di Ugo Fracassa
Princesa, il libro di Fernanda Farías de Albuquerque e Maurizio Iannelli, pubblicato nel 1994 dalla cooperativa editoriale Sensibili alle foglie e reso celebre dalla trascrizione in forma di canzone realizzata due anni dopo da Fabrizio De André, era nato dall’incontro, nel carcere romano di Rebibbia, tra Giovanni Tamponi, condannato per una rapina finita nel sangue, e la protagonista finita in cella per tentato omicidio. In un secondo momento Maurizio Iannelli, a quel tempo detenuto nel reparto G8 dei “politici”, avrebbe riordinato gli appunti accumulati nella disagevole comunicazione a tre innescatasi tra le mura di Rebibbia, per trarne il libro che compirà a breve i suoi primi 40 anni.
Il racconto di Princesa però era destinato a continuare e, dopo un paio di documentari televisivi negli anni Novanta e una versione cinematografica del 2001, oggi approda finalmente a teatro, per la regia di Fabrizio Coniglio e l’interpretazione di Vladimir Luxuria. La vocazione performativa del personaggio di Princesa, del resto, emergeva con forza dal racconto, vero e proprio exemplum letterario delle tesi di Judith Butler sul “corpo di genere” come corpo “performativo”: “Batto il marciapiede con altre venti trenta transessuali. Sono desiderata. Mi esibisco al femminile. Fernanda, ed è spettacolo”.
Per dare conto della pluriennale vicenda intersemiotica del testo di Farías e Iannelli è stato realizzato il sito princesa20, messo in linea nel 2014 a venti anni dalla prima edizione. Nel sito, che riproduce integralmente l’edizione del 1994, è anche possibile consultare i manoscritti e sperimentare la dimensione transmediale di uno dei primi esemplari delle cosiddette “scritture migranti”. A partire da quest’anno, grazie alla pubblicazione del libro presso l’editore marsigliese Héliotropismes, il sito è navigabile in versione bilingue, italiano e francese.
Abbiamo chiesto a Fabrizio Coniglio, autore e regista della versione teatrale del romanzo, di parlarci di questo progetto che ha preso le mosse dall’incontro con i due protagonisti della vicenda, unici testimoni diretti della storia di Princesa dopo la scomparsa di Fernanda nel 2000.
Il mio interesse per Princesa è nato, indipendentemente da qualsiasi progetto teatrale, con la lettura del libro, incontrato casualmente ormai diversi anni fa. Una volta concepita l’idea di una trasposizione scenica, ho incontrato Maurizio Iannelli. Gli dissi, innanzitutto – io lo vorrei ambientare in carcere. Lui mi rispose – guarda che in carcere succedono tante cose. Così mi parlò del suo periodo a Rebibbia, di cosa fosse questo braccio della prigione che ospitava transessuali. Mi disse poi di aver raccolto la propria corrispondenza con Fernanda, oltre a quella, preziosissima ai fini dello spettacolo, tra lei e Giovanni Tamponi, il detenuto sardo che per primo strinse amicizia con Fernanda e che, in qualche modo le salvò la vita indicandole la strada della scrittura. Giovanni era per me il tassello mancante.
Nelle “Brevi note di contesto” che aprono il libro, Iannelli descriveva se stesso e gli altri due protagonisti di quella avventura letteraria come “tre funamboli” della scrittura, ostinatamente portata avanti in condizioni difficili tra le mura del carcere, ma il nome di Giovanni Tamponi non compare in copertina e la sua è una voce che andava recuperata.
Sì, ma Maurizio non aveva il suo numero. Fortunatamente, in occasione di una tournée sarda, sono infine riuscito a procurarmelo e a mettermi in contatto con lui. Per Princesa, una delle prime date d’autunno sarà proprio in Sardegna, vicino Cagliari, e ci terrei tanto che Giovanni potesse essere presente. Da lui ho saputo, della storia detentiva di Fernanda, molto più di quanto non sia riportato nel libro. La prima e quasi unica battuta che rivolgo in scena, nei panni di Giovanni, a Fernanda, mi è stata riferita da lui personalmente in occasione del nostro incontro. Si tratta del dialogo relativo allo scambio di abiti femminili attraverso le sbarre, episodio realmente accaduto ma non ripreso da Iannelli. Allo stesso modo, nel libro non si parla del tentativo di suicidio in cella, col gas di un fornelletto che Fernanda aveva il permesso di utilizzare. Anche alla sieropositività, che le sarebbe stata diagnosticata a Rebibbia, il testo del ‘94 accenna appena. Io, invece, ho unito tutti questi elementi, fino all’ultimo abbraccio, che gli spettatori vedranno quasi al termine della pièce, realmente avvenuto nell’unico incontro che Giovanni ebbe, con Fernanda, fuori dal carcere. Giovanni rappresenta per me l’ascolto che ha salvato Princesa, per questa ragione la sua presenza, anche se quasi muta e sempre al margine della scena, è decisiva. Solo in due casi ascoltiamo la voce di Giovanni: nella scena del dono dei vestiti, di cui ti parlavo poco fa, e prima dell’uscita di scena della protagonista, ovvero di una morte di cui non sappiamo molto, ma che è stata registrata come suicidio avvenuto in una località nella provincia di Ancona, dove Fernanda aveva ripreso a prostituirsi.
E con Maurizio?
L’incontro con Maurizio è stato molto coinvolgente. Mi ha promesso che verrà a vedere lo spettacolo in Calabria. Fin da subito ha voluto garantirmi la massima libertà rispetto al testo pubblicato nel 1994, incoraggiandomi con queste parole – ruba dal libro quello che ti serve, ma sentiti libero di modificare, integrare, reinventare. Mi sono avvalso di questa libertà, ma ho anche voluto che traccia della letterarietà del testo transitasse nello spettacolo per bocca di Vladimir Luxuria che interpreta Princesa. Anche a costo di provocare un effetto straniante per chi ascolta certe frasi dalla bocca di un viado – così chiamavamo le transessuali brasiliane nei primi anni Novanta – che stava imparando l’italiano sulle strade della prostituzione e poi, in carcere, da un compagno di detenzione il cui parlato era fortemente marcato dall’inflessione sarda, ho deciso di trasferire sulla scena l’eco delle parole che si leggono nel libro. Lo spettacolo conosce anche momenti lirici, come nel finale, quando Princesa paragona se stessa alle foglie del bosco dove andrà a morire, in un paesaggio naturale che può evocare quello del Nordeste brasiliano in cui era nata. Ma qui, appunto, nell’escogitare la similitudine mi sono avvalso di quella libertà creativa auspicata da Iannelli.
Il finale è uno dei luoghi critici nelle varie rielaborazioni della storia di Princesa, a partire dal libro scritto da Iannelli con Fernanda e dalla canzone che, soltanto un paio di anni dopo, De André avrebbe inciso come prima traccia del suo ultimo disco, fino alle due versioni documentaristiche per la televisione, di Carlo Conversi e Stefano Consiglio, per finire con quella cinematografica firmata da Henrique Goldman, regista brasiliano già aiuto di Ken Loach. Nel libro, come pure nei versi della canzone e nel film del 2001, infatti, la parentesi detentiva è stralciata, mentre torna ad essere centrale nella tua regia, come necessariamente era stato per i due documentari girati a Rebibbia nel 1994 e nel 1997.
Io ho sempre pensato che la storia di Princesa fosse una storia popolare, che va al di là del tema della transessualità. Si tratta della ricerca disperata di se stessi, che è quello che facciamo tutti – io con il teatro, altri nella famiglia, nella carriera. Questo elemento è stato immediatamente colto dal pubblico, fin dal debutto dello spettacolo in un festival teatrale in Liguria. Si tratta di una tragedia moderna nella quale tanto più grande si fa la distanza tra un’identità ricercata e la propria reale condizione, tanto maggiore è il dolore. In questo senso la vicenda di Fernanda è esemplare perché quel dolore si produce immediatamente nel corpo, come quando la polizia brasiliana – che alla fine degli anni Ottanta “ripuliva” con metodi brutali le strade della prostituzione transessuale – spacca il seno che Princesa aveva finalmente visto prendere forma grazie agli ormoni, prima, e poi alla chirurgia.
De André è stato il primo a cogliere questo fondo archetipico nel racconto di Princesa. Il cantautore, appassionato lettore di Ovidio, lo interpretava come storia di una, anzi di tre metamorfosi: da Fernandinho a Fernanda, con la scelta del ragazzino di allontanarsi dal villaggio per andare a “correggere la fortuna” che gli aveva assegnato un genere cui sentiva di non appartenere; da travestito a transessuale, grazie al processo, chimico e agli interventi di chirurgia praticati artigianalmente, e non senza rischio, dalle cosiddette “bombadeiras”; e, infine, la trasformazione da Fernanda a Princesa, nuova identità che si manifesta nella performance di genere inscenata sulle strade della prostituzione.
Ho voluto evocare la questione della transizione di genere che, come dicevo poco fa, nello spettacolo vuole essere emblematica di una più vasta e condivisa questione identitaria, fin dall’apparizione sulla scena della protagonista che, nei minuti iniziali, finge di essere incinta. Da questo punto di vista la presenza scenica di Vladimir Luxuria è un valore aggiunto poiché è evidente che, in certi frangenti, pesca dal proprio vissuto interiore. Sono momenti anche altamente drammatici come quando, scendendo tra il pubblico, addita tra gli spettatori il possibile responsabile del contagio che, in uno degli innumerevoli incontri notturni, provocò la sieropositività di Fernanda. Oppure struggenti, come nel caso della gioia, quasi infantile, per gli abiti femminili, ricevuti da Giovanni grazie alla complicità di una suora, a Rebibbia.
Come hai lavorato rispetto alle fonti?
Ho visto e rivisto il documentario girato da Conversi nel ’94, per cogliere dal vivo l’emotività di Fernanda, che viene ripresa mentre racconta di sé, ma anche, più banalmente, per prendere spunto per i costumi, visto che le riprese si svolsero tutte a Rebibbia. Ma soprattutto ho guardato al libro, scegliendo ciò che poteva avere un impatto nell’azione teatrale: la sieropositività e i rapporti coi clienti, i tre amori che Princesa racconta, la gioia nel vestire abiti femminili – scena che Vladimir recita con profondo coinvolgimento, lavorando su memorie adolescenziali – come pure quella dell’autobus, al termine di una notte di prostituzione, anche questa molto sentita da Luxuria, in uno scambio quasi neorealistico tra vissuto del personaggio e personalità dell’interprete.
E la canzone?
D’accordo con Vladimir, abbiamo deciso di collocarla nel finale, anche per produrre un effetto di riconoscimento in quella parte del pubblico che, pur avendola ascoltata molte volte, potrebbe ignorare il rapporto con il libro di Iannelli e Farias de Albuquerque. Anche il riferimento all’assunzione di Anaciclin, che De André riprendeva testualmente dal libro (“nella cucina della pensione / mescolo i sogni con gli ormoni”), torna nello spettacolo come mancanza dolorosa, nella quotidianità del carcere, quando Fernanda / Vladimir si mostra intenta a depilarsi il viso (non c’è ancora una norma che tuteli questo aspetto per le persone detenute in transizione di genere).
La critica specializzata, in particolare quella militante sul fronte LGBTQQIA+, ha spesso parlato, a proposito del libro, di un “silenziamento” della voce di Fernanda, a vantaggio di quella del coautore italiano, Maurizio Iannelli appunto, che ha sapientemente e deliberatamente proiettato sulla vicenda di Princesa i riflessi della propria esperienza di militanza clandestina negli anni del terrorismo. Come lui stesso dichiara nella premessa al testo, infatti, anche i detenuti politici si trovavano, a quel tempo, “in piena crisi di identità” – nel 1987 era stata pubblicata sul “Manifesto” la lettera aperta a Rossana Rossanda per uno “sbocco sociale e politico” della lotta armata. Nello spettacolo, invece, è piuttosto Maurizio a restare dietro le quinte, mentre la voce di Princesa domina la scena quasi in forma di monologo.
La forza del libro, in realtà, consiste proprio nel coinvolgimento personale nel racconto da parte di Maurizio Iannelli, vero e proprio coautore italiano, ovvero nella proiezione del proprio vissuto nel vissuto, apparentemente divergente, di Fernanda.
Un’altra scelta forte dello spettacolo, rispetto a una storia di migrazione transcontinentale come è stata quella di Fernanda, è l’unità di luogo, quasi perfetta se si eccettuano alcune minime eccezioni scenografiche evocative di altri ambienti (la Caritas di Roma, la casa materna nel Nordeste natìo, il bosco nelle Marche) mediante semplici giochi di luce. L’effetto claustrofobico è molto potente: ha notato giustamente Vladimir Luxuria in una recente intervista che per Fernanda la condizione detentiva era raddoppiata dall’esperienza di vivere il proprio corpo, la cui mascolinità in assenza di ormoni tornava a rendersi visibile, come prigione. Ecco, questa scelta drammaturgica mi è parsa molto audace per narrare una storia di migrazione tra continenti, generi, lingue, identità come quella di Princesa.
Sì, gli accorgimenti scenografici volti a evocare altri luoghi che non siano la cella sono volutamente minimali. Per l’ultimo incontro con Giovanni, il primo all’esterno delle mura del carcere, presso la mensa della Caritas, a Roma, dove Giovanni lavorava grazie a un permesso e dove avrebbe incontrato la religiosa che gli fornirà i vestiti per Fernanda, vorrei far sì che l’abbraccio che i due ex detenuti si scambiano avvenga sotto un filo di lampadine, come se si trattasse di una festa di paese, purtroppo però destinata a finire male. Da quell’ambientazione, infatti, Fernanda si allontana poi verso il buio del fondo scena, verso il luogo del suicidio e il finale dello spettacolo.

Nel 2017 avevi tratto una pièce da Un borghese piccolo piccolo (1976), il celebre romanzo d’esordio di Vincenzo Cerami portato sullo schermo da Mario Monicelli in un film molto fortunato, anche grazie all’interpretazione di Alberto Sordi. Insomma, sia per lo spettacolo del 2017 che per Princesa, hai lavorato a partire da fonti già “contaminate” dal riuso nazional-popolare. Come si lavora quando la fonte della trasposizione ha già conosciuto trascrizioni spesso più celebri della fonte stessa (il libro Princesa è certamente meno noto della canzone con lo stesso titolo)?
Nel caso del Borghese, ho molto amato il film di Monicelli, ma la fonte primaria è stata il romanzo. Non ho mai voluto impostare un dialogo col testo filmico, che avrebbe implicato anche un paragone visivo, oltre a quello tra Alberto Sordi e Massimo Dapporto, splendido protagonista di una interpretazione che considera la sua migliore e che ha conosciuto ben 200 repliche. Allo stesso modo, per Princesa, ho guardato al libro, e alla parte testuale della canzone, meno invece al film di Goldman, che conosco poco, o ai documentari televisivi, sebbene apprezzi molto quello diretto da Conversi. Sia il romanzo di Cerami che il libro di Farías de Albuquerque e Iannelli contengono pagine di grande impatto e già potenzialmente teatrali. Nel primo, ad esempio, i dialoghi col capufficio sono già pronti per essere trascritti in un copione – non per niente Cerami è stato uno sceneggiatore d’eccezione. D’altra parte, nel caso di Princesa, il passo della confessione del tentato omicidio, per il quale la protagonista verrà arrestata, pare già pronto per essere portato in scena come monologo. Il punto è che, a meno di non attestarsi a un livello di teatro di narrazione, da quelle pagine e da quelle parole è stato necessario trarre azioni sceniche, come quando Vladimir scende tra il pubblico per dare corpo alle descrizioni che, nel libro del ’94, restituivano la realtà della prostituzione sulle strade di Roma.
Infine, potresti indicare un elemento che tenga insieme, nella tua produzione teatrale, la trasposizione del Borghese con quella di Princesa, opere per molti versi distanti?
Sia nel Borghese piccolo piccolo di Cerami che in Princesa trovo un valore simbolico ed epico tale da garantire una grande forza teatrale. Nel Borghese abbiamo il ritratto ancora attuale di uno spaccato antropologico e sociale del nostro paese. Sembra che il tempo si sia fermato, eppure la storia è di quasi cinquanta anni fa. In Princesa la forza teatrale e narrativa ha di nuovo un forte valore epico e di riconoscimento individuale: la ricerca e la realizzazione di se stessi, attraverso mille difficoltà e sofferenze ma con ostinata dedizione. Ecco, quindi, cosa accomuna le due storie: il loro valore epico, ampio, potente da un punto di vista antropologico ed emotivo. Due aspetti importantissimi in teatro, secondo la mia esperienza, per rendere potente la vicenda rappresentata.