralite) anche in Cose chiuse fuori le immagini tendono a un’asciuttezza che le priva di ogni tentazione liricizzante e sentimentalistica quasi fossero «spinte dagli acidi verso l’esterno» e il riferimento all’ «ur- / fotografo Atget» (si noti l’audace, splendido enjambement) costringe a pensare alla scrittura in versi come a un procedimento del quale vengono mostrati i meccanismi sui quali ultimi occorre meditare, mentre è possibile supporre che Marco Giovenale (e non è da solo) s’interroghi su come vada usata la scrittura alla svolta tra Novecento e nuovo secolo, così come Atget opera alla svolta tra Ottocento e Novecento tentando di usare una tecnica innovativa per approssimarsi al reale (la fotografia ai suoi albori che, nel caso del fotografo francese, ma anche dei suoi sodali artisti e scrittori – e il nome «del Fargue» con quell’articolazione evidenziata in corsivo probabilmente per ironizzare su certi vezzi anche linguistici dell’epoca – non è impiegata cedendo all’ingenua illusione di poter fotografare “fedelmente” il reale); data poi la struttura di ogni testo giovenaliano che chiama il lettore a un’opera attiva di interpretazione e di collaborazione e, spesso, lo costringe a colmare lacune e non detti, le cose sono chiuse fuori proprio nel senso (com’è anche di Criterio dei vetri) che esiste una distanza incolmabile tra la cosa/objet e il soggetto percipiente (c’è sempre un vetro tra chi guarda e il vero) e a maggior ragione tra la cosa e il linguaggio che vorrebbe descriverla per coglierne quella che la filosofia classica chiama “essenza”; si comprende allora bene che Ponge parli di objets subjectifs come di fantômes e Pugno di “mondo fantasmale” – e si leggano, anche, versi come i seguenti: «sulla lastra al bromuro d’argento – non riuscita – / le sagome bianche hanno troppa opalescenza, / grana incerta, niente le conosce» (p. 55).

 

In termini gleiziani si constata e si tenta di attuare l’aspirazione al realismo che non abbia scarti né zone d’ombra, ma, anche, si ha coscienza dello scacco di un tale tentativo che però (e questo è uno degli aspetti etici di tutta l’attività di Giovenale un lavoro del quale si chiama, non a caso, In rebus) viene costantemente reiterato. Secondo siffatti parametri potrebbe essere letto, a mo’ di esempio, il testo seguente contenuto nell’ultima parte del libro intitolata Exit from entrance (urbs):

 

Il fumo entrato

balla sotto la mancanza

di portici di San Francesco –

corpo della città (non Roma) – si vede bene

Sirio, da pianterreno.

 

La mattina i corvi passano sul fiume

– non per questo è differente

dalla differenza che già è –

(p. 80)

 

Non si può non pensare, ovviamente, alla différance derridiana e alla conseguente indicibilità del reale tramite il linguaggio il quale, mi azzardo a interpretare, è fumo che si muove non sotto una struttura esistente e ben identificata (i portici di un edificio deputato al culto), ma sotto la mancanza di tale struttura, dunque entro la presa di coscienza del venire meno di tutte le strutture portanti del pensiero erette nel tempo e crollate tra fine Ottocento e inizio Novecento. Non è dunque un caso che un’altra delle parti del libro di Marco Giovenale si chiami City shots (inquadratura, ritratti, esfoliazione) e un’altra ancora Superficie della battaglia (film), ché le scene “della battaglia” come fossero tratte da un film non possono che restituire la superficie di un conflitto (anche in termini propriamente militari: ci sono soldati, obici, fibbie, guanti) che, pure, continua a caratterizzare questa svolta tra i secoli «da film al negativo» appunto (p. 37), perché «la luce non sa l’inverso, / non sa tornare indietro» (p. 38), «si tratta solo dell’altra riva ferma, / la luce non fa il percorso inverso, / non è in grado» (p. 39); da parte loro gli scatti dalla o della città (molti – pagina 11, 17, 18, 19 e 20, 21 e 22, 30 e 31, 33 – con lo sfondo di edifici di culto situati nella Roma barocca, decadente e fessurata, piena di “cretti”, abitata da un’aristocrazia in disfacimento anche morale e da un proletariato dall’esistenza difficile) non tentano un’eventuale ékphrasis di luoghi od opere d’arte, né attuano descrizioni secondo stilemi diciamo così tradizionali, ma costituiscono un grimaldello per scardinare finzioni e apparenze, o, stando ai titoli di ben quattro testi (due si chiamano funzione, pp. 21-22 e 30-31  e due fuori funzione, pp. 19-20 e p. 33), giocano con l’ambivalenza semantica del sostantivo “funzione”:

