di Alberto Cellotto

 

[Oggi alle 18, presso la Libreria Lovat di Villorba (TV), Francesco Targhetta e l’autore presenteranno Appendice, il nuovo libro di Alberto Cellotto (Ronzani Editore). Ne pubblichiamo alcuni estratti].

 

VENDETTA

 

È conclamato che inventiamo scritture per la gloria e poco altro. Sempre meno si scrive per campare, e oltre al denaro si pensa per forza alla gloria. Davvero poco altro c’entra in questa secolare prostituzione della scrittura: la memoria a volte, quella può c’entrare, ma non fandonie come l’esprimersi. A volte scriviamo per vendetta, piuttosto. Sono tutte faccende che mi sono chiarito chiacchierando col custode, la prima sera e anche altre volte, sebbene con lui non abbia mai sfiorato l’argomento dei libri.

 

I medici del migliore ospedale dell’Alberta sono stati franchi e mi hanno lasciato intendere che ben che andasse mi restava circa un anno. Mercoledì 25 aprile. Va da sé che non si sono espressi così, ma con qualche giro di frase: nessuna sentenza nessuna speranza. Prima che mi imbottiscano di morfina e tutto intontito creda di avere ancora qualche possibilità di scamparla, ho deciso di scrivere, ma ancora non so bene cosa. Ho osservato a lungo gli altri che scrivono saggi, poesie, sceneggiature senza mai provare un desiderio di imitazione. Ora, secondo il più scontato dei copioni, mi metto a scrivere al limite di vita, con la differenza che non c’è alcun testamento e alcuna eredità. Ho la presunzione che da questo momento scrittura e vita diventeranno rette parallele che però incroceranno. Del resto, se c’è un rimpianto e uno solo, è sapere che le geometrie sono tante e non avere fatto nulla per uscire da quella di Euclide.

 

GOMMAPIUMA

 

Più volte ho nominato il custode, ho iniziato scrivendo proprio di lui. Questo signore ha lavorato quasi vent’anni in una ditta che macina e produce agglomerati venduti all’industria calzaturiera, soprattutto per le imbottiture delle tomaie. La sera in cui ci siamo incontrati, al bar da Paolo mi ha subito raccontato che era stanco di avere sotto gli occhi fogli marmorizzati di gommapiuma, qualcosa che nel pieno sterile folclorismo ambientalista odierno verrebbe proposto come materiale riciclato e pertanto nobile, virtuoso e costoso, ma che per una vita si è venduto con pudore, in canali a basso costo e paralleli rispetto a quelli in cui passava il materiale genuino più caro. Sembrava volesse provocare e sondare da subito il mio pensiero sull’ambiente, ma ascoltai e basta. Così è riuscito a sfruttare una vecchia conoscenza dentro il comune per entrare come custode e operaio assai generico, un jolly in pratica. Mi ha spiegato che il custode cimiteriale non esiste più, è una figura scomparsa e si parla infatti di servizi cimiteriali. Ma in un comune piccolo è lui quello che gira con le chiavi per aprire e chiudere, manutenere, e ovvio che sia a libro paga del comune anche per altri incarichi. Non so molto di più. Ho scoperto che qui queste situazioni si chiamano scivoli prima della pensione e lui è ormai arrivato alla fine della scivolata. Sempre quella sera mi ha accompagnato al semaforo dove le nostre strade si dividevano, lì dalla casona vuota a quattro piani, simile a tante altre abitazioni mezzadrili in questa distesa di pianura irata col mondo. Cambiando discorso, guardando entrambi in direzione di quella casa, gli dissi che da quando sono tornato ho l’impressione che si provi a riesumare in modo aberrante il modello delle colonie agricole, magari ricorrendo alla forza lavoro di cooperative benpensanti ai limiti del legale. Vorrei fare delle indagini ma non ho né il tempo né amici che mi possano aiutare. L’afa era tale che si poteva ammirare l’effetto di liquido sull’asfalto, quello che da ragazzo apprezzavo in televisione durante i gran premi di Formula 1 guardati al bar, mangiando sempre tre ghiaccioli all’anice nell’odore di sigarette.

 

GLORIA

 

Una domanda potrebbe essere proprio questa: qual è quella cosa che si scrive da sola? Non di certo i fumosi flussi di coscienza che hanno abbagliato mezzo mondo e anche me, tanti anni fa. Una scrittura deve stare nel flusso ma non può essere flusso, vi si oppone come una croda in un torrente, o lo accompagna per un pezzo. Deve continuare anche quando termina. La scrittura interrompe sempre una vita. Se quello che si può leggere sinora è parso un flusso o qualcosa inerente alla mia coscienza, la preghiera è di fermarsi qua.

