di Antonio Casto
Malattia malcelata
La retorica del “malato combattivo” e del “guarirai” è tra le forme più seccanti di una certa finzione contemporanea, del patetico buonismo del va-tutto-bene che oggi imperversa ogni volta che tocca affrontare problemi umani non facili da spazzare sotto al tappeto. I personaggi (compresi pazienti in prima persona) che negli anni sono comparsi in televisione e altrove col sorriso rassicurante, a dichiarare che non bisogna mollare mai, rastrellando sistematici applausi e commosse standing ovation, compiono un’operazione certamente comprensibile ma ambigua, perché sotto l’esigenza di esprimere a tutti i costi un incoraggiamento inclusivo, monolitico e tranquillizzante, appiattiscono e banalizzano condizioni psicofisiche infinitamente variabili, che nella realtà non tutti i malati possono permettersi di tenere sotto controllo allo stesso modo, e impossibili da liquidare con un “tenete duro”. Si trasformano quasi, pare, nell’ennesima manifestazione mediatica di quel bisogno di recintare, contenere le singolarità, evitare il rischio di condividere l’incomunicabile, aggirare l’abisso della diversità (analogo al meccanismo con cui i grandi media rappresentano le minoranze, per esempio gli omosessuali o gli afroamericani: approvatissimi, irresistibili, purché si attengano ai loro rigidi compartimenti di macchiette).
L’individualità e la percezione di un dolore vissuto in un dato momento non si può rappresentare, non è riproducibile in chi vi assiste dall’esterno, per quante parole o smorfie si tentino, tanto più che, alla faccia di qualsiasi decantata empatia, un innato meccanismo evolutivo ci scherma e distanzia quasi fisicamente dagli individui che soffrono, in quanto potenziale peso o pericolo. «Che cosa è insopportabile? Le parole di conforto per chi soffre.» (von Kleist, 1801, anni prima del suicidio). Quando un malato dichiara “sto male”, non vuole sentirsi dire “guarirai”, perché lo sa già, oppure lo spera – o magari sa che non guarirà. Soprattutto, cosa m’importa che guarirò, rispetto a ciò che sto provando adesso? Un malato mosso dal bisogno di sfogare la propria malattia vorrà casomai discutere cure, proposte, soluzioni, distrazioni istantanee, fino allo sfinimento; o in alternativa sviscerare all’infinito i sintomi, sgranare le opzioni, le routine, le medicine; mettere in imbarazzo con la messa in scena icastica, il più possibile mimetica, di ciò che sta provando, anche esagerando se può servire a trasmettere l’idea; soffermarsi su ciò che a noi non interessa, ciò su cui noi per istinto sorvoliamo, vale a dire proprio quel dolore puntuale che a lui invece non è concesso aggirare. E chi di noi è disposto a subire l’imbarazzo del conclamato dolore altrui, a scendere nei dettagli masochistici di un elenco di sofferenze, anche quando vengono da una persona che ci sta a cuore? Tanto più che il malato finisce per invidiare e prendere in odio il sano.
Sussurri e grida resta forse il film più eloquente in tal senso, a cui bisogna aggiungere in anni più recenti Synecdoche, New York, certe puntate crudeli di BoJack Horseman e naturalmente von Trier, soprattutto negli ultimi quindici anni.
Quando il dolore è insostenibile, come succede in molte malattie, non per forza terminali, e magari cronico, o addirittura senza interruzioni neanche minime, gli argomenti, le pretese e la consolazione altrui acquistano un’inconfondibile eco di ridicole, incommensurabili, liquidatorie parole al vento. Quando il dolore risucchia ogni attenzione non è possibile guardare in faccia chi ti sta parlando, al male si somma il timore di perdere il controllo, si ha l’impulso di cedere, buttarsi a terra (o di sotto), non si può aspettare un secondo di più, terminare con calma un pensiero, comunicarlo, mangiare… c’è poco da combattere o guerreggiare. «Non esiste tortura che somigli a quella di una malattia» (Browne, 1643). E un paziente imbottito di antidolorifici, ben scelto e truccato e illuminato, che venga in tv a riferirci di tenere duro, o peggio che sfrutti la cognizione pubblicizzata della sua morte imminente come leva per avanzare rivendicazioni certamente lodevoli ma tipicamente da primo mondo può solo suscitare rabbia o sgomentare – con la sua apparente e costruita immagine di buona salute e partecipazione alla vita – lo spettatore malato “normale” (che poi è il diretto destinatario) il quale invece si vede assai più impotente.