 

A  prescindere dalla funzione in corso,

qui passano in gruppi di dieci come nei quadri –

seri e in foulard, avendo visto

e visitato e marmo e porte, buoni

e gitanti creduli e

in dissoluzioni dai tanti

variati imperi, palati parlati,

(p. 17)

 

[…] un po’ una baracca di pietrame.

Dalle dorature è chiaro

che il complesso della cattedra cristiana

è falso lì, le nervature sbagliano, non tengono,

ma per questo qui convergono dal mondo.

C’è un counter per le conversioni.

Come il bussolotto dove il soldo cade

a illuminare il Seicento verticale,

pale lignee, tubi di convenzione.

Domine, in Te lucem

ntelligo.

 

[…]

 

[…] Just forgive us Lord. «Se bene

intendo» – riposa interdetto.

Dimitte nos… (Dimitte cosa? Come

dice?)      …

               eco,     fine

 

(diminuendo)

 

(«oh, intelletto»)

(pp. 19 e 20)

 

Nel regime scopico di Marco Giovenale il riferimento alla fotografia rivela «come funzionano i fotogrammi, / per inganni: invisibile ognuno da solo / ma insieme a dare tracce reti tratti semi – nella rètina / per gli alt non percettibili allo sguardo, già lacune / (decimi, decimali lacrimàli) // – schiere di giusti» (pp. 21 e 22, Funzione) e, decisivo, il testo a pagina 27:

 

Non vuole essere

visto mentre vede.

 

Così, della casetta calcinata, prende nell’immagine

un po’ di scocca, lato, senza finestra.

 

Non raffigura – una cosa non può essere

riconosciuta, pensa.

Pensa ai cacciatori, che si abbassano

 

tra i forasacchi a fare – la domenica –

gara .- a chi centra il piccolo.

 

Come si comprende bene la questione riguarda anche la possibilità e le modalità di raffigurazione del reale, il rapporto tra percezione e sua resa artistica (che si tratti di fotografia o di scrittura non importa). La “caccia all’immagine” è caccia al particolare decentrato anche per una singolare forma di pudore – probabilmente il soggetto sottinteso del testo è proprio il fotografo Atget, alter ego di chi, maneggiando non la macchina fotografica, ma la scrittura, cerca di avvicinarsi al reale con pudore perché si coglie voyeur (vergognandosene), ma vorrebbe, al contempo, non sottrarsi a una necessità e a un impulso del pensiero che lo spingono verso quel reale medesimo.

 

Accade così che anche il tema tipico di Giovenale della casa si configuri come un “dentro” che è necessario “chiudere fuori” nel senso di porlo innanzi all’attenzione e allo sguardo di chi scrive e di chi legge, vagliarlo nelle sue valenze politiche, storiche, linguistiche (così come accade nei libri La casa esposta e Delle osservazioni, ma senza dimenticare Shelter):

 

È domenica, le loro finestre a losanghe

pazientano, senza Gozzano,

senza chiari, nel senso che non sono illuminate.

(Ardesia: una quantità).

[…]

 

In ultimo, sul piazzale del casone, persi i genitori,

hanno svenduto al custode,

loro insieme giusti ormai sotto la pietra.

 

(Quanta retorica, no? Ma poi il custode?

Neurovegetale: tutto intento

ai processi anabolici,  nessi

tutti persi).

[…]

 

Lo stesso asfalto lo vince il murare dei cancelli,

quelli aboliti a loro volta dal principio.