 

Nemmeno la scrittura automatica, che qualcuno non molto tempo fa ha fatto finta di aver inventato, si scrive da sola. Tutti purtroppo dimenticano la gloria. Magari ce l’avranno pure presente quelli che provano a scrivere per l’ambizione ambigua, tuttavia ce la scordiamo sempre in modo inspiegabile per la strada, viziando ogni possibile ragionamento sullo scrivere. Il suicidio è stato una cassa di risonanza per alcuni autori, efficace ai loro fini (ho scritto alcuni scrittori, non tutti gli scrittori suicidi). La negazione del futuro insita in ogni suicidio per molti scrittori diventa invece di colpo un investimento sul tempo e sulla gloria a venire. In vita ci si accontenta di qualche scarica di notorietà e consenso, ma la gloria è un’altra busta chiusa e lo sanno bene quegli editori che pescano per lo più tra i cimiteri degli autori.

 

Ho sempre trovato istruttivo fra l’altro osservare le bancarelle dei libri fuori catalogo: alcuni lo sono con merito, mentre altre opere sono fuori catalogo perché la gloria che proteggono sta percorrendo un rivolo deviato, non certo perché sfuggono alle maglie di quella stronzata di costrutto che fu il canone letterario. Uso fu dal momento che confido che il canone, dopo cotanta fioritura, sia andato per sempre a farsi fottere.

 

PAESE

 

L’episodio con il custode è il primo di una serie che sembra stia lì a dimostrare che sono ritornato per ascoltare le confessioni di gente del paese. Non lo faccio in un confessionale deputato, ma dove capita. Ora fatico io stesso a credere a questa conclusione che traggo a posteriori, e poi non so nemmeno che faccia ho davanti a chi mi parla, visto che da parecchie settimane evito gli specchi. Si vede che il fatto che sia qui da solo dopo essere a lungo mancato e che non abbia più legami o affetti darà loro quella fiducia e quello spunto necessari per avvicinarmi. Non lo so, ma me lo domando. Poi c’è questa voce che circola sulla morte di mia madre che li metterà tutti sull’attenti e speranzosi di strappare la verità, come se questa stesse attaccata a una superficie e servisse una lacerazione per portarsela a casa nella pace dei sensi e del cervello: c’è chi dice si sia suicidata con il gas di scarico, ma la versione ufficiale è un infarto, evento che era più che probabile nella sua condizione. In quei giorni stavo davvero bene e avevo deciso di tornare sul Carso e a Trieste, aggiungendo anche una puntata a Radovljica a salutare una compagna di università che aveva aperto una gostilna dopo un ventennio trascorso in Africa e Asia, nella cooperazione internazionale. Mi aveva scritto su Twitter il giorno prima della diagnosi dei medici canadesi, eravamo rimasti in contatto blando con la vaga idea di ritrovarsi un giorno, come si fa senza convinzione in certe situazioni che poi sfumano. A lei non avevo detto niente della malattia, di cui sanno davvero in pochi per ora.

 

Tornando alla morte di mia madre, è lampante che una voce che circola in un paese dove solo le rogne, i debiti e le disgrazie interessano è una verità: la doxa preme, incalza, ha un suo valore intrinseco e non ha bisogno di dimostrazioni o di un foglio firmato del medico legale. In ultima battuta si muore sempre per un arresto cardiocircolatorio, anche dopo un incidente o un suicidio, e lo so fin troppo bene. Ci tornerò su questo e se avrò aggiunto un cuneo tra verità e opinioni, tra incudine e martello, avrò quell’impressione ingannevole e al fondo così bastarda di un lavoro fatto bene.

 

ALLEGORIA

 

Non so quand’è stata l’ultima volta in cui sono entrato in un sito porno. Posso dire con certezza che era in Canada e prima della diagnosi, ma non arrivo a ricordare più di questo. In seguito, il pensiero della malattia ha azzerato anche questo impulso. Poco fa usavo la connessione dati del telefono per navigare col PC e sono entrato in un sito che non visitavo da tempo, stupendomi del livello di raffinamento delle categorie. Non resta che ammettere che il porno fa scuola in tutto, anche nei settori industriali e nei mondi dove meno siamo disposti a vederlo: la categorizzazione, il popolamento di un database secondo certi criteri, la profilazione, i raggruppamenti, le affinità: l’unica enciclopedia possibile, quella dei gusti. Talvolta sembra conoscere i miei gusti più di me stesso mentre altre volte, se ho voglia di approfondire e ignorare i percorsi che un sito vuole indurmi a fare, arrivo a quel video inatteso che mi eccita senza che io sia disposto ad ammetterlo. Intendo senza che io sia disposto ad ammetterlo a priori. Sia un’inquadratura nuova, persino originale, larghissima, la luce di quella stanza o di quel posto all’aperto, un’uniforme indossata con la spensieratezza che la fa diventare un vestito. Un posto all’aperto: chissà se c’entrano i ricordi della prima ragazza con cui a sedici anni mi incontravo in un parco pubblico defilato e poco frequentato per baciarci tutta la pelle esposta e masturbarci in piedi davanti alle poche anatre dello stagno.

 

Il porno è il contrario di una scrittura. Scrivere è come difendersi da un bel viso che ti fa capitolare, cadere in un abisso di nudità, non capire più niente e cercare di interrogarsi sul voltarsi. La scrittura, quando mi interessa, è il contrario della comunicazione, così come non comunicano più nulla due corpi nudi stesi. Nel porno invece non si cade, non ci si difende da nulla, non ci si volta ma si guarda dritti unicamente, è tutto comprensibile, prensile, intatto. Il porno è l’allegoria perfetta del nostro asservimento alla comunicazione, con la quale ha in comune lo scopo dell’eccitazione.

 

Perché tutto questo? Non lo so. Forse perché noto che gli scrittori che tentano la gloria oggi sono assimilabili, proprio loro e per buona parte, a una fiacca squadra di registi soft-porno che ingrossano le fila già folte dei ligi benpensanti. Più d’uno si atteggia a bussola di un pensiero fin troppo pacificato con sé stesso e nel frattempo cucina, dispensa messaggi che, più che sentiti e convinti, suonano come leccate di culo all’altro sesso, cambia pannolini, scrive libri e magari illustra opere, presidia i social fino al commento più annidato. Il tripudio del multitasking. Chapeau!

Ho guardato a lungo una foto, un volto in bianco e nero di una persona incontrata solo una volta e ho avviato un paio di volte un video che, secondo il titolo, risulta girato a Caracas. Ho chiuso tutta l’elettronica che avevo intorno, spento la luce e montando immagini, stanze, facce e capelli ho fatto partire la mano. Mai in solitudine ho goduto così poco.

 

CAPELLI

 

Non ci voleva. Ho sempre dato ragione a un amico di Annelise: innamorarsi è un buon viatico per provare a non ammalarsi, ma cosa te ne fai quando malato sei già? Fanculo a me. Però adesso non ho più le mezze giornate di paura.

Barbara, nonostante la canzone di Piero Ciampi e il suo amore scalzo e quell’arrangiamento, è un nome che non mi aveva mai attratto, perché ne avevo conosciuta solo una e bionda e sgraziata. Lei ha capito, non è ingenua o una finta tonta. Vorrei piacerle, vorrei che ci fosse per noi un pomeriggio di penombra in una stanza disadorna a seguire le fessure di luce sulle nostre mani e sugli zigomi, i baci che l’ombra crea sulla pelle, un vaso stretto con una calla di fosso su uno scrittoio impolverato e una sera dove non ci resti altro che cucinare. Lei ha capito, ma pure lei continua, prosegue. La guardo mentre registra i prestiti e a volte ho l’allucinazione che sia una statua acefala, soprattutto se mi appare da dietro mentre giro tra gli scaffali metallici. E ogni giorno aggiunge qualcosa al suo repertorio dal quale non so difendermi o proteggermi. Parliamo quel poco che riusciamo, senza superare la soglia del nero, a volte mi scrive, ma sa che è tutto vento. Le mie ossa sono stanche e incominciano a riempirsi d’aria. Non ci siamo mai toccati, nemmeno una stretta di mano al primo incontro, eppure quando penso a quella stanza disadorna dove vorrei trascorre un pomeriggio sento che non abbiamo nulla da dirci e che il silenzio avvicina le dita ai capelli.

 

Il tempo minimo trascorso vicino a lei è stato un acclimatarsi alla morte, la scalfittura di un epitaffio di graduale perdita del cosmo. Non c’è rabbia a intendere con mente esatta e soltanto adesso che tutta la vita è stata preda paralitica di paure sempre nuove. E muore anche Barbara, giovane e bella, dinanzi alla parola che non dice altro che la nostra morte.

(Troglodita: è il nuovo insulto che mi ha fatto compagnia questa mattina, ripetuto tra le stanze, che mi sono rivolto anche masticando il pranzo).

 

[Immagine: particolare della copertina].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *