di Alice Dal Gobbo

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

Esce quest’anno per Ombre Corte la riedizione di quello che è ormai diventato un classico dell’ecologia politica: Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato di Jason W. Moore (a cura di Gennaro Avallone). Va innanzitutto sottolineato che questo libro, così importante per evidenziare il taglio politico e geopolitico dell’ecologia-mondo di Moore, non esisterebbe senza la dedizione e l’impegno di Gennaro Avallone, che ha selezionato e tradotto dei saggi altrimenti “sparsi”, legandoli assieme attraverso un lavoro di riflessione, tessitura e sintesi. Uscito per la prima volta nel 2015, questo libro ha accompagnato pratiche e dibattiti attorno alla crisi ecologica in relazione al capitalismo, proprio nel momento in cui i movimenti per la giustizia climatica cominciavano a strutturarsi e guadagnare spazi di protagonismo. Quando la crisi ecologica è stata definitivamente individuata dal dibattito e dai movimenti come fallimento del capitalismo: non soltanto come effetto collaterale ma come implicazione profonda delle sue logiche di dominio, sfruttamento e appropriazione.

 

Questo volume ha anche attraversato due crisi profondissime che si innestano sulla più ampia destabilizzazione climatica, e che le sono intrecciate in modo complesso: la pandemia Covid-19 e la guerra cosiddetta Russo-Ucraina (forse la Terza Guerra Mondiale). Da un lato, questi avvenimenti hanno segnato una parziale battuta d’arresto nella potenza che i movimenti per la giustizia climatica erano riusciti a esprimere nel 2019, e ancor di più nell’interesse verso questo tema da parte delle istituzioni. Queste ultime hanno evidentemente fatto scivolare qualsiasi buona promessa di “transizione ecologica” dietro alla militarizzazione tanto delle relazioni internazionali quanto della vita quotidiana, promuovendo sforzi securitari per mantenere lo status quo, lanciandosi in battaglie feroci per assicurarsi una fetta sufficiente di risorse e potere all’interno di un panorama globale in completa ridefinizione.

 

Il fatto che questo libro appaia nuovamente in questa congiuntura sembra significativo perché richiede un confronto serrato con la prospettiva di Moore sulla crisi del capitalismo. Perché, specialmente a fronte dello sconvolgimento geopolitico cui assistiamo, dell’intensificarsi della violenza (o quanto meno di quella socialmente accettata e politicamente ratificata) che percepiamo a tutti i livelli, degli eventi meteorologici estremi che stanno ormai diventando la norma… di che altro possiamo parlare se non di una crisi epocale del capitalismo? Quello di “crisi epocale” è un concetto che Moore stesso mobilita chiedendosi se quella che stiamo vivendo possa essere o meno considerata come Ecolun momento di “collasso” finale del sistema, oppure semplicemente come una crisi evolutiva che apre ad una riconfigurazione sistemica che apre a nuove fasi e processi di accumulazione. Per capire che cosa, della prospettiva di Moore, ci permette di leggere il presente, è necessario però riassumere brevemente il punto di vista che il libro espone. Ciò che segue non sarà una restituzione sistematica dei contenuti, data la struttura del libro. Tuttavia, seguire il filo del ragionamento proposto attraverso i diversi saggi aiuta a ricostruire il contributo di Moore attorno alla/e crisi del capitalismo, in particolare in riferimento al tema ecologico.

 