Belle ulcere ovali della neve, nelle arature.

     Fanno freccia

in direzione della casa.

 

Qual è la direzione della casa

(pp. 47-50 passim)

 

Anche in questo caso “Gozzano”, come “Atget”, può forse essere interpretato applicando quanto Cecilia Bello Minciacchi scrive a proposito del titolo Delvaux: «Il rimando al pittore è solo segnale, si sarebbe tentati di dire senhal, di un nodo dall’autore doverosamente amato: il proprio rapporto con il Novecento, il rapporto con la propria scrittura del e nel Novecento, e, di conseguenza, con la propria scrittura dopo il Novecento. Riflessione di poetica quant’altre mai, e insieme, quasi di necessità, riflessione esistenziale» (Semicerchio on line, cit.) – parole che perfettamente dicono anche di Cose chiuse fuori. E i lacerti di storie private, di conflitti, di accadimenti particolarmente dolorosi che emergono in questo come in altri testi riferiti alla casa sono appunto quello che Laura Pugno definisce “narrazione” e, dunque, “allucinazione” poiché anche narrare in versi significa, sul finire del e dopo il Novecento, sapere di avere a che fare con il linguaggio quale strumento impossibilitato a cogliere un reale che permane sfuggente, ambiguo, illusorio e allucinatorio, “chiuso fuori” rispetto a un’eventuale “presa” su di esso. È il riconoscimento definitivo dell’azione costante dell’entropia che, pervadendo ogni ambito dell’esistenza sia biologica che fisica, ovviamente coinvolge e condiziona in maniera determinante i meccanismi cognitivi e percettivi, obbliga a mutare il proprio rapporto con il linguaggio e col testo.

 

Ha lavorato troppo ai meccanismi dell’inverno –

balestra, bilance, ruota.

 

È cieco adesso     come il padre

prima di lui     lei non sa guidare, dice

mi sento anzi sono in un sacco:

 

isolàti qui del tutto, che lasci

poi? a? pensa

niente, all’impatto del vento

verticale, al cortile

(p. 9)

 

È cosa? (E: come?) È

 

come nel campo assediato da agnelli

che piangono e brucano tutto bruttando,

fanno il tempo, e il tempo è loro.

 

Pagina scritta, ma questa ancóra è loro

(p. 10)

 

[cose che sciamano verso se stesse]

 

se guardarle è la forma del varo

che se ne ritrae; riattira, scocca

negativa, vetro verde del vero

quadro, ritratto della prima

prua partita, che c’era, ora

no, non ora, né prima,

non quella, non c’era

(p. 71)

 

Gli slittamenti semantici innescati dalle variazioni anche minime dei significanti (Cecilia Bello Minciacchi li definisce “paragrammi”) è una delle caratteristiche della scrittura di Giovenale e se Cose chiuse fuori intende ricapitolare quindici anni di scrittura in versi da considerare anche in relazione con lavori che decisamente virano, fino a oggi, verso la “prosa in prosa” e il microracconto ovvero la prosa breve e brevissima (La gente non sa cosa si perde, Il cotone, Il paziente crede di essere, Statue linee per citare alcuni titoli), ebbene anche nella e oltre la cosiddetta assertività dei testi raccolti nel libro sul quale andiamo riflettendo, negli eventuali spunti autobiografici che hanno dato vita ad alcuni dei testi (tuttavia non necessari per la comprensione e l’interpretazione di essi), negli accorgimenti linguistici e retorici viene messa in atto una scrittura di ricerca proprio perché Cose chiuse fuori fa i conti in maniera radicale con l’intero Novecento, ne raccoglie e prosegue le indicazioni più feconde ed efficaci in ambito di sperimentazione e, appunto, di “cambio di paradigma”, possiede contezza di quanto si è fatto e si fa non solo in Italia, ma a livello internazionale nell’ambito delle arti di ricerca. Le Cose chiuse fuori si lasciano considerare proprio nella loro funzione di soglia tra Novecento e dopo-Novecento.

 

[Immagine: Emmet Gowin, Golf Course under Construction, Arizona1993].

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