In certi momenti, che possono essere angosciosamente lunghi, non si è più padroni del proprio corpo, e all’urto della sofferenza si unisce un soffocante senso di imbarazzo, proprio perché consapevoli che chi è presente e assiste non potrà capire (soprattutto quando la malattia non “si vede”, e bisogna al più dedurla dalle espressioni del malato, che è facile supporre esagerate). Le malattie lunghe e tormentose sono fatte di questo. Ancora Thomas Browne, supremamente: «Non ho tanto paura quanto vergogna della morte; essa è veramente l’onta e l’ignominia della nostra natura, e in un momento può talmente sfigurarci che i nostri amici più cari, le mogli e i figli se ne stanno impauriti e sussultano davanti a noi. […] Fu proprio questa riflessione a far sì che durante una tempesta mi sentissi disposto a sprofondare nell’abisso delle acque; dove sarei perito non visto, non commiserato, senza sguardi attoniti, senza lacrime di pietà e discorsi sulla mortalità: e dove nessuno avrebbe detto, quantum mutatus ab illo!». Non ultima, c’è poi la funesta invidia del malato, che vede altri secondo lui immeritevoli di salute scorrazzare ovunque per il mondo che lo circonda, mentre lui si percepisce ingiustamente punito (perché oltre una certa soglia, nella sua muta inappellabilità, il malato non può più credere che al dolore non ci sia una spiegazione morale, «qualcosa che Dio ha da dirci», secondo le parole di San Giuseppe da Copertino, altro lungamente malato). Di conseguenza il malato diventa felice quando anche altri sono malati. E questo è difficile perdonarglielo, tanto più in un paese scaramantico come l’Italia.
“Fatti forza”… Ma fatti forza de che? “Resisti”… Ma resisti a cosa? “Prendila con ironia”… Certo, qualsiasi malato si appiglia disperatamente ai momenti di sollievo, anche quando sono rarissimi: in quelle oasi beate, la mente sfinita e incredula cancella con un colpo di spugna la malattia, lo fa spontaneamente, per tirare il fiato – si ritorna normali, perfino spericolati. Resta l’ombra nera di un pensiero, il peso della cognizione che quell’intervallo di tempo non sarà infinito, ma non importa. A quel punto sì, siamo tutti combattenti, va da sé. Siamo pronti a essere più brillanti che mai. Altrimenti, è inevitabile detestare i sani e i loro conforti vuoti come gusci: «L’improvviso convulso di odio verso il genere umano, o meglio l’intolleranza momentanea del malato, che non sopporta alcuna manifestazione della vita perché ha la sensazione di non farcela a vivere» (Elena Croce, 1961).
Proporre l’immagine del malato terminale dinoccolato, sereno e scattante, in altri termini nascondere il tormento della malattia, l’aspetto malato del soffrire, è un modo di rassicurare (di rassicurare il pubblico dei sani), di ridurre una malattia al nome astratto della diagnosi, di rendere invisibile un percorso irto e accidentato, inevitabilmente fatto di moltissimi punti bassi, in cui le stasi e le pause dall’apnea del dolore sono magari scarse. Ed è un modo comprensibile: un tumore può così acquistare un aspetto innocuo. Ma è allo stesso tempo e soprattutto un colpo basso a chi, altrettanto malato, assiste come vittima impotente a questo allestimento mediatico e domesticato, e magari non può permettersi le cure personalizzate e la sicurezza economica di un presentatore televisivo, con smarrimento non si riconosce in quella immagine, e finisce per porsi la domanda angosciosa: “Com’è che io sto così male, se abbiamo la stessa malattia? Com’è che io non mi reggo in piedi, che la mia vita è squallida, che non riesco a conservare quell’aspetto sano, che mi vergogno di farmi vedere anche dalle persone che amo, e loro invece sono in tv e hanno la forza di occuparsi di altro? Sto sbagliando qualcosa, non so resistere alla sofferenza, sono un vigliacco, sono più sfortunato nella sfortuna?”.