La Prefazione è lo spazio in cui si introducono i nodi concettuali generali dell’ecologia mondo, ossia l’assunto per cui la Natura, lungi dall’essere ciò che maggiormente può essere dato per scontato, è un progetto di classe, lo strumento attraverso cui, per riprendere il titolo di questa sezione, “la classe dominante governa” (p. 25). L’incipt recita: “Questo non è un libro sulla Natura. È un libro sul capitalismo”. Non si tratta di un superficiale posizionamento rispetto ai temi trattati: è piuttosto una dichiarazione di intenti teorica molto netta, che racchiude implicitamente la svolta concettuale di Moore all’interno dell’eco-marxismo: l’idea che non esiste Natura se non nel capitalismo, donde l’impossibilità di parlare di Natura al di fuori di un ragionamento a proposito di questo sistema. In altre parole, come dice Moore stesso altrove, “il capitalismo non ha un regime ecologico, il capitalismo è un regime ecologico” (p. 49). Questo modo di intendere la relazione tra il capitalismo in quanto insieme di relazioni sociali di ri/produzione e la natura in quanto materia viva del lavoro e del valore al suo interno è ciò che probabilmente distingue in maniera più netta l’opera di Moore. Intrecciando le riflessioni ecomarxiste e marxiane attorno al tema dell’ecologia, il femminismo, il pensiero post- e decoloniale con il dibattito sui “nuovi materialismi” e la svolta ontologica l’autore propone una sintesi originale. Il punto principale è quello di capire il modo in cui la base materiale di riproduzione della vita non è un mondo altro rispetto ai rapporti sociali e alle attività produttive. Tutte queste diverse relazionalità si intrecciano in modo orizzontale, come in una rete, in cui l’agentività e la soggettività non vanno intese solo come peculiarità della sfera umana, ma allargate alle comunità viventi. Visto così, il capitalismo “fa”, costruisce, delle specifiche ecologie che sono funzionali ai suoi obiettivi di accumulazione, ma è anche vero il contrario: le nature non umane, le condizioni climatiche, la distribuzione geografica delle risorse ne permette, o ostacola, l’espansione.

 

È allora fondamentale andare oltre il “dualismo cartesiano” che in fondo, come dimostrato ampiamente in queste pagine, è esso stesso il risultato di una serie di pratiche e costruzioni della Natura come esterna che si sono solidificate nel corso del “lungo XVI secolo” nel processo di conquista coloniale[1]. Tuttavia, questa operazione teorico filosofica non può essere sufficiente, perché smontare il dualismo in quanto base del dominio di alcuni umani sul resto della biosfera richiede necessariamente una mossa di critica radicale al capitalismo, il sistema entro cui le dicotomie della modernità emergono e si solidificano in prima istanza. Moore suggerisce infatti che, a partire dalla cosiddetta “scoperta dell’America” e con l’avvio del grande progetto coloniale che vedrà la borghesia europea protagonista di articolati processi di terraformazione su scala globale, il concetto di Natura diventa fondamentale per sostenere i processi di accumulazione capitalista. Si tratta ormai di un sapere consolidato grazie al dibattito femminista, ecofemminista, decoloniale: il surplus derivante dallo sfruttamento del lavoro produttivo non sarebbe nulla senza quello derivante dall’appropriazione di lavoro non pagato di donne, soggetti razzializzati, natura non umana, che concorrono gratuitamente alla riproduzione dell’intero sistema. In questo senso “il capitalismo storico non [emerge] come l’area della mercificazione, ma come l’entità contraddittoria della mercificazione infinita e dell’appropriazione che esso realizza delle condizioni della riproduzione” (p. 116). La giustificazione ideologica dell’appropriazione di tale lavoro è per Moore proprio il concetto di Natura, ciò che viene costruito dalla borghesia bianca europea come radicalmente altro – e inferiore.

 

È dentro questo quadro che Moore interpreta la/e crisi del capitalismo e le differenti fasi che si articolano come loro risultato. Innanzitutto, si riconosce che ogni fase implica una rivoluzione, e una specifica configurazione, dei rapporti socio-ecologici e tutte sono caratterizzate dalla produzione di un surplus ecologico, ossia dalla capacità del capitale di rendere disponibili a basso prezzo i fattori chiave della produzione e della riproduzione: forza lavoro, cibo, energia, fattori produttivi a buon mercato. Tuttavia, vi è una tendenza alla sottoproduzione di questi fattori: vi è un aumento esponenziale della richiesta di materie prime, per esempio, che ne diminuirà la disponibilità (relativa e assoluta); il rendimento agricolo diminuisce con l’intensificazione dello sfruttamento del terreno e questo aumenta il prezzo del cibo e con esso il valore della forza lavoro. I due saggi che formano la prima parte del libro si concentrano esattamente su questo nesso, che Moore definisce “particolarmente stringente” tra cibo e forza lavoro a buon mercato. Nelle sue diverse fasi, l’agricoltura capitalista ha messo in campo innovazioni tecnologiche per aumentare i rendimenti e quindi inondare il mercato di un cibo che a quel punto è divenuto “a basso costo”, l’esempio più lampante è quello della Rivoluzione Verde che ha posto le basi per l’ondata di accumulazione neoliberista. L’altro meccanismo messo a punto dal capitale per produrre nature a buon mercato è quello della frontiera: stabilire un margine al di là del quale risorse, terre e forza-lavoro possano essere considerate “a perdere” e appropriabili perché svalorizzate.

