di Orsetta Innocenti

 

1. Dall’esame Sullo all’esame della “Buona scuola”

 

Daniele Giglioli ha recentemente ripubblicato per Il Verri il saggio Tema, uscito nel 2001. La Avvertenza che l’autore premette a questa nuova/vecchia uscita mi sembra un utile punto di partenza per riflettere su una delle parti più centrali, e più controverse, in cui si articola l’Esame di stato del secondo ciclo: il colloquio.

 

Per poter comprendere quale sia il legame tra due oggetti appartenenti a classi logiche così distanti – l’Esame di stato appunto e la critica tematica – è utile fare un passo indietro, e ripercorrere la storia del colloquio dai tempi dell’”esame Sullo”, la prova di “maturità” (ancora identificata con questo nome) istituita in aggiornamento della “maturità” Gentile con la L. 5 del 5 aprile 1969.

 

Si trattava, in ogni senso, di un’altra filosofia di esame, che si concludeva con un “giudizio di maturita’ […] integrato  da  un  voto  espresso  da  tutti  i  componenti della commissione ciascuno dei quali puo’ assegnare un voto compreso tra un minimo  di  6  e  un massimo di 10”. Le indicazioni date (per il colloquio, così come per tutte le prove) erano sintetiche e perentorie: “Il  colloquio, nell’ambito dei programmi svolti nello ultimo anno, verte  su  concetti  essenziali di due materie scelte rispettivamente dal candidato e dalla commissione fra quattro che vengono indicate dal Ministero entro il 10 maggio e comprende la discussione sugli elaborati”. Nessun riferimento, coerentemente coi tempi, a null’altro che non fosse lo schema canonico: lo studente studia delle materie, il Ministero sceglie alcune tra quelle materie, lo studente viene interrogato su quelle materie.

 

Nel 1997 la riforma Berlinguer (L. 425/1997) cambia la struttura dell’Esame finale. Scompare il nome di ‘maturità’, sostituito dal più asettico “di stato”; alla visione di un “giudizio integrato da un voto” si sostituisce il certosino e ragionieristico (e matematicamente aberrante) sistema del “punteggio” e dei crediti; si  modifica la commissione (“composta da non piu’ di otto membri, dei quali un 50 per cento interni e il restante 50 per cento esterni all’istituto”), cambia l’articolazione delle prove scritte e anche la struttura del colloquio. La parola “multidisciplinare” fa capolino per la prima volta in 3 righe scarne del comma 3 dell’art. 3: il colloquio “si svolge su argomenti di interesse multidisciplinare attinenti ai programmi e al lavoro didattico dell’ultimo anno di corso”; è prevista la possibilità che il colloquio sia espletato “operando per aree disciplinari” (comma 3 dell’art. 4). La “multidisciplinarietà” veniva così temperata dalla possibilità di operare per aree, un elemento che forniva un correttivo esplicito alla trasversalità dichiarata, riconducendo i famigerati ‘collegamenti’ nell’alveo sicuro delle naturali connessioni, presenti effettivamente al triennio, tra materie affini.

 

Con la riforma Berlinguer sono così poste le premesse per il passaggio dal modello disciplinare a quello multi- (o altra preposizione usata, a torto, nei documenti ministeriali come sinonimo: nel DPR 323/1998, il Regolamento successivo all’emanazione della 425/1997, la preposizione sarà “pluri-”) -disciplinare. Non solo: nel citato DPR 323/1998 fanno la loro comparsa, per la prima volta, alcuni ‘oggetti da colloquio’ destinati a occupare un posto d’onore anche nelle modulazioni di esame successive: “Gli  argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo di un documento, di un progetto o di altra indicazione di cui il candidato individua le componenti culturali, discutendole” (corsivo mio).

 

Per la verità, in deroga fattuale con quanto previsto dalla riforma, di “multi-” e “pluri-” disciplinarietà le successive ordinanze non faranno menzione, reintroducendo, anzi, nell’articolo dedicato allo svolgimento del colloquio, espliciti riferimenti alle discipline singole[1]. Sarà compito del ministro Fioroni intervenire per dare seguito in maniera stabile a quanto previsto da Berlinguer.