Malattia manifesta
C’è poi un tipo uguale e contrario di presentazione della malattia, faccia opposta della stessa medaglia, sempre più invadente alla tv, in particolare quando si tratta di personaggi pubblici. E anche meno giustificabile, più insulsa. Ovvero la scelta di mettere la malattia al servizio esplicito della macchina produttiva dell’esibizione, della messa in mostra fine a sé stessa, della spettacolarizzazione – insomma di commerciare la propria sofferenza.
Esempio paradigmatico – perché ridotto ai minimi termini – fu, una decina d’anni fa, il documentario su Wilko Johnson, chitarrista britannico attivo negli anni Settanta ma soggetto a un nuovo picco di popolarità dopo aver dichiarato che gli restavano dieci mesi di vita. Nientemeno che Julien Temple lo segue nel suo “tour d’addio”, in cui, tra le altre cose, un ospite sul palco gli appoggia il microfono sul tumore che sporge dalla pancia per “farlo cantare”. (Siamo pur sempre in Gran Bretagna, e si può ancora interpretare tutto sub specie Monty Python.) Comunque, alla fine salta fuori che il tumore è operabile e Johnson vive altre dieci anni (è morto qualche mese fa, causa della morte non divulgata).
Versione italiana, condita col nostro caratteristico surplus di squallore, è stato pochi anni fa Lele Mora, che in diretta su Canale 5 prende la mano di Barbara D’Urso e le fa toccare il voluminoso tumore anche lui in zona addominale (specifica pure le dimensioni). «Oh mamma mia!» si commuove a comando la presentatrice con pronto cordoglio – per inciso, la puntata cominciava con la diretta dell’ambulanza che portava in ospedale Francesca De André, collassata pochi minuti prima per motivi non specificati, e proseguiva con l’inchiesta «Grazie a Panzironi mi si è allungata la gamba di 3 cm» (anche qui precisione diagnostica, con tanto di foto e fascicoli portati in studio dai pazienti). Lo stesso anno si cercava di insufflare vita allo scialbo concorso di Miss Italia, riapprodato in Rai dopo anni di assenza, puntando i riflettori su una candidata con protesi a una gamba, prontamente giunta in finale, naturalmente subissata di standing ovation. Sicché sarà cattivo gusto o deduzione ovvia prevedere in un futuro prossimo Misses Italie in flebo e reality show nei reparti oncologici, dove ogni settimana uno o più pazienti “lasciano lo studio”?
Da anni i programmi italiani, indipendentemente dall’argomento, puntano tutto sulle tragedie personali, con preferenza per i problemi del corpo, meglio se irreversibili: show che dovrebbero giudicare come uno canta o balla (già livello deteriore dell’intrattenimento, serate karaoke da pizzeria suburbana), o primi appuntamenti al buio, si imperniano in realtà attorno ai guai privati di chi vi si sottopone, e che a sua insaputa (forse) viene scelto proprio per le sue sciagure – figli morti possibilmente giovanissimi, mariti infartati a trent’anni, tumori appena superati, sindromi invalidanti dalla nascita, disturbi neurologici o del linguaggio, malformazioni, sventure, fallimenti, disgrazie… E sul versante americano, da anni imperversano su RealTime (all’inizio solo di notte, infine più volte al giorno) le sciatte sequele di iper-obesi in lotta contro sé stessi mentre un dietologo severo minaccia morte imminente se non rinunceranno ai McBurger e non proveranno per la prima volta nella loro vita a mangiare una carota, con lunghissimi piani sequenza a mano, sulla falsariga dei documentari di Wiseman, su questi giganti che decidono di alzarsi dal letto o devono entrare in auto o hanno i conati di fronte alla lattuga, mentre in altri programmi “real” sedicenti dottori aprono stand su strada e i passanti entrano a confidare le loro malattie o manie segrete, preferibilmente orripilanti e inenarrabili.
Quale sarà l’origine psicologica o antropologica del successo del dramma di salute? Avrà valore apotropaico, scaramantico, o sarà una concessione alla vena sadica che davanti ai conoscenti siamo costretti a mascherare dietro buonissimi sentimenti? Anche il Grande Fratello ha ormai sancito con successo un suo filone medico-diagnostico (rigorosamente Vip), aggiungendo al proprio canovaccio standard di caricature grottesche (ma non recitano, sono tragicamente sé stessi) un nuovo personaggio fisso (che si somma al pot-pourri ormai rodato della valletta dimenticata, dell’anziano attore di un solo sceneggiato Rai negli anni Sessanta, del supposto intellettuale smosciacazzi, della ragazza provocante vipera, della ragazza provocante angelica, dell’efebo effemminato, della checca impazzita, del parente non pervenuto di altri parenti di Vip opinabili, del grezzo tatuato afasico, della baldracca sboccata e smandrappata… per ogni categoria il numero dei candidati annuali è apparentemente inesauribile), ovvero accogliendo “il malato”, individuo monodimensionale ridotto alla sua malattia, trattato con pinze saccarine di intoccabile buonismo e punte di retorica aberranti dall’abominevole presentatore: prima la sedia a rotella (con intervista finale in studio sulle capacità erettive, perché “il pubblico se lo chiede”), l’anno scorso “il primo sieropositivo ad aprire questa porta” (che poi chi l’ha detto? che ne sa?) – e già la formulazione della notizia è indicativa dell’ipocondria intrinseca del pubblico a cui è rivolta (a un passo da: “Il primo sieropositivo che tocca questo pomello”). Una finta “liberazione dagli stereotipi” che va introdotta all’interno degli stereotipi stessi senza rischiare di disinnescarli davvero (sempre il Grande Fratello, tanto per dire, contemplava equivalentemente una Giulia De Lellis convinta che l’Hiv si trasmettesse bevendo allo stesso bicchiere; e il fidanzato replicava: «Non è omofoba [nessuno aveva tirato in ballo gli omosessuali]: si trova molto bene con Malgioglio»). Chissà cosa ci riserva la prossima edizione: una chemio live è forse previsione banale.
Così, insensibilmente, siamo precipitati in un mondo che ricalca alla lettera le fantasie più austere di Cronenberg, e ci accorgiamo che l’ultimo suo film non è l’ennesima metafora di un futuro più o meno lontano, come la critica cinematografica ha subito voluto credere, piuttosto è una quasi letterale – benché sarcastica – descrizione del presente. Già oggi infatti si va ad assistere a spettacoli, eventi e soirées non per il loro eventuale valore o interesse artistico, ma appunto perché si sa che il chitarrista ha un tumore, che all’attrice è andato male il botox, che della presentatrice è trapelato un video porno, che il performer ha avuto una liaison segreta con un amico che si conosce, che un’influencer ha annunciato che sarà presente, o meglio che sfilerà prima dell’inizio (ma niente di nuovo: negli anni Cinquanta si andava a vedere Edith Piaf scommettendo ogni volta se quella era la sera in cui sarebbe caduta morta sul palco; lo si faceva fino a qualche giorno fa con le comparse di Gina Lollobrigida in tv – e uno dei momenti più emozionanti della televisione italiana resta: «Presidente? Presidente?…»). Insomma, l’operazione chirurgica live, come in Crimes of the future, è tutt’altro che futuristica distopia. Casomai, a voler guardare più in là, toccherà piuttosto prepararsi a esibizioni ad personam in diretta dal capezzale che ricalcheranno Misery di Stephen King (il fan vincerà la possibilità di cambiare le garze alla tiktoker novantenne).
E se, a ben vedere, è fin troppo comprensibile, nella disperazione, avvolti da una malattia soffocante o inguaribile, appigliarsi alla messa in mostra pedissequa dei referti e di sé, pur di cercare un contatto umano e colmare il divario incomunicabile della solitudine del corpo, a chi toccherà (ammesso che tocchi a qualcuno) stabilire il limite tra condivisione e squallore, tra messa in scena involontariamente falsificante e apertura istruttiva alle proprie difficoltà? Come spesso accade, la stella da seguire può ben essere Bowie. Mentre altri facevano cantare sul palco il proprio tumore, o aprivano le dirette dai reparti chemio, Bowie registrava in assoluto segreto un album dove il dolore fisico è presente ma celato. A Gary Oldman scriveva: «Good news is I’ve got my cheekbones back» (siamo sempre nell’ambito dei Monty Python, ma con tutt’altra resa). Obbligato a confessare ai collaboratori diretti di ★ e del musical Lazarus, con suprema semplicità, che «in certi giorni sarò assente», chiedeva loro il favore di non parlarne con nessuno. Querimonie e trenodie solo dopo, se non vi dispiace, in absentia.
[Immagine: The Ecstasy Of Wilko Johnson]
completamente condivisibile… grazie
Bel cammino, grazie.