 

Ciclicamente, il capitale entra in crisi di sottoproduzione che risolve con le innovazioni tecnologiche e con lo spostamento delle proprie frontiere (sia a livello geografico sia, per esempio, ai micro-livelli della riproduzione stessa della vita, come nel caso della bioingegneria). Si tratta quindi di “crisi evolutive” che aprono all’accumulazione su una scala diversa e allargata. Tuttavia, Moore nota come a partire dalla crisi del 2008 (e potremmo dire ancora oggi), i prezzi del cibo siano tendenzialmente in aumento e allo stesso tempo le innovazioni tecnologiche – si pensi alle biotecnologie, ma anche alla digitalizzazione in campo agricolo, o a sperimentazioni alimentari come le proteine post-animali – non sembrano essere capaci di produrre nuovo surplus ecologico, ossia cibo a buon mercato. Al contempo, le frontiere si “chiudono” sempre di più, secondo Moore, dal momento che restano sempre meno pezzi di mondo e di vita al di fuori dalle relazioni di valore capitaliste e per questo motivo appropriabili. Si pensi, per esempio, ai processi di privatizzazione e mercificazione della riproduzione sociale nell’epoca neoliberista. La finanziarizzazione diventa in questo contesto una leva fondamentale per generare un profitto che l’economia reale non è più in grado di sostenere. Si tratta tuttavia di un processo che di per sé mina le basi per un’ulteriore fase di accumulazione poiché si appropria di nature a un ritmo vertiginoso invece che aumentarne la produttività. Inoltre, e questa osservazione sembra particolarmente significativa in un momento di inflazione dei prezzi e di contemporanea fragilizzazione di ampi settori sociali, si passa da un regime “che riduceva il prezzo dei generi alimentari di base a un regime basato sull’ ‘assalto ai prezzi sui consumatori più vulnerabili’”, come sottolinea Philip McMichael”.

 

Ciò fa presumere che questa possa essere una “crisi epocale” del capitalismo, che potrebbe portare a un collasso delle relazioni socio-ecologiche che lo caratterizzano. Il degrado ecologico ne è una dimensione fondamentale, poiché il caos climatico e le mutazioni delle nature che si generano come risultato dell’iper-sfruttamento della biosfera impongono dei forti limiti alla produttività agricola. Un esempio di come le nature nella crisi agiscano contro i processi di accumulazione sono le “supererbacce” (erbacce che si sono evolute per essere resistenti agli erbicidi quali il RoundUp), un fenomeno che Moore cita ripetutamente in quanto esempio calzante di come le tecnologie capitaliste volte all’aumento della produttività generino esse stesse delle resistenze dal mondo non umano che ne minano le potenzialità. Più in generale, si sostiene che “il cambiamento climatico limiterà così drammaticamente le possibilità di incrementare la produttività del lavoro in agricoltura che non ci sarà un ritorno del cibo a buon mercato” (p. 106).

 

La seconda parte del libro è esattamente dedicata al tema delle “nature” nella prospettiva dell’ecologia-mondo, e della fine della natura a buon mercato. Come si è già notato più sopra, il capitale “produce” natura in quanto essa non gli preesiste, emerge bensì come parte dei rapporti di ri/produzione che lo caratterizzano. In questo senso, i limiti (ecologici) del capitalismo non starebbero in una presunta natura esterna ma piuttosto nel rapporto contradditorio tra appropriazione e capitalizzazione. Vi è certamente una dinamica di “deterioramento fisico delle nature umane ed extra-umane”, tuttavia maggiormente significativa è “l’erosione delle strategie di accumulazione” che storicamente sostengono l’accumulazione, per cui si ha una caduta tendenziale del surplus ecologico. Intendere la natura non come ambiente o presupposto ma come matrice dello sviluppo capitalista ci costringe a concettualizzare la crisi come una propria dell’oikeios nel suo complesso: uno sviluppo per cui i rapporti socio-ecologici di ri/produzione che hanno sostenuto l’ordine mondiale negli ultimi secoli potrebbero entrare in una contraddizione così profonda da portarci verso la “fine del Capitalocene, non l’avanzata dell’antropocene” (p. 140). Per questo, secondo Moore, le analisi dell’eco-marxismo ispirato al concetto marxiano di “frattura metabolica”, in particolare quelle di John Bellamy Foster, vanno radicalizzate per portare la critica all’origine stessa dell’eccezionalismo umano. Non si tratta di leggere la crisi ecologica come il risultato di un sistema sociale che si sgancia dai meccanismi che mantengono in equilibrio la propria base naturale, quanto di un modo di organizzare le socionature segnato da una contraddizione – quella tra appropriazione e capitalizzazione – che nel tempo mina alla base la tenuta stessa del sistema.

 

Indubbiamente, la crisi innescata dalla pandemia e tuttora in campo anche a causa della guerra russo-ucraina, è leggibile all’interno della cornice concettuale dell’ecologia-mondo come un evento stretto a doppio filo con la crisi climatica e il deterioramento delle nature non umane e dei corpi spesso sfiancati dal lavoro e da ambienti di vita insalubri. Un evento tutt’altro che “naturale”, seppur (in parte) biologico, che emerge dal danno ecologico interrompendo e bloccando i processi di valorizzazione: un esempio di “valore-negativo” (p. 24), di come l’appropriazione di nature non umane a un ritmo esasperato si ritorca contro il capitale stesso. E nonostante la ripresa iniziale da questo shock sia stata caratterizzata da un impegno nell’investimento “verde”, è apparso subito chiaro che qualsiasi preoccupazione legata a una ristrutturazione dell’economia in senso ecologico è non solo fragilissima ma anche subordinata a imperativi di accumulazione, potere e appropriazione di nature non umane (nella forma di “risorse” e altri fattori produttivi).

 

L’inflazione dei prezzi e la crescente precarizzazione di larghe fette della popolazione, anche a livello dei Paesi “ricchi”, supportano l’idea che – quanto meno per qualche tempo – le strategie di accumulazione potrebbero basarsi non tanto su una de-valorizzazione del lavoro attraverso la produzione di nature a buon mercato, quanto piuttosto che tale de-valorizzazione avvenga attraverso la forza, la repressione e il crescente ricatto di soggettività piegate dalla precarietà e dall’atomizzazione sociale. La militarizzazione in questo contesto ha una doppia valenza: la violenza “fuori” dai confini giustifica la perpetrazione di una violenza “interna” rispetto al contesto sociale, per cui qualsiasi forma di dissidenza e resistenza può essere repressa e ricondotta al comando capitalista. Se nella prospettiva di Moore si ravvisa un certo ottimismo riguardo al fatto che le contraddizioni socio-ecologiche del capitalismo possano portarlo alla fine della propria corsa in modo quasi automatico, in questo contesto è necessario ripensare ai rapporti di forza e di potere tenendo conto che la macchina Stato-Capitale dispone dei mezzi per sostenere con la forza la creazione di frontiere interne per sostenere i processi di accumulazione. I movimenti e le lotte restano quindi centrali per far emergere e scoppiare le contraddizioni stesse dell’ecologia-mondo capitalista.

 

Lottare per un “socialismo nella rete della vita”, allora, sembra richiedere dei processi di sabotaggio attivo delle relazioni di ri/produzione attuali su due livelli. Da un lato, la resistenza politica contro la svalorizzazione del lavoro e della vita nel suo complesso, come arma per resistere alla proliferazione delle frontiere, interne ed esterne, allo sfruttamento e all’appropriazione – lotte che mirino ad inceppare i processi di accumulazione.[2] Dall’altro, richiede degli sforzi immaginativi che si innestino precisamente al livello della matrice di relazioni socio-ecologiche del capitale, aprendo a un futuro in cui la logica della riproduzione e del sostegno della vita siano al centro di forme di esistenza liberate. Inutile dirlo, questi due aspetti non sono autonomi ma necessariamente intrecciati e guidati dall’obiettivo di resistere a quella che Avallone, richiamando Achille Mbembe, chiama una “ecologia necropolitica” (p. 23).

 

Note

 

[1] Su questo punto si veda anche il recente libro di Amitav Gosh, La Maledizione della Noce Moscata. Parabole per un pianeta in crisi, Neri Pozza, 2022.

[2] Si tratta di lotte che già esistono e che da tempo hanno mostrato il loro potenziale. Si tratta ora, auspicabilmente, di operare una convergenza politica, tra vertenze e verso più ampi settori sociali. In questo senso, molto importante sarà il World Congress on Climate Justice, che si terrà a Milano dal 12 al 15 ottobre di quest’anno.

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