di Sergio Benvenuto
1.
Chi è stato formato alla psicoanalisi di solito non ha una grande opinione delle psicoterapie dette cognitivo-comportamentali. Quanto a me, non sono contrario al progetto in sé di tentare una psicoterapia su basi fattuali, una Evidence Based Psychotherapy, né al fare appello al sapere delle scienze cognitive (ovvero, delle ricerche che applicano protocolli scientifici, dalle neuroscienze alla psicologia[1]). Ieri e oggi molti pensano, a giusto titolo, che la psicoanalisi non sia scientifica perché la sua teoria di base non è dimostrata, oppure non è falsificabile. Piuttosto, mi deludono le applicazioni cliniche del cognitivismo. Avevo la sensazione che la montagna (i sofisticati modelli cognitivisti) partorisse il topolino, che il terapista cognitivo (per lasciare da parte per ora quello comportamentale) si accontentasse di banalità a cui può giungere pure la massaia di Voghera o il signor Rossi impiegato alle poste.
Da decenni prospera una vasta letteratura sulla validazione fattuale dei risultati delle psicoterapie, dalla psicoanalisi fino alle terapie cognitive[2]. Esigenza sacrosanta: “Voi psicoterapeuti ripetete tanto che guarite la gente. Vediamo se è vero!” La verità è che queste ricerche sugli effetti clinici delle psicoterapie danno risultati molto contrastanti, e mi chiedo se questo contrasto non derivi dal bias originario dei ricercatori, che in cuor loro desiderano dimostrare l’eccellenza di una psicoterapia o dell’altra. In quelli che chiamiamo “risultati clinici” confluiscono una miriade di fattori di ogni tipo, per cui le procedure di validazione finora usate mi sembrano quasi tutte alquanto rozze. Trovo che queste procedure di controllo siano un po’, mutatis mutandis, al livello della neurologia di Cesare Lombroso rispetto alle moderne neuroscienze. Lombroso voleva dedurre la personalità delle persone, in particolare dei criminali, dalla forma del loro cranio. Oggi la cosa ci fa ridere. Eppure il principio di studiare il cervello per capire qualcosa della mente umana era del tutto legittimo, ma una cosa è il principio altra cosa è come lo si applica. Allora l’applicazione del progetto neuroscientifico era davvero grossolana. Voler essere scientifici è lodevole, ma spesso si confonde la prosopopea scientifica con l’effettiva ricerca.
Comunque, alcune ricerche di validazione danno un certo vantaggio terapeutico alle terapie cognitive[3], insomma, queste sarebbero più curative di altre psicoterapie, psicoanalisi inclusa. Per capire il perché di questo vantaggio decisi allora di applicare un criterio sperimentale, usando cavie umane. E quale miglior cavia di me stesso?
2.
Oltre trent’anni fa, dopo aver fatto un’analisi, e avendo cominciato a praticare io stesso come analista, attraversai un periodo abbastanza duro. Ero depresso e angosciato, perché soffrivo di un sintomo che consideravo alquanto preciso. Decisi allora di cercare una psicoterapia, e questa volta avrei provato quella cognitivista. Voglio dire, insomma, che non ero un falso caso clinico, lo ero davvero; altrimenti il mio “esperimento” non avrebbe avuto alcun valore.
Chiesi un appuntamento a quello che all’epoca era considerato tra i migliori psicoterapeuti cognitivisti dell’intera nazione in cui vivevo.
Costui mi ascoltò in silenzio per un’ora come avrebbe fatto, più o meno, anche uno psicoanalista. Cambiai solo il mio cognome temendo che il luminare mi potesse conoscere di nome, e non mi presentai come un collega. Ma per il resto fui assolutamente sincero, non nascosi nulla della mia condizione. In particolare gli parlai dell’angoscioso sintomo che in quel periodo mi guastava la vita.
Fui perciò alquanto sorpreso quando alla fine del mio monologo il terapeuta mi disse che per il mio caso non c’era alcuna cura psico-cognitiva. Questa, diceva, funziona con sintomi molto precisi, mentre la mia era “una problematica esistenziale”, non focalizzata, un disagio dovuto, probabilmente, al passaggio da una fase all’altra della vita… Poi, pensandoci su, mi disse che lavorava con loro un giovane psicoterapeuta specializzato proprio in “problemi esistenziali” come i miei. Avrei potuto andare da lui. E io che pensavo invece di aver portato un disagio ben circoscritto!
Andai dal giovane terapista, il quale, a differenza del suo maestro, non aspettò che io aprissi bocca: mi lesse alcuni stralci di testi letterari e filosofici che avevano un nesso, secondo lui, col problema che avevo portato. Evidentemente il suo capo gli aveva già detto qual era il mio problema, così si era preparate citazioni raffinate a casa. Cosa che non mancò di irritarmi, trovai scorretto valersi del sapere datogli da un collega per interagire subito col paziente, senza aspettare che costui si esprimesse. In sostanza voleva dirmi che io dovevo rassegnarmi al mio problema, il quale però consisteva nel fatto proprio di non rassegnarmi… Poi riuscii a parlare anche io. Alla fine mi disse che il mio caso era adatto per uno psicoanalista (non sapeva che io stesso ero a inizio carriera di analista), che non c’era psicoterapia cognitiva per me… Mi disse che lui mandava parecchi pazienti “esistenziali” come me da un suo collega lacaniano. Il caso voleva che io conoscessi di persona questo analista.
Così finì miseramente il mio primo e ultimo tentativo di sottopormi a una terapia cognitivista. Non es dignus nobis.
3.
Mi si dirà: “Non eri un caso che gli psicoterapisti cognitivi trattano, tutto qui. Ma tu forse sei un caso alquanto raro di paziente esistenziale”.
Quali sarebbero allora i casi adatti per il cognitivista? Ci sono casi adatti al freudiano, o allo junghiano, o al reichiano, o al sistemico-familiare…?
Penso al tipo di analizzanti che oggi seguo, e che mi sono giunti per caso, non perché io li abbia selezionati a priori come facevano (e fanno?) i cognitivisti. Di fatto, a parte alcuni casi rari, non respingo nessuno che mi chieda aiuto. Anche per problemi che appaiono poco ‘psicologici’. Ora, che tipo di problemi questi soggetti portano? Non dico il problema che hanno portato alla prima seduta; molto spesso i soggetti vengono perché lamentano un sintomo e poi presto si rendono conto che il loro problema è ben altro. Talvolta dimenticano persino per quale ragione erano venuti dall’analista a farsi curare… Che cosa nel fondo cura una psicoterapia, analitica o non?
Faccio qui uno schizzo molto succinto delle problematiche di una parte dei miei analizzanti.
- Una signora cinquantenne vuol diventare psicologa clinica, sta prendendo una laurea in psicologia, ma sente forti resistenze a cominciare la carriera. E perciò si dispera.
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Un uomo cinquantenne, che ha fatto i mestieri più vari nella vita, dopo aver litigato con un amico si è rinchiuso nella casa della madre morta da tempo, non esce più, non lavora, passa le giornate a esaminare disperatamente urine e feci che mette in bottiglia temendo malattie.
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Un medico trentenne che lavora in un reparto è ossessionato dalle disfunzioni del sistema sanitario italiano, non pensa ad altro che alle angherie di infermiere e amministrativi. Vorrebbe cambiare mestiere, fare lo scrittore, e si dispera.
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Un giovane intellettuale trova che da quando è morto il padre si mette sempre con donne sbagliate, che lo tradiscono con un altro o fanno tutte le civette con qualunque maschio incontrino. E si dispera.
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Una ragazza ventenne ha perso tre anni fa l’adorato padre, e da allora non riesce ad avere un fidanzato che le vada bene. Si sente disperatamente sola.
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Un artista cinquantenne ha avuto due anni fa una storia con una ragazza molto più giovane di lui, che poi è tornata dal fidanzato: si dispera perché da allora non riesce a togliersela dalla testa.
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Un giovane politico che viaggia molto per il suo lavoro ha varie amanti sparse per il mondo, ma dice di amare solo la sua ragazza di Roma con la quale abita, però è incapace di avere rapporti sessuali con lei, non la desidera. Si sente in una situazione disperata.
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Una donna trentenne si è innamorata del proprio analista precedente, questi ha voluto sospendere l’analisi, e lei da allora si dispera.
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Una ragazza di 27 anni è sposata da anni ma è priva di desiderio sessuale nei confronti del marito. Si trova bene solo con la mamma, con cui ha sempre vissuto, ma sa che deve emanciparsi e si dispera.
Potrei continuare con tanti casi passati e presenti.
Ora, quali di questi soggetti potrebbe curare una terapia cognitivista? A me paiono tutti pazienti esistenziali, ma non perché siano privi di sintomi – per me, la sofferenza è il loro sintomo. Che cosa autorizza uno psicoterapista a dire che se uno soffre di una coazione ossessiva a mantenere sempre lucido il proprio tavolo da lavoro allora “ha un sintomo”, mentre un sessantenne che trova insopportabile invecchiare non ha sintomi ma “un problema esistenziale”? Il criterio che seguo è quello dell’ego-distonia, insomma della sofferenza soggettiva. Se l’illustre cognitivista non aveva una cura per me, allora forse non l’aveva per (quasi) nessuno.
Conosco un individuo alcolizzato che si fa cacciare sempre dal lavoro, rompe dopo un po’ sempre con le sue compagne, per cui resta solo e senza soldi… Ebbene, costui non andrebbe da nessun psicoterapeuta di qualsiasi indirizzo nemmeno morto, perché ascrive tutti i suoi problemi al sistema capitalistico in cui viviamo e a una madre vessatoria. Per lui ci vuole un Che Guevara e/o avrebbe dovuto avere una madre diversa, per risolvere i suoi problemi, non certo colloqui con uno strizzacervelli. Quanto al fatto di ubriacarsi spesso, non lo considera affatto un sintomo ma il suo legittimo diritto di godersi la vita. Ha una vita disastrosa, ma non è ego-distonico. Diciamo che è socio-distonico. Gli altri vorrebbero farlo curare, ma lui no.
E conosco una persona che invece ha problemi molto meno gravi del primo, un professore universitario che non riesce però a scrivere e deve prendere ghostwriters per produrre libri… Eppure è giunto alla vetta della carriera accademica, ha una vita familiare serena. Il non riuscire a scrivere è il cruccio che lo rode, per cui ha fatto due analisi… Ha smesso quando un giorno gli ho detto: “Ma tu, hai veramente qualcosa da scrivere?” nel suo campo intellettuale. Mi ha risposto subito candidamente: “Non ho niente da dire”. In effetti, avrebbe preferito fare il bancario, non l’intellettuale accademico. Ma il suo non avere niente da dire era molto ego-distonico. Fino a quando, appunto, ha ammesso che non aveva veramente niente da dire nel suo campo.
4.
Oggi si dice che i soggetti hanno sintomi diversi da quelli di un tempo. “Non ci sono più i bei pazienti di una volta!” si lamentano analisti e psicoterapeuti. Si dice che oggi vanno dagli shrink giovani, soprattutto, con problemi alimentari (anoressia e bulimia), di tossicodipendenza, con disturbi psicosomatici, disforia di genere (i trans)… Tutti sintomi che renderebbero impossibile la psicoanalisi classica, perché ormai i giovani avrebbero perso non solo la prospettiva di un futuro migliore di quello dei genitori ma anche… l’inconscio. Ha tutta l’aria di un cliché, del tipo “non ci sono più mezze stagioni!”
