di Fabrizio Bercelli
Non sono né un insegnante né un esperto di scuola, ma ci ho avuto a che fare ininterrottamente dall’autunno 1946, mio primo giorno di scuola, a oggi: studente liceale negli anni ’50, supplente annuale negli anni ’60 in un istituto tecnico industriale e nelle vecchie magistrali, poi professore universitario e docente SSIS; non da ultimo, padre di tre figli e nonno di due nipoti, tutti seguiti nei loro percorsi scolastici dal 1976 a oggi. Infine, dal 2014, volontario in un doposcuola bolognese per bambini/e della primaria e ragazzini/e della secondaria di primo grado, prevalentemente di famiglie immigrate, ma quasi tutti nati e cresciuti in Italia: in dieci anni ne ho assistiti centinaia, in un continuo rapporto uno a uno, alle prese coi compiti per casa.
Questa lunga frequentazione mi induce a una valutazione desolante: l’attuale scuola italiana è complessivamente, da molti anni, un disastro, tranne che per un’esigua minoranza, privilegiata per status sociale e/o per (rare) attitudini individuali. Con ciò non rimpiango affatto la mia scuola di 70 anni fa, che era una scuola principalmente d’élite, come tale abbastanza valida per quei tempi. Ma, in sintesi, non è riuscita affatto bene, in Italia, negli ultimi 60 anni, la transizione da scuola d’élite a scuola di massa.
In triste accordo col mio giudizio soggettivo, i dati INVALSI 2023 quantificano il dramma: nelle materie principali – Italiano, Matematica, Inglese – alla fine della primaria il 40% circa degli studenti non raggiunge il livello 3, cioè la competenza minima attesa, che alla fine della secondaria di secondo grado diventa all’incirca il 50%.
Negli anni recenti, esclusi quelli del Covid, ci sono state modeste variazioni di quei dati, dell’ordine di 1 o 2 punti percentuali. Il Covid ha inciso negativamente, in misura rilevante ma limitata: ad esempio, in matematica, nel 2021, dopo quasi due anni di scuola a singhiozzo e DAD, il 44% dei ragazzi usciti a giugno dalla terza media non raggiungeva le competenze minime attese, rispetto al 40% del 2018.
La sostanza non è cambiata: in Italia, alla conclusione dell’obbligo scolastico, più o meno la metà degli studenti risulta avere imparato assai poco, e quel poco male. Come se metà delle auto in uscita da una fabbrica non funzionassero, o procedessero a singhiozzo. è vero, i ragazzi non sono macchine, ma altrove non succede.
Questo in media. In varie aree del Sud e fra i figli di immigrati, non la metà ma la maggioranza degli studenti esce dalla scuola, se non funzionalmente analfabeta, incapace di capire un buon articolo di giornale, a disagio di fronte a una semplice percentuale o in una banale conversazione in inglese. In particolare, mi chiedo se tanti ragazzini di famiglie immigrate, trascurati da una scuola che dei loro apprendimenti poco si preoccupa, perciò avviati a un futuro assai oscuro, non siano bombe sociali destinate prima o poi a esplodere, come ora in Francia. Ma sarebbe questa solo la punta di un iceberg costituito da masse di ragazzi/e che la scuola non riesce a formare ai livelli richiesti da un paese avanzato.
Al di là dei dati che attestano l’insuccesso della nostra scuola nel suo compito formativo, vi è ragione di ritenere che essa danneggi, a livello cognitivo ed emotivo, molti dei suoi utenti. Lo suggeriscono i dati PISA sui livelli di ansia e avversione rispetto agli impegni scolastici, straordinariamente più alti in Italia. In un mio blog, ho descritto una serie di episodi, tratti dall’esperienza del doposcuola, che documentano casi esemplari sia di inefficacia formativa che di nocività della scuola, o almeno di quella che ho visto nei miei ragazzini.
Su possibili cause e rimedi, mi limito a menzionare solo alcune tesi, pre-Covid, del gruppo Condorcet e, più modestamente, mie: inadeguata formazione iniziale degli insegnanti, che richiederebbe molto tirocinio di buona qualità; “secondarizzazione” della scuola primaria, con eccessi nozionistici, peraltro infelicemente caratteristici anche del triennio successivo, a catastrofico scapito degli apprendimenti di base; eccessi alimentati da esorbitanti libri di testo di scarsa qualità, tranne rare eccezioni; e alimentati anche da insegnanti che, ignorando le abbastanza ragionevoli Indicazioni nazionali del 2012, inseguono disperatamente “programmi” non più vigenti, cui peraltro i libri di testo continuano a conformarsi; nonché la caterva di compiti per casa, quasi senza pari negli altri paesi, a pretesa compensazione del mancato apprendimento in orario scolastico, con l’effetto di aggravare le diseguaglianze fra chi può e chi non può essere aiutato da familiari o da ripetizioni private; il tutto all’interno, tranne eccezioni, della pervasiva didattica SSID: Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (copyright Paolo Fasce).
Tutto questo comporta che troppi bambini – quel 40% circa dei dati INVALSI – accumulino via via lacune gravissime già nella primaria e poi, a cascata, nella secondaria di primo grado, senza nessun impegno da parte della scuola in efficaci attività di recupero. Ben presto per molti di loro diventa quasi impossibile imparare alcunché, specialmente nelle materie, come Matematica, in cui non puoi progredire se ti mancano le basi – condizione terribilmente frustrante, cui peraltro tanti si assuefanno miseramente. Semplificando all’estremo, un rimedio sarebbe “meno ma meglio”, come argomentavo nell’articolo sopra citato.
Il discorso su cause e possibili rimedi, qui appena accennato, è ben più complesso e controverso. Ma credo che un necessario punto di partenza sia l’impietoso riconoscimento della situazione che anche i dati INVALSI molto utilmente attestano, specie da parte di chi può farne tesoro, senza sterili polemiche, per proporre, attuare, e non sabotare, rimedi efficaci, necessariamente anche sistemici.
Credo che accusare la scuola sia ormai um mantra per assolvere la coscienza sociale.