 

Non è tanto la L. 1/2007 (che pure esclude il colloquio dalla possibilità di operare per aree disciplinari – un dettaglio non irrilevante) a fare da modello, quanto la relativa OM 26/2007; all’art. 16, comma 2, infatti, si legge: il “colloquio […] deve vertere su argomenti di interesse multidisciplinare proposti al candidato e con riferimento costante e rigoroso ai programmi e al lavoro didattico realizzato nella classe durante l’ultimo anno di corso. Gli argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo, di un documento, di un progetto o di altra questione di cui il candidato individua le componenti culturali, discutendole” (corsivo mio).

 

Così, quando il Dlgs il 62/2017 arriva a proporre la sua riforma (collegata alla L. 107/2015), in realtà si può inserire in un solco parzialmente già tracciato. Cambia ora la struttura, che non inizia più con l’”argomento o con la presentazione di esperienze di ricerca e di progetto, anche in forma multimediale, scelti dal candidato”, ma “propone al candidato di analizzare testi, documenti, esperienze, progetti, problemi per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, la capacita’ di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle per argomentare in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera” (art. 17, comma 9, al plurale; corsivo mio).

 

Come si vede, i cambiamenti introdotti dall’ultima riforma dell’Esame di stato non consistono tanto nell’introduzione di una mal compresa (e dunque malintesa) “multidisciplinarietà” (o “pluri-”), che nel Dlgs 62/2017 neppure è presente (anche se poi acquisirà diritto di tribuna, ed esistenza, nelle successive ordinanze), quanto nell’ennesimo tentativo di mettere a sistema una modulazione che prenda le distanze dal modello dell’esame Sullo: non i “concetti essenziali” delle materie, ma una forma di conversazione nella quale trovano spazio, accanto ai “materiali” di avvio del colloquio, la lingua straniera, il percorso di alternanza scuola-lavoro (poi PCTO), “cittadinanza e costituzione” (poi, con la L. 92/2019, “Educazione civica”). L’avvio del colloquio viene sottratto alla scelta del candidato per diventare appannaggio della commissione di esame. Non cambia, invece, la natura del materiale. Sia l’”argomento” scelto dal candidato, sia il materiale scelto dalla commissione fanno riferimento, per norma, all’attività didattica svolta durante l’anno[2].

 

2. L’esame di Schrödinger

 

E’ utile allora leggere l’OM 205/2019 (la prima del nuovo corso), perché su di essa si sono modulate – anche nelle variazioni “multi-”, “inter-” e “pluri-” disciplinari – le istruzioni relative al colloquio delle ordinanze successive. La commissione, al momento di scegliere i “testi, documenti, esperienze, progetti e problemi” si deve basare, lo si è visto, sull’effettivo lavoro didattico svolto durante l’anno (art. 19, comma 1). Questi materiali (cfr. DLgs 62/2017) servono “per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, nonché la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e metterle in relazione per argomentare in maniera critica e personale, utilizzando anche la lingua straniera” (corsivo mio). E’ poi il comma 2 dello stesso art. 19 a ripresentare, in forma di parafrasi, un secondo accenno all’ideale di “multidisciplinarietà”: “La commissione cura […] il coinvolgimento delle diverse discipline, evitando però una rigida distinzione tra le stesse” (corsivo mio). Infine, “i materiali costituiscono solo spunto di avvio del colloquio, che si sviluppa in una più ampia e distesa trattazione di carattere pluridisciplinare che possa esplicitare al meglio il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale dello studente” (corsivo mio).

 

L’anno dopo, in piena pandemia, ci penserà l’OM 16/2020 a ‘blindare’ il quadro, attraverso l’introduzione di poche ma significative variazioni (recepite in tutte le ordinanze successive). Innanzi tutto, i “materiali” di avvio del colloquio tornano (come al tempo di Berlinguer) singolari: “materiale”, con ciò concentrando sul singolo oggetto di partenza, forzatamente, un tasso assai più alto di competenza scientifica richiesta nel predisporlo. Scompare la parola “pluridisciplinare”; nello stesso tempo, però, nel definire lo scopo del materiale predisposto, la trattazione dei “nodi concettuali” delle diverse discipline (presente nell’OM 205/2019) viene affiancata dalla menzione esplicita ed ex abruptodel loro rapporto interdisciplinare” (OM 16/2020, corsivo mio). Inoltre viene per la prima volta allegata all’OM (contro il parere negativo espresso in proposito dal CSPI[3]), una griglia nazionale di valutazione del colloquio (che verrà mantenuta fino al 2023, nonostante il rientro dalle deroghe pandemiche), nella quale la “pluridisciplinarietà” scomparsa dall’ordinanza rinasce dalle sue stesse ceneri in forma di indicatore[4]. Infine (art. 16, comma 3), archiviata la (ridicola) questione del sorteggio delle buste (proposta in hapax nel 2019), l’OM 16/2020 (e poi tutte le successive) prevede che “la sottocommissione provveda alla predisposizione dei materiali […] prima di ogni giornata di colloquio”.

 

E’ precisamente in questi passaggi che si consuma, a mio avviso, l’analogia tra le (goffe) indicazioni per il colloquio dell’esame e quanto ricordato da Giglioli nella sua Avvertenza a Tema. Dal momento della consegna dei materiali al candidato, ci dicono le ordinanze, il colloquio si sviluppa tenendo in considerazione sia le discipline ma anche i possibili sconfinamenti; tutte devono essere coinvolte in quanto discipline singole, ma anche questo coinvolgimento deve essere “interdisciplinare” (ma “pluridisciplinare” al  momento della valutazione) e non rigido: nei fatti, un impossibile esame di Schrödinger.

 

Perché proporre tutte queste operazioni concettuali, e tutte nello stesso tempo, a partire da una selezione di “materiali” che dovrebbe dare il la allo svolgimento del colloquio stesso, significa chiedere sia ai candidati, sia ai commissari di esame, di possedere una competenza molto avanzata e specifica, come quella di un laureato magistrale in letterature comparate. Non solo, a fianco di una buona competenza sulla critica tematica, il colloquio così come è strutturato presuppone di avere una nozione scientificamente e culturalmente solida del concetto di “convergenze”[5] tra le diverse discipline, così come delle premesse epistemologiche, e delle relative conseguenze, che questi dialoghi tra culture possono portare. Peccato che tutte queste competenze, che sarebbero necessarie, restino lettera morta; mentre, nella realtà delle aule, la predisposizione del “materiale” viene agita artigianalmente, senza consapevolezza, dando luogo a un “pasticciaccio”. E, di conseguenza, il malcapitato “materiale” non potrà che svolgere la funzione che Giglioli ha ben descritto per il concetto di “tema” mal gestito: “una rovinosa regressione al contenutismo più rozzo”, nella quale, una volta venuta meno la capacità “di connetterlo invece strettamente agli altri fattori della comunicazione letteraria, la problematica nozione di autore, lo studio attualmente quasi in disuso dei procedimenti formali, le promesse e le insidie dell’interpretazione”, si finisce per avere a che fare con procedimenti sedimentati e complessi, “senza quel minimo di “delicatezza nell’afferrare” (l’espressione è di Nietzsche) che è necessaria quando si maneggia un giocattolo [il tema, il materiale] tanto pericoloso”. Vengono in mente le parole di Remo Ceserani, che, discutendo uno degli assunti principali di Gardner sull’intelligenza multipla, aveva messo in guardia dall’uso indiscriminato e teoricamente non abbastanza consapevole del concetto di interdisciplinarietà a scuola: “Mi pare che le discipline così come sono istituzionalizzate nei nostri sistemi scolastici siano molto scollate e in arretrato, rispetto al sistema dei saperi che si è venuto formando sulla scena universitaria e culturale. Gardner mette in rapporto ciascuna delle discipline di studio con le competenze che possono essere sviluppate da quelle che lui considera le varie forme di intelligenza, insistendo giustamente sulla necessità di porre l’accento su quelle che chiama “competenze trasversali”, cioè sul gioco interdisciplinare e sulle convergenze fra diverse forme di conoscenza e attività dei soggetti umani. Ma sarei per rovesciare la sua raccomandazione: prima di avviare un lavoro interdisciplinare, bisogna rivedere a fondo il nostro sistema delle discipline”[6].

 

Insomma, in assenza di una ricerca didattica seria, consapevole, ampia, su un argomento così complesso, la scelta del “materiale” non potrà che restare casuale, provvisoria, cursoria, oltre che governata (vanno preparati la mattina stessa) dalla dittatura del Bianconiglio, con il suo orologio[7].

 

3. “Colloquio”, ovvero: “διάλογος”

 

Sic stantibus rebus, non sembra facile uscire dall’impasse. Una soluzione potrebbe essere quella di organizzare dei corsi di formazione seri, a supporto dell’Esame, tenuti da studiosi che abbiano una solida preparazione in Letterature comparate, e rivolti, indistintamente, a tutti i docenti coinvolti. L’apparente restrizione disciplinare (perché costringere docenti di discipline diversissime a seguire un corso di letterature?) troverebbe la sua ragione di apertura nell’insegnamento di un metodo: quello, appunto, della comparazione.

 

Mi pare però che, accanto alla legittimità di questo sogno utopico, una alternativa, più induttiva, possa esistere.

Per spazzare il campo da fraintendimenti e misconcetti, non si pretende dunque che tutti i docenti dell’esame prendano una laurea magistrale in comparatistica (né che la prendano i candidati), ma quanto meno che, utilizzando gli strumenti di una piana e lineare analisi del testo, ci si attenga strictu sensu a quanto prevedono il DLgs 62/2017 e le ordinanze applicative.

Proviamo dunque a fare un elenco di elementi a rischio, verificando, caso per caso, che cosa dice la norma.

 

1) L’incubo del “materiale-rebus”. Il materiale che dà avvio al colloquio dell’esame non può (non è richiesto) essere concepito come un rebus. Non deve essere uno “spunto”, non uno “stimolo” e nemmeno (per forza) una “immagine”. E’ un documento, un testo, un’esperienza, un progetto, un problema. Non è previsto che debba mobilitare a posteriori le facoltà improvvisatrici (o, viceversa, pre-ordinatrici) dei candidati. Dunque non si ‘inventa’ sulla base della fantasia della commissione o di ciò che il materiale stesso potrebbe suscitare in direzioni più o meno prevedibili, ma si costruisce esclusivamente a partire da quanto è stato svolto e che deve essere contenuto nel documento dell’Esame di stato (e  nel Curriculum dello studente). Per fare un esempio concreto: se intendo proporre come avvio un materiale che riporti agli argomenti svolti di “sezioni di sterro, riporto o mezzacosta”, non proporrò l’immagine di una matita rossa e di una matita gialla, nella convinzione (probabilmente fondata) che l’aspirante geometra riconosca in questi gli strumenti con cui si colorano le diverse sezioni, ma gli metterò davanti un’immagine di una sezione di sterro, o di riporto, o di mezzacosta. L’ordinanza non chiede, in alcun modo, di essere evocativi, nella scelta dei materiali; la commissione non sta approntando un corso di scrittura creativa, ma un esame: quanto più si riesce a essere referenziali e descrittivi, quanto più si rispetterà la richiesta (normata) di attenersi, nella scelta, al percorso didattico svolto durante l’anno. Allo stesso modo, è bene avere sempre a mente la differenza tra materiale che dà conto di qualcosa effettivamente svolto e materiale meramente “esornativo”, posto a semplice ‘decoro’ di un percorso didattico. Anche qui, con un esempio: se ho fatto vedere ai miei studenti della provincia di Pisa una immagine della pineta di Marina per far comprendere che la Pioggia nel pineto è ambientata in luoghi che conoscono, quella foto non è un materiale svolto, ma un artificio esornativo per rendere la mia lezione più coinvolgente. Dunque, se voglio suggerire al candidato di partire da quella poesia di D’Annunzio, quello che devo fare è proporre come materiale da analizzare, molto semplicemente, qualche strofa della Pioggia nel pineto.

 

2) Il modello del “bersaglio”. Le ordinanze non dicono che, dal materiale di partenza, si deve collegare tutto. Non si prevede dunque di giocare per 30-40 minuti a una versione scolastica del “Bersaglio” della “Settimana enigmistica”, e nemmeno di mettere in scena il modello delle “libere associazioni” di una seduta psicoanalitica (dei commissari prima ancora che dei candidati), con il risultato che a essere premiato non è il rigore del confronto tra discipline da parte del candidato (nei margini in cui questo è umanamente possibile, rispetto alle sue effettive competenze), ma solo la capacità di riuscire a fare una delle seguenti due cose: a) indovinare, nel proprio percorso di costruzione dei ‘collegamenti’, la “logica simmetrica”[8] che ha seguito la commissione nel predisporre il materiale; b) “stupire” la commissione con la rutilante ‘originalità’ della propria logica simmetrica (lasciando alla commissione stessa l’esclusivo e idiosincratico compito di stabilire ciò che è ‘originale’).

 

Il colloquio richiede, viceversa, al candidato di organizzare un discorso fondato, riconoscendo nel materiale la possibilità di ricostruire l’epistemologia complessiva del proprio percorso di studi: una cosa (lo so bene) difficilissima, ma che potrebbe almeno in parte essere preparata sottolineando quel lavoro di metacognizione che ogni docente mette in pratica durante il regolare svolgimento della sua attività didattica. In questa prospettiva, mi pare significativo che la preferenza delle commissioni sia data in maniera quasi esclusiva a una tipologia di materiale, quella del “testo”, non importa se visuale o verbale. Il “testo”, specie nella sua forma visuale, “immagine”, consente infatti di applicare nel modo più scivoloso il misconcetto del “bersaglio”, unito a quello del collegamento per evocazione. Concentrarsi anche sulle altre tipologie proposte consentirebbe di dare conto in maniera più accurata del PECUP: un’esperienza (intesa nel senso galileiano e scientifico), un problema, un progetto – sono tutti “oggetti” per loro natura comprensivi, relazionali, che incorniciano, dei quali dovrebbe essere presente ampia traccia in ogni documento di consiglio di classe; e che consentono di porre in relazione le metodologie diverse e i percorsi didattici effettivamente agiti nel corso dell’anno scolastico. In questo modo il confronto con le discipline non collegabili da ‘bersaglio’, potrebbe avvenire sulla base di una riflessione metodologica, per analogia e per differenza, senza che su tutti i colloqui, di tutti i candidati, di tutte le commissioni della Repubblica si sparga, lento e costante, un uniformante, plasticoso, omologante sapore di glutammato.

 

3) Il mito del ‘collegamento radiale’. Fa riferimento alla convinzione, radicata in molte commissioni, che ‘collegare’ le singole discipline tutte a partire dal materiale di partenza (tornando dunque sempre a quel primo “oggetto”) sia metodologicamente più fondato che creare collegamenti lineari o ‘di contesto’. In realtà un “collegamento radiale” (o, meglio, autenticamente tematico) è qualcosa che non solo di norma esula dalle possibilità metodologiche di commissioni e candidati (a meno di non ridurre il ‘collegamento’ a mero contenuto estemporaneo, privo di ogni solidità culturale e scientifica, come ricorda Giglioli), ma spesso è impossibile tout court, perché la tematologia non si improvvisa, e certi argomenti, banalmente, non si collegano tra loro se non per associazioni ‘a sentimento’. Una apertura di contesto, uno spostamento lineare, di passaggio in passaggio, un confronto metodologico (per fare alcuni esempi) risultano più alla portata del candidato ma, soprattutto, molto più accettabili culturalmente, senza ricorrere all’aberrazione di percorsi come La cipolla da Boccaccio all’aceto Ponti, a partire dall’immagine dell’ortaggio e poi con capriole che spaziano da letteratura italiana, economia, storia, diritto, cucina e sala bar.

 

4) La consegna del silenzio. Di tutti i misconcetti legati al colloquio, questo è forse quello più radicato: la convinzione che l’impostazione del colloquio ex Dlgs 62/2017 preveda, tassativo, l’obbligo, da parte dei commissari, durante l’orale, di non intervenire mai e di non fare nessun tipo di domande. E’ curioso interrogarsi sulle origini di questo tabù che si presenta come falso non una, ma due volte. La prima è scritta nella storia dell’Esame dal 1969 al 2017: il superamento dell’impostazione ancora ‘gentiliana’ dell’esame Sullo avviene con Berlinguer, nel 1997. Che la tendenza all’”interrogazione bastarda” sia restata invalsa nella prassi fino al 2017 è probabilmente un dato di fatto (anche se credo meno diffuso di quanto l’aneddotica sull’esame non abbia ricostruito), e fa agio su molte ragioni (prima tra tutte la tendenza tutta italiana a considerare i lavori autonomi, svolti in ambito domestico dagli studenti con revisione docente, poco più che, quando va bene, dei divertissement invalutabili); che questo fosse previsto dalla normativa di riferimento resta, invece, nulla più di una fake news. E’ vero invece che la trouvaille del “materiale di partenza” è riuscita a ottenere, di imperio, quello che migliaia di ispettori ministeriali e presidenti di commissioni non erano riusciti a ottenere in vent’anni di dialettica. Di conseguenza (ed ecco il secondo falso), dall’Esame 2019 altrettante migliaia di commissari si sono risvegliati con in testa il “veto a chiedere”, pronti a limitare le loro interazioni con gli studenti a “Buon giorno”, “Arrivederci”, “Firma qui”, “Che cosa vuoi fare da grande”.

