di Gianluca Della Corte

Accade spesso, agli accademici, di appassionarsi così tanto al mondo studiato da volerlo inventare, tradurre in materia romanzesca. Come se l’assidua frequentazione, via libro, di una data epoca inoculasse il desiderio di rievocarla, di farla conoscere agli altri per raccontare di un innamoramento, un fascino subìto. Questa storia d’amore può essere restituita solo attraverso la finzione, i cui dispositivi permettono di congegnare una trama, costellarla di emozioni, rappresentare un conflitto, inaugurare una prospettiva inedita: così lo storico si trasforma in negromante ed estrae dagli annali della storia un momento, un personaggio, una cultura.

 

Vengono in mente, in ordine sparso, Umberto Eco, Antonella Prenner, Alessandro Barbero, Isabella Becherucci: Claudio Gigante si unisce alla falange col suo esordio nella narrativa di finzione, Non era la volta (Roma, Castelvecchi, 2022, pp. 152). Lo storico della letteratura che si fa romanziere non rinuncia ad adoperare, anche in quest’ambito, i ferri del mestiere. In questo libro, infatti, la stagione dei moti carbonari viene ricostruita non solo con le date e le battaglie, ma anche attraverso le voci e i testi degli scrittori che quell’epoca hanno vissuto per davvero. Gigante riconosce alla letteratura un valore documentale, intarsiando la narrazione di versi che raccontano un sentimento, un’idea, un orizzonte: dai libretti di Da Ponte e Pola alle invettive alfieriane del Misogallo; dagli slanci patriottici della Francesca da Rimini di Pellico alle rime altisonanti di Rossetti; dalle canzoni di Ricciardi a quelle di Berchet. Testi che pochi o nessuno ricorda, ma che hanno costituito la colonna sonora di una stagione animata da una gioventù appassionata, che mandava a memoria innumerevoli testi e li cantava in coro per costruire un’alleanza, esperire una fratellanza.[1]

 

Tuttavia, la sostanza letteraria di Non era una volta non si esaurisce nella citazione esplicita di questi versi, ma serpeggia anche in filigrana: il romanzo, infatti, è cosparso di riferimenti intertestuali, la cui facile decifrazione è ascrivibile alla volontà dell’autore di omaggiare le grandi narrazioni che lo hanno appassionato e al tentativo di dialogare coi suoi lettori, sollecitando la loro memoria.

Le Confessioni d’un Italiano rappresentano l’ipotesto più diffuso nel romanzo. Gigante sa appropriarsi di tutte le risorse del capolavoro nieviano, esemplando la fisionomia del suo narratore sulla sagoma dell’ottuagenario: Niccolò Ripa e Carlo Altoviti, infatti, si somigliano a partire dal vestiario fatto di «panni» tratti da «bauli tarlosi» (p. 20), ma anche per la trama picaresca dell’infanzia, vissuta in compagnia degli animali più che degli uomini («Avevo un solo compagno di gioco, peloso e invadente», p. 16); la condizione familiare e affettiva («senza genitori, senza una vera famiglia», p. 16); la «cultura […] disordinata» (p. 75); l’educazione ricevuta, a forza di «scapaccioni» (p. 17), da bislacchi preti per niente vocati al sacerdozio, ma piuttosto alla tavola o alle donne; la prospettiva marginale da cui guardano il mondo che non li considera («ero rimasto per lo più confinato in soffitta», p. 89) se non per servirsene meschinamente («ero addetto alla spolveratura delle calzature del marchese, alla lavatura dei pavimenti, alla pelatura di patate, o ad altro, in uno sgabuzzino separato dalla cucina», p. 24); infine, un’esistenza che passa per svariati mestieri, alternando imbestiamenti e assopimenti («Sto per morire come un rivoluzionario, ma forse, se l’imperatore non avesse pensato di farsi un giro per Roma, vivrei ancora immerso in quella impenetrabile letargia», p. 87) a stati di lucidità e vitalità; allontanamenti dalla Storia a immersioni in essa («Ricominciai a vivere, uscii dall’ombelico in cui mi ero rinchiuso», p. 87). Questi due eroi mediocri, che lungo la strada incontrano eroi titanici, condividono non solo origini e percorso formativo ma anche la forma in cui decidono di riandare agli anni vissuti: oltre alla natura accattivante di una trama biografica così avventurosa, Gigante ha colto anche la potenzialità del racconto autobiografico retrospettivo, che permette al narratore, alle prese con «il libro della memoria» (p. 11), di miscelare nostalgia e bilancio critico, narrazione fiabesca e scavo interiore.

 

Eppure l’eco delle Confessioni si riverbera nel romanzo anche per via di altri personaggi o episodi: la morte epica di Ettore Carafa trova spazio in un’osservazione del narratore («Pare che un martire debba morire così, se possibile rivolgendo lo sguardo verso il sole», p. 81); la vicenda del «tenentino d’oltralpe» (p. 11) che seduce e poi abbandona la Rossa ricorda vagamente la storyline della Pisana e Ascanio Minato, anch’egli «tenentino»[2], e quella di Aglaura ed Emilio Tornoni; infine, l’arciprete di Grottaferrata che alleva il piccolo Niccolò rimanda a Monsignor Orlando, per indole ghiotta e pavida e per l’attribuzione degli acciacchi della vecchiaia a fenomeni atmosferici, ma anche al curato più famoso della letteratura italiana, se il narratore ne rammenta il frasario latineggiante e lo descrive, in compagnia del suo «breviario […] sempre socchiuso con l’indice» (p. 14),  in giro «per le stradine intorno alla canonica, sempre timoroso […] di qualche incontro sgradito» (p. 13). L’ipotesto dei Promessi sposi compare qui e lì, incastonato nella pagina come una gemma antica e preziosa che tutti sanno riconoscere sotto lo smalto trasparente della riscrittura. Così i soldati spagnoli «che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne»[3] ritornano nelle cronache del narratore con un’esilarante divergenza: «Poi arrivava l’orda, predava e mangiava, recuperava i denari […] Meglio per il contadino se non aveva figlie per casa; delle mogli (quelle lì ci parevano vecchie) nessuno si curava» (p. 67).

 

L’intrico tanto romanzesco della vita del protagonista di Non era una volta – da far esclamare a Bastian: «Madòna […] la tua vita è un romànxo» (p. 100) – non può non rievocare altre storie. Se i duelli decisi a banchetto richiamano lontanamente l’Ettore Fieramosca, la vicenda di Niccolò Ripa a casa dei Lampugnano Majneri ripercorre quella di Julien Sorel presso i Rênal: entrambi sospesi al bivio rosso e nero della carriera militare e quella clericale («Nel giro di pochi giorni avevo rischiato di divenire un rivoluzionario e di abbracciare per disperazione lo stato clericale», p. 73), diventano precettori e affascinano per i loro virtuosismi mnemonici («recitavo Alfieri a memoria», p. 74); seducono le consorti dei rispettivi datori di lavoro; sono attesi al patibolo.

 

Questo libro va pertanto letto soprattutto come un atto d’amore per la letteratura, in particolare per il romanzo dell’Ottocento, di cui Gigante apprende lo stile e le formule. Cambia la lingua ma restano essenzialmente ottocentesche la posa e alcune risorse retoriche, come le prosopografie, in cui è spesso attivo il pregiudizio fisiognomico che realizza l’equivalenza tra extérieur ed intérieur («Due nasi che rivelavano più di una carta da visita», p. 58) e la tecnica vestignomica, per cui l’abito fa il monaco; o, ancora, il principio analogico agente ora in splendide, mai viete, metafore o similitudini zoomorfe («Quale formicaio si accorgerebbe della sparizione di una formica?», p. 69; «ragionava come un’ape operaia per cui non esiste salvezza individuale, p. 99»), tipiche di un certa tradizione realistica, ora in digressioni sulla natura e l’immaginazione.

 

Non era una volta è un romanzo in cui la scrittura creativa si fa occasione critica e divertito esercizio di interpretazione della storia, anche quella letteraria: che viene non solo allusa attraverso rimandi intertestuali, ma anche ricostruita riservando ampio spazio agli scrittori del Risorgimento (Leopardi, Ranieri, d’Azeglio, Lamartine tra gli altri) che tornano in vita insieme ai personaggi di finzione nelle memorie di Niccolò, e alle loro opere, la cui fortuna è abitualmente testimoniata in inserti molto efficaci («Oggi parlano tutti di d’Azeglio per quel romanzo che lo ha reso popolare – chissà che non l’abbia letto pure il duca boia che mi tiene incatenato qui sotto», p. 91; «I Canti passavano di mano in mano, quel piccolo fauno ingobbito parve a tutti un dio», p. 119). In questo modo Gigante restituisce spessore storico allo strato letterario dell’epoca, suggerendo che ogni tempo è modificato non solo da battaglie, statuti e cataclismi, ma anche da testi, idee, passioni.