Non so se tutto questo abbia un fondo di verità o se non sia un errore di percezione. Ogni epoca ha avuto le sue patologie alla moda, quelle che attraggono l’attenzione dei media e delle conversazioni al bar. Nella prima metà del XIX° secolo si parlava tantissimo dei sonnambuli e in particolare delle sonnambule. Poi non si parlava d’altro che di isteriche (grazie alle quali Freud inventò la psicoanalisi). Quindi nel XX° secolo si è passati alla schizofrenia, la quale da qualche decennio sembra quasi scomparsa a vantaggio dell’autismo e dei disturbi alimentari… Ma il fatto che ogni epoca metta a fuoco una certa sofferenza spirituale non implica che questa messa a fuoco faccia magicamente sparire tutto il resto; questa messa a fuoco è una tra tante possibili. Si pensi a quelle sequenze di film in cui un personaggio parla o si muove sullo sfondo, poi d’un tratto la macchina da presa cambia il fuoco e appare in primo piano nitidamente un altro personaggio che prima non si vedeva, mentre quello di prima si dissolve nella sfocatura… Non è la realtà a essere cambiata, cambia il nostro modo di focalizzarla. Così, per esempio, 70 anni fa una paziente veniva “letta” come isterica, oggi la si diagnostica come borderline. Da qui l’altro cliché: “le pazienti di Charcot e Freud sono scomparse!” Ma è vero? I clinici portano molte testimonianze, anche video, di archi isterici… A mio modo di vedere, ho tante pazienti isteriche…
Per decenni, soprattutto negli Stati Uniti, la frase che si sentiva dappertutto era “Ormai la psicoanalisi e altre psicoterapie sono finite! Oggi i disordini psichici si curano con gli psicofarmaci!” È vero che negli ultimi decenni la psicofarmacologia si è molto sviluppata. Ma che cosa curano gli psicofarmaci?
Si rivada al campione di casi che ho illustrato più sopra. Ebbene, quali farmaci curerebbero i crucci di queste persone? Ci sono farmaci per curare l’angoscia di aver capito di aver sbagliato strada professionale? Oppure per avere storie amorose fallimentari? Oppure per far tornare il desiderio sessuale nei confronti della donna che si è convinti di amare? (Degli afrodisiaci, dirà l’ingenuo. Il mio analizzante li ha usati, senza risultato.) Ci sono farmaci per farci dimenticare una storia d’amore svanita, un lavoro ospedaliero che appare insopportabile, un sospetto geloso continuo, la difficoltà a staccarsi dalle gonne della madre o l’amore sublime per un padre morto?…
Certamente, se una di queste persone si deprime troppo perché non riesce a uscire dal proprio problema, un antidepressivo come la fluoxetina potrebbe aiutarlo. Se il soggetto soffre di un problema in un quadro ossessivo-compulsivo, allora si può attutire il quadro dandogli del citalopram. Se l’angoscia del medico internista per le disfunzioni del sistema sanitario aumenta troppo, dargli una benzodiazepina (ansiolitico) potrà servire… Ma nessuno di questi farmaci affronta il problema che queste persone portano, essi cambiano solo lo stato emotivo di sfondo in cui il problema, “il sintomo”, la sofferenza, nuota. Ed è quello che gli esseri umani hanno sempre fatto.
Gli umani hanno sempre cercato di alleviare le proprie sofferenze con sostanze psicotrope. A partire da Noè. L’alcool è uno psicofarmaco. Se uno subisce una delusione amorosa, la può mitigare alzando il gomito. Si beve per dimenticare. Ma tutti gli psicofarmaci si prendono, in fondo, per dimenticare… La caffeina funziona da ottimo anti-depressivo, soprattutto la mattina. Gli amerindi usavano le foglie di coca, per esempio, per vincere la noia e la stanchezza. Gli umani hanno sempre cercato sostanze afrodisiache per stimolare appetiti sessuali insufficienti. I nativi americani inventarono il tabacco per controllare l’ansia. La differenza è che le sostanze psicotrope tradizionali davano anche piacere a chi le assumeva, mentre non si può dire lo stesso delle psico-pillole. Mi chiedo anzi perché non si sia pensato di rendere antidepressivi, antipsicotici, ansiolitici… gustosi al palato come leccornie. Sono convinto che questo aumenterebbe il tasso di guarigioni tra chi le assume.
Certo gli psicofarmaci di oggi evitano certi effetti collaterali. Ma ne hanno altri, come è ben noto. Gli psicofarmaci danno anch’essi spesso dipendenza, causano obesità, talvolta disturbi intestinali, impotenza sessuale, secchezza delle fauci, inappetenza, ecc. ecc. Ma di solito il problema singolare del soggetto non è scalfito.
Per esempio, posso prendere molto caffè oppure cocaina oppure antidepressivi perché mi sento depresso e non so perché. Ma potrei essere depresso per ragioni poco appariscenti: perché ad esempio avevo smisurate ambizioni che mi è impossibile soddisfare in vita; perché cercavo una donna perfetta che non ho trovato; perché avrei voluto essere ricco e invece sono povero… I farmaci sono consolazioni.
Insomma, gli psicofarmaci non sostituiscono certe psicoterapie. Del resto sempre più spesso le due cose si sommano. Si fa analisi e si prendono psicofarmaci, in particolare in certe fasi acute. Comunque non sento più “ormai i disordini mentali si curano con i farmaci, non con la psicoterapia”, l’enunciato è passato di moda.
Non c’è nulla di più problematico del dire “questa persona viene curata, questa persona è guarita”… Guarita per chi? E da che cosa?
Credo che un certo vantaggio terapeutico dei trattamenti cognitivisti su altri trattamenti (almeno lo si rilevava in passato, oggi molto meno) derivi dal fatto che il ricercatore sull’efficacia e il terapeuta cognitivista condividano una certa idea di sintomo e di essere malati. Rispetto a questa idea ristretta di sintomo, una terapia cognitivista, proprio perché ristretta, può apparire più efficace.
Prendiamo il caso a cui ho accennato, del medico che si trova malissimo a fare il medico: con l’analisi ha capito di aver scelto questa carriera perché era quella che nel fondo voleva suo padre. Mentre la voglia di scrivere gli venne al liceo avendo avuto un’ottima professoressa di lettere. Ammesso che un giorno seguirà il suo cuore e diventi scrittore, sarà guarito dal sintomo o avrà ceduto a esso? Se il padre si opponesse a questa riconversione del figlio, allora per il padre l’analisi avrà avuto effetti catastrofici. Ma per il figlio, se lui si trovasse realizzato scrivendo, sarebbe una guarigione. Di che cosa deve insomma guarire questo soggetto? Del suo rigetto della professione di medico o del suo non fare lo scrittore?
Parlavo della ragazza che ha problemi a trovare l’amore dopo la morte del padre. Costei per qualche tempo era stata seguita da una dottoressa cognitivo-comportamentale dato che lamentava problemi di squilibri alimentari. La dottoressa ce la metteva tutta a volerla guarire da questa supposta anoressia (che non impedisce però alla nostra di essere grassottella). Finché la paziente non si è stufata: “Non mi piaceva il fatto che volesse guarirmi a tutti i costi!” In effetti, cominciata l’analisi con me, sono emersi ben altri problemi – in particolare, il suo legame amoroso alla figura paterna che le impedisce di costruire veramente una coppia con un uomo. Dell’anoressia non parla più. Non so nemmeno se ora mangi normalmente, dato che non ne parla.
L’errore di tanta psichiatria, cognitivista o meno, è di prendere un sintomo-schermo per il vero sintomo. “Non mi piaceva il fatto che la dottoressa volesse guarirmi a tutti i costi”. In queste poche parole, è detto perché, tutto sommato, preferisco la psicoanalisi.
Note
[1] Oggi la psicologia detta scientifica non è solo sperimentale, ma usa anche, sempre più, le simulazioni su computer e la robotica con IA.
[2] Per una sintesi del dibattito sulla validazione, si veda P. Migone, a cura di, La terapia psicodinamica è efficace? Il dibattito e le evidenze empiriche, FrancoAngeli, 2021.
[3] Per una chiara sintesi delle ricerche di validazione in psicoterapia fino al 2000, rimando a J. Horgan, La mente inviolata, Raffaello Cortina, 2001.
“Questa supposta anoressia (che non impedisce però alla nostra di essere grassottella)” frase veramente vergognosa, nonché specchio del tanto radicato quanto falso pregiudizio per cui i DCA sono strettamente legati a delle determinate forme fisiche. Cose che chiunque lavori con la psiche dovrebbe sapere, a prescindere dal proprio indirizzo.
“Ora, quali di questi soggetti potrebbe curare una terapia cognitivista? A me paiono tutti pazienti esistenziali, ma non perché siano privi di sintomi – per me, la sofferenza è il loro sintomo.”
Suppongo che se l’unica cosa che ha è un martello sia allettante trattare tutto come fosse un chiodo (cit).