 

Per decostruire questo secondo misconcetto, è sufficiente giocare un po’ con significati e etimologie. La parola “colloquio” deriva infatti (come recita il vocabolario Treccani) “dal latino “colloquium”, ed è derivata di collŏqui «parlare insieme», composto di con- e loqui «parlare»]”. Il suo primo significato è “Abboccamento, conversazione tra due persone o più (ma sempre poche), di solito […] su argomenti di qualche importanza”. La parola è sinonimo di “dialogo”, per la quale sempre il vocabolario Treccani riporta: “[dal lat. dialŏgus, gr. διάλογος, der. di διαλέγομαι «conversare, discorrere»] (pl. -ghi). – 1. a. Discorso, colloquio fra due o più persone: prendere parte al d.; ebbero un d. […] stesso con opportune parole introduttive”.

 

Scegliere di non intervenire durante l’orale del candidato, di non “conversare” con lui in maniera costruttiva e dialettica, si qualifica come un atto omissivo. Allo studente che sostiene l’esame non è richiesto un monologo, ma uno scambio verbale, attivo, partecipe – e che, per essere tale, non può che prevedere, anche, delle domande –  con i docenti della sua commissione (che quel colloquio, da OM, lo devono “condurre”). Che questo scambio non debba assomigliare a Rischiatutto è un’altra questione, sicuramente rilevante, ma che per essere risolta non può ridurre il candidato a prigioniero impotente, per quasi un’ora di orologio, delle sue stesse parole.

 

4. Uno sguardo al futuro

 

Questo percorso di ricostruzione termina, idealmente, con i due punti. La mia analisi traccia infatti una lunga pars destruens, e una possibile proposta di contenimento dei danni. Manca, e ne sono consapevole, una compiuta pars construens per porre ordine in un esame che, così come è, completamente, non funziona. Non è questa la sede per formularne una, in coda a uno scritto già tanto lungo. Mi limito a indicare, per elenco, alcune possibili direzioni di miglioramento: riflettere sulla possibilità di abolire l’esame tout court; avviare una riflessione scientifica seria sui concetti di “multi-”, “inter-” e “pluri-” disciplinarietà, prima di proporne la loro trattazione, con preoccupante superficialità semantica e (quindi) scientifica, all’interno dell’esame finale del II ciclo[9]; recuperare dalla sperimentazione del tempo pandemico il concetto di “elaborato” (da discutere poi al colloquio, ma in aggiunta alle prove scritte) su materie specifiche (cui lavorare a partire dal secondo periodo didattico, sotto la supervisione di uno o più docenti, secondo il principio, si parva licet, della stesura della tesi di laurea); ripristinare, in questa cornice, i commissari esterni con un solo membro interno (non di materia, ma di classe) – una misura che può permettere, a cascata, l’indicazione a livello nazionale di tutte le materie oggetto di esame per ogni singolo indirizzo (cosa che, per motivi oggettivi, con la commissione mista non è possibile garantire, e che permetterebbe una maggiore uniformità di rispetto del PECUP); ripristinare la possibilità di divisione per aree nel colloquio; abolire la griglia di valutazione nazionale del colloquio, inserita nel 2020 con una motivazione dichiaratamente legata allo svolgimento dell’esame in deroga, con la solo prova orale, a causa dell’emergenza pandemica[10]).

 

Nell’attesa che questi o altri correttivi possano essere discussi, è però importante che ricordiamo che uno dei modi migliori per ridurre la follia percepita nello svolgimento del colloquio è quello di chiedersi, carte alla mano, se quello che stiamo facendo sia davvero previsto. Una buona competenza in analisi del testo potrebbe rivelarsi una buona soluzione per garantire, pur nel contesto delle sue molte inadeguatezze, un colloquio (e dunque anche un esame) meno astruso e di migliore soddisfazione per tutti: commissioni e candidati.

 

Note

 

[1] Cfr., per esempio, l’art. 16 dell’OM 38/1999.

[2] E’ sufficiente leggere i riferimenti espliciti in questo senso presenti sia nell’OM 38/1999 sia nella OM 205/2019.

[3] Il parere, archiviato alla data 18/05/2020, si può leggere qui: https://www.miur.gov.it/archivio-pareri.

[4] Alle vette del “pasticciaccio” linguistico, e perciò semantico, e perciò scientifico in materia di trasversalità delle discipline il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) arriva, in una apoteosi di presunti sinonimi, nella Nota prot. n. 2860 del 30/12/2022, dove, in 12 righe 12 delle quali 8 di citazione letterale del DLgs 62/2017, riesce, a proposito del colloquio, a definirlo prima “multi e interdisciplinare” e poi “pluridisciplinare”. Importanti riflessioni a proposito dei “presupposti mancanti” che stanno alla base della costruzione didattica del colloquio dell’esame si possono leggere in Matteo Zenoni, L’anguilla e Tesla: riflessioni sul colloquio dell’Esame di Stato, in La letteratura e noi, 19/06/2023: https://laletteraturaenoi.it/2023/06/19/languilla-e-tesla-riflessioni-sul-colloquio-dellesame-di-stato/?fbclid=IwAR0TPoTryfsHPFps1KbkZthQNeWfXG3maXA09qFo7bKM3SiQOuVXKL-6T1s (u.c. 10/08/2023).

[5] Uso il termine nel significato proposto da Remo Ceserani nel suo saggio: Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, Milano, Bruno Mondadori, 2010.

[6] R. Ceserani, La crisi della scuola e il nuovo sistema dei saperi, in Per una letteratura delle competenze, a cura di Natascia Tonelli, in «Quaderni della Ricerca», 06, Loescher, 2013, p. 62.

[7] Cfr. su questo Orsetta Innocenti, “Murdering the Innocents”. Insegnare letteratura nella secondaria di II grado tra norme, prassi e libro dei sogni, in Le costanti e le varianti. Letteratura e lunga durata, a cura di Guido Mazzoni, Simona Micali, Pierluigi Pellini. Niccolò Scaffai, Matteo Tasca, Del Vecchio Editore, Bracciano, 2020,  p. 634.

[8] Intendo il termine nell’accezione che ne ha dato Ignacio Matte Blanco, di logica dell’inconscio. Cfr. I Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti : saggio sulla bi-logica (1975), Torino, Einaudi, 1981.

[9] Mi piace citare, tra le tante riflessioni serie che iniziano a circolare in merito, le Conclusioni tratte da Stefano Rossetti a valle del primo esame modello “Buona scuola”, nel 2019 in Alberto Bertino – Claudia Correggi – Stefano Rossetti, Il Mistero delle Tre Buste / 2 A colloquio, in La letteratura e noi, 04/07/2019: https://laletteraturaenoi.it/2019/07/04/il-mistero-delle-tre-buste-2-a-colloquio/ (u.c. 10/08/2029).

[10] Cfr. l’OM 10/2020.

2 thoughts on “Quando un comparatista muore…: ancora sul colloquio (ma non solo) dell’Esame di stato

  1. Grazie per questo pezzo che fa piazza pulita di tante stupidaggini e cattive prassi ormai invalsi e mette sulla questione un chiaro punto fermo (normativo, scientifico, letterario, culturale, etico).

  2. ” Uno dei modi migliori per ridurre la follia percepita nello svolgimento del colloquio è quello di chiedersi, carte alla mano, se quello che stiamo facendo sia davvero previsto” : questa conclusione indica ai docenti una pratica possibile non solo per ostacolare l’ idiota banalizzazione ‘interdisciplinare’ dell’esame di Stato ma anche per reagire all’inerzia e all’assuefazione, in tutti gli ambiti della formazione, scolastica e universitaria, oggi. Grazie!

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