 

 La densa intertestualità del libro va dunque intesa non come imitazione epigonale o tributo ossequioso, bensì come dialogo attivo coi testi, interazione vivace con la tradizione. Tutta la serie di ipotesti summenzionata viene fatta reagire con specifiche intenzioni dell’autore oltre che con altri romanzi primonovecenteschi e la genealogia degli inetti che li popola (pertanto non sfugge l’attenzione che Gigante ha di recente dedicato all’opera di Svevo). Niccolò, infatti, non ha fatto che rimandare a un altro tempo il compimento dei suoi progetti: «Per il mio futuro ero esigentissimo: mi vedevo con la barba, la postura da patriarca, il contegno severo. Una decina di figli. Questo bastava a rassicurarmi: di fronte a un avvenire così integro, poco contava come passassi un mezzo pomeriggio» (p. 61). Il motto «Pensiero e azione!» che talvolta Niccolò difende e propone non può essere applicato fino in fondo alla sua vita se, come dice, del moto confuso degli eventi non sempre riesce a farsi un’idea; se spreca le occasioni di fare la rivoluzione nei caldi postriboli e tra le acque azzurrine del mare: «Sono vissuto di rinnovati propositi, ho coltivato le mie brave illusioni palpitando dietro a più di un’idea: ma non ho mai smesso di andare a puttane.» (p. 61). Il narratore in queste pagine si attribuisce spesso una mancata intelligenza della storia; scrive più volte di una vita vissuta senza la consapevolezza profonda delle sue azioni. Vede talvolta nella rivoluzione un’occasione di realizzazione personale, sebbene non si tratti della fredda ambizione che muove ossessivamente un Julien Sorel, ma solo di un genuino desiderio di progredire: «volevo provare a sollevarmi da terra, a uscire dal mondo chiuso di quel disgraziato paese» (p. 65).

 

Questo antieroe, che in fondo non è mai stato puntuale nel suo appuntamento con la storia e perciò scrive le sue memorie con doloroso rammarico, è ben diverso da quello nieviano, la cui mediocrità è funzionale a un progetto di democratizzazione dell’azione politica, che va svolta senza indulgere troppo alle procrastinazioni e alle erranze. Volgendo lo sguardo ai suoi anni passati, Niccolò, a differenza di Carlino, che giunge a conclusioni diverse, pensa di essere stato solo «una ruota mossa da una forza estranea» (p. 16) e che l’uomo, in fondo, non abbia un reale potere di intervento nel mondo. Alla fede e l’etica dell’azione dell’ottuagenario, Gigante contrappone l’inettitudine e la disillusione del suo Niccolò, secondo il quale nel «formicaio della storia» non si può essere che «un giocattolo preda di forze sregolate che lasciano solo l’illusione di scegliere» (p. 70).

 

Il «caso» (p. 12), da Niccolò eletto a principio regolatore della sua «inutile vita» (p. 31), viene inquadrato, nel momento della scrittura, entro l’ordine e la linearità che connotano una trama. Così, le riflessioni sulla memoria disseminate nei diversi capitoli finiscono per diventare un saggio sul racconto – che forse tesaurizza la lezione di Peter Brooks – quale principio di organizzazione della materia narrativa secondo un «disegno» (p. 12) e un «senso» (p. 9), alla cui elaborazione sono necessarie la contemplazione di un finale («è solo la mia fine che dà un significato alla mia storia», p. 122) e l’abitazione di un cronotopo della contemplazione, lontano dal tempo e dallo spazio dell’azione («Mi sfugge il significato della mia vita che pure, alla fine, vista da fuori ha acquisito un senso», p. 55: corsivo mio).

 

Niccolò Ripa, ripercorrendo il solco che separa i propri progetti dalle loro effettive realizzazioni, può intridere la sua narrazione di ricordi che forse valicano le soglie della realtà esperita: «risarcisco il mio passato con ricordi finti dall’immaginazione» (p. 12). Il racconto memorialistico, dunque, è concepito soprattutto come un riscatto che nasce dal bisogno di rinvigorire le passioni deboli e riscrivere i progetti incompiuti. E in questa trascrizione dell’errare rocambolesco viene tradito l’errore di una vita inconcludente. L’attività memoriale, in conclusione, sembra concepita meno per il lettore che per l’autobiografo stesso: «Rivivo quella parte di passato che sta per svanire, non per serbarne memoria (a chi, a cosa servirebbe?) ma per raccogliermi, per ritrovarmi in frammenti, per esserci ancora un po’» (p. 30): nel perimetro limitato di una cella, nello spazio angusto di una solitudine profonda, Niccolò ha come unico luogo dell’«esserci» il passato: la sola dimensione dove vede realizzata e ancora realizzabile l’interazione con l’Altro, la modellazione del possibile, l’intervento attivo nella realtà.

 

Note

[1] Cfr. A. Quondam, Risorgimento a memoria. Le poesie degli italiani, Roma, Donzelli, 2011.

[2] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1999, p. 797.

[3] A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. de Cristofaro, G. Alfano, M. Palumbo, M. Viscardi, con saggio linguistico di N. De Blasi, Milano, Rizzoli, 2014, p. 88.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *