di Claudio Giunta

 

[E’ uscito da qualche giorno per Feltrinelli Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta. Ne presentiamo qui un estratto]

 

A quel tempo, perdersi in una selva era possibile.

A quel tempo l’Europa – ha scritto una volta Jacques Le Goff – era un deserto con poche oasi: il deserto era fatto di alberi, e le oasi erano le città. Non dobbiamo però pensare alle città odierne, coi loro milioni di abitanti. La città più grande del continente, Parigi, all’inizio del Trecento aveva forse duecentomila abitanti. Firenze non arrivava a centomila, ed era una delle più popolose città italiane.

Il mondo che si apriva al di fuori delle città era un mondo pericoloso, abitato da uomini ostili – briganti, avventurieri – e da animali feroci. I conforti della vita civile, i conforti garantiti soprattutto dallo Stato che oggi consideriamo scontati, come la protezione contro i violenti, le strade illuminate, la possibilità di trovare facilmente un riparo, non esistevano. L’idea della «selva oscura» oggi non ci fa paura, ma un lettore del Trecento aveva una percezione molto chiara di quanto potesse essere spaventoso trovarsi da soli in una foresta, di notte, al buio: si poteva morire, si moriva.

 

È con questa disposizione d’animo che dobbiamo leggere i primi tre versi dell’Inferno:

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

che la diritta via era smarrita.

 

 

A metà del corso della nostra vita [cioè a 35 anni, dato che negli esseri umani «perfettamente naturati» quello che Dante chiama «l’arco della vita» ha come punto medio il «trentacinquesimo anno» (Cv IV xxiii 9)] mi accorsi di essere finito in una foresta oscura nella quale avevo smarrito la strada diritta.

 

[Diritta via. La «verace via», dirà al v. 12, sicché non è sbagliato estrapolare sin d’ora un’applicazione morale: è la via della virtù, della verità; ed è immagine già biblica: «Vae his […] qui dereliquerunt vias rectas et deverterunt in vias pravas!» (Sir 2, 16); «qui relinquunt iter rectum et ambulant per vias tenebrosas» (Prv 2, 13-14)].

 

Strano inizio, no? Dante sta dicendo di essersi smarrito in una foresta, ma anziché specificare che questo piccolo contrattempo è successo ieri, l’altroieri, o in un qualche altro momento del passato, Dante dice «a metà della nostra vita». Strano contrasto tra la piccolezza dell’avventura, perdersi nei boschi, e la solennità dell’indicazione cronologica: a metà della nostra vita, non solo della sua ma di quella di tutti. Evidentemente quella che Dante sta per raccontare non è soltanto la storia di una brutta avventura nei boschi (non soltanto ma anche: non facciamo l’errore di accantonare troppo presto il senso letterale delle parole del poeta!). C’è qualcosa di più, e in che cosa consista questo di più lo capiamo dai versi successivi:

 

Ahi! quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura:
tant’è amara che poco è più morte!
Ma, per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò dell’altre cose ch’io v’ho scorte.
Ahimè, com’è arduo e penoso spiegare quant’era intricata e densa questa foresta selvaggia, tanto che il solo pensarci mette di nuovo paura! È così dolorosa (amara) che la morte lo è poco di più; tuttavia, per conservare memoria del buono che vi ho trovato dirò delle altre cose che vi ho visto.

 

[del ben ch’i’ vi trovai: sulla natura di questo bene non c’è accordo tra i commentatori: può essere genericamente la via della salvezza (ma quella in realtà Dante la troverà fuori della selva); o, soggettivamente, lo stimolo al pentimento, cioè ad uscire dalla selva del peccato; oppure la misericordia divina simboleggiata forse dalla luce del sole che comparirà al v. 17].

 

La foresta in cui si trova Dante non viene detta fitta, o pericolosa, bensì amara quasi quanto la morte. Un luogo amaro: ecco un’altra stranezza, un’altra parola che sembra alludere a un piano di significato diverso da quello della lettera. Ma non lasciamo che l’addensarsi del mistero ci distragga dalla tecnica poetica di Dante, già finissima in questi versi d’esordio: notiamo, nel brano appena citato, il suono stridente delle erre (dura, aspra, forte…); e notiamo il bisticcio «selva selvaggia», un’invenzione verbale che però rinvia anche a un significato preciso; nella terminologia medievale, infatti, selvaggio è un bosco non addomesticato dall’uomo, regno degli animali feroci (anche per questo più avanti Dante potrà parlare di un luogo che «non lasciò già mai persona viva»). Proseguiamo:

 

Io non so ben ridir com’io v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al pie’ d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’io passai con tanta pièta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago ala riva,
si volge all’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Non so dire esattamente come ci entrai, a tal punto ero assonnato nel momento in cui abbandonai la via della verità. Ma una volta giunto ai piedi di un colle, nel punto in cui finiva quella valle che mi aveva riempito il cuore di paura [«compunto» fa pensare a una trafittura, una ferita, come nella fonte evangelica, Act 2, 37: «His autem auditis, compuncti sunt corde» (‘all’udir questo, si sentirono trafiggere il cuore’)], guardai verso l’alto e vidi la parte superiore di quel colle illuminata dal sole, l’astro che fa procedere sulla strada diritta ogni essere umano [la sua luce promette dunque di riportare il viandante smarrito sulla «diritta via»]. Allora si attenuò quella paura che s’era insediata nel profondo del mio cuore durante la notte che avevo trascorso con tanta angoscia [il «lago del cor» è la parte più interna del cuore, la «secretissima camera de lo cuore», aveva scritto Dante all’inizio della «Vita nuova»]. E come colui che con il fiato corto, uscito dalle acque del mare, ha guadagnato la riva e si volge indietro a guardare i flutti pericolosi, così il mio spirito, che era ancora in fuga, si volse indietro a osservare il passaggio che nessun essere umano, da vivo, ha potuto superare.

 

[durata: una parte minoritaria della tradizione legge (i)ndurata (e così il testo Inglese), da intendere nel senso che la paura si era fatta solida nel cuore, facendo ghiacciare il sangue; si tratta però – nota a mio avviso giustamente Bellomo – di una metonimia «icastica, ma azzardata»]

 

[lo passo / che non lasciò: alcuni commentatori intendono questo che come soggetto e persona viva come complemento oggetto: ‘il passaggio – ossia la selva del peccato – che non ha lasciato vivo, cioè che ha ucciso ogni uomo che lo abbia attraversato’. Sfumature a parte, resta invariato il senso complessivo: nessun essere umano vivo ha mai fatto il viaggio ultraterreno che Dante sta per fare].

Per capire che cosa c’è di anomalo, in questi versi che aprono la Commedia, proviamo a fare un confronto. Circa mezzo secolo dopo Dante, Francesco Petrarca scriverà il suo poema, la sua visione, i Trionfi, e sarà il resoconto di una visione avuta in sogno: «Vinto dal sonno, vidi una gran luce, / e dentro assai dolor con breve gioco». Dante non introduce il suo racconto allo stesso modo: non dice di essersi addormentato, né dirà, nel séguito, che il suo è un viaggio soltanto sognato; né il racconto finisce con un risveglio, come finiva per esempio la visione del Roman de la Rose, il grande poema francese che, in quanto viaggio allegorico, può per certi aspetti essere paragonato alla Commedia («Allora fece giorno e mi svegliai», così conclude il suo racconto Jean de Meung). Nell’ultimo canto della Commedia Dante sarà sì sopraffatto dalla potenza della visione paradisiaca, ma non smetterà mai di essere ben sveglio e cosciente: ciò che riferisce è tutto vero.

O no?

 

Perché in questa visione dal vero c’è qualche strano dettaglio che – benché rifletta questo o quell’aspetto del mondo dell’esperienza – sembra messo lì apposta per essere trasfigurato in simbolo. Dante dice di aver perduto non semplicemente «il sentiero», ma addirittura la «verace via»: cioè la via vera, la via autentica, aggettivo che non può che essere preso in senso morale: la «retta via», appunto; dice di essere scampato a un «passo» – cioè probabilmente alla selva oscura che ha appena attraversato – «che non lasciò già mai persona viva», sia che voglia dire che il passo, soggetto, porta alla morte spirituale, come pensano alcuni; sia che, come pensano altri, voglia dire che nessuno mai, da vivo, poté lasciare quel passo, cioè salvarsi dalla selva selvaggia una volta finitoci dentro: e anche qui è immediata l’applicazione morale, con la selva che s’identifica tout court con il peccato, il traviamento. Dunque non è semplicemente una foresta, ma una foresta dalla quale nessuno, a parte Dante, si è mai salvato…

 

Le cose insomma si complicano. La luce stessa dell’alba che illumina i fianchi del misterioso colle davanti al quale il viandante si è fermato non sembra forse alludere a un livello di senso non strettamente letterale, non è anche luce di speranza, presagio del divino? Siamo tentati di riconoscere, in tutto questo, al di sotto della lettera del testo, un significato allegorico, l’allusione a una condizione di smarrimento non soltanto fisico ma anche spirituale.

 

Ma intanto, prima di procedere, fermiamoci per un attimo a rileggere la prima similitudine del poema: «E, come quei che con lena affannata…». C’è un uomo che esce dal mare (il pelago) e si volta indietro, ansimante: ha scampato un pericolo mortale, non è annegato. Letti i primi tre versi della similitudine, noi ci siamo immaginati Dante nelle vesti di questo naufrago, lo abbiamo visto emergere dalle acque. Ma i tre versi successivi dissolvono questa immaginazione. L’acqua non c’è, Dante è fermo: è il suo animo, la sua mente, che è ancora in fuga, che ancora cerca scampo, e che si volge indietro a riconsiderare l’esperienza appena conclusa, il rischio corso nella foresta. Tutto il passo non è che la splendida descrizione di uno stato ansioso, l’ansia che persiste anche dopo che il pericolo è passato: l’animo di chi guarda indietro mentre sta ancora scappando. Ma dire che l’animo «si volse a retro» significa semplicemente che l’io narrante, guarito dallo spavento, riflette tra sé e sé sul pericolo che ha appena scampato. Viene in mente una frase di uno scrittore che certamente Dante non conobbe: «La mente – scrive Petronio – desidera ciò che ha perduto, e si smarrisce nella contemplazione di ciò che appartiene al passato»[1]; salvo che Dante declina in termini spaziali ciò che Petronio ha declinato, più normalmente, in termini temporali. (Ecco a che cosa servono, tra l’altro, le similitudini: ad arricchire il testo di oggetti e figure che non si trovano realmente . La sagoma del naufrago che si volta indietro a guardare il mare è una delle più vivide di questo primo canto, ma quel naufrago non esiste se non nella fantasia del poeta, e adesso in quella di ogni lettore).

 

Nota

 

[1] Petronio, Satyricon, 128: «Animus quod perdidit optat, atque in praeterita se totus imagine versat».

3 thoughts on “Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta

  1. #ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #DIVINACOMMEDIA: #LETARGO (Pd. XXXIII, 94) E #SONNODOGMATICO (#Kant).
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    LA #FEDE DI #DANTE, E DI SAN PIETRO, E LA FEDE DI SAN PAOLO.
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    A 750 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UNA “PREMESSA” A UNA ”VECCHIA’ NOTA DI ENNIO ABATE A COMMENTO DI UN ‘VECCHIO’ ARTICOLO DI CLAUDIO GIUNTA (“Dante dopo l’Apocalisse”, Le parole e le cose, 21 maggio 2015 – https://www.leparoleelecose.it/?p=19052) :
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    DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA#FILOLOGIA:
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    (LA MADRE, MARIA-) #BEATRICE (Pd. XXIV, 34) chiede al “gran viro”(San Pietro) di verificare se Dante ha capito la differenza tra la fede in “Nostro Signore” Gesù (Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho #anthropos») oppure nel “Nostro Signore” (secondo la ‘precisazione’ androcentrica e mammonica) di San Paolo, l’Uomo (#Vir): “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11, 1-3).
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    “DANTE DOPO L’ APOCALISSE” – OGGI (15 settembre 2023):
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    “Se ormai possiamo solo insistere col giochino di come avrebbe reagito Dante di fronte ai festeggiamenti del suo 750° compleanno, a me piace immaginarlo non meravigliato ma molto incazzato e pronto a infuriarsi con gli italiani per non aver fatto – dopo ben settecento anni! – le cose che si dovrebbero fare in un Paese già ai tempi suoi ridotto a «bordello».
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    Ma Dante oggi è, purtroppo, nelle mani dei dantisti. E ci sarà sempre un Claudio Giunta che, gli riconoscerà la sua genialità (da «marziano», scrisse nel lontano 1999 Pietro Cataldi in « Perché leggere Dante (oggí)?») e lo ringrazierà per aver permesso con la sua opera di lanciare la catena di montaggio della multinazionale Dante & C., quella che produce « articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…»).
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    Subito dopo, però, appena Dante tirerà fuori la balla che la sua «no, non era solo letteratura», lo azzittirà ricordandogli, appunto, che oggi gli esseri umani (quelli che Giunta frequenta) «se la passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante».
    (Ennio Abate, 21 maggio 2015, Le parole e le cose:
    https://www.leparoleelecose.it/?p=19052#comment-310524 ).
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    STORIA E LETARGO STORIOGRAFICO: NON SCAMBIARE DANTE ALIGHIERI CON GIOVANNI BOCCACCIO. Se il “diciottenne” Dante racconta – come scrive Alessandro Barbero ( https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141649) – il sogno e la visione di Beatrice nuda “[…] con un tocco così leggero che di solito gli esegeti non lo commentano”, non è meglio interrogarsi su questa dantesca “lezione americana” (alla Italo Calvino) di leggerezza e pensare meglio che Dante abbia ri-visto in sogno la madre “beata e Bella”?!
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    Non è ancora di cambiare registro , e, cominciare a pensare semplicemente che la figlia di Gemma Donati e Dante Alighieri, (Maria-) Antonia, diventata suora, abbia voluto rendere omaggio a Bella, alla sua nonna paterna, e ricordare per tutta la sua vita proprio (Maria-) Beatrice ?!
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    Federico La Sala

  2. P. S – “DANTE DOPO L’APOCALISSE” – 0GGI (15 SETTEMBRE 2023):
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    A 750 ANNI E OLTRE DALLA NASCITA E A 700 E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI… UN OMAGGIO A CLAUDIO GIUNTA E ALLA SOCIETA’ DANTE ALIGHIERI:
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    DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una “ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA” di Federico La Sala (in un “quaderno” della Rivista “Il dialogo”), con prefazione di Riccardo Pozzo. ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2432 )
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    Federico La Sala

  3. P. S. 2 – IL CANTO DELLE SIRENE: CON ULISSE, OLTRE SCILLA E CARIDDI, OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE. A SCUOLA DA CICERONE, PER COMPRENDERE MEGLIO L’ODISSEA DI OMERO E LA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI… E USCIRE DAL LETARGO. Alcuni appunti…
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    In memoria di Maria Corti *
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    A) “IL SOMMO BENE E IL SOMMO MALE”: “C’è, innato in noi, un amore così grande della conoscenza e della scienza che nessuno può dubitare che la natura umana sia spinta verso queste cose senza essere allettata da alcun guadagno. […] E a me sembra senz’altro che Omero abbia visto qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. E infatti sembra che non fossero solite richiamare coloro che passavano di lì grazie alla soavità delle voci o ad una certa novità e varietà del canto, ma poiché dichiaravano di sapere molte cose, cosicché gli uomini si incagliavano ai loro scogli per bramosia d’imparare. Così infatti invitano Ulisse. […].
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    Omero vide che la storia non poteva essere accettata, se un uomo tanto grande fosse trattenuto, irretito da delle canzonette; (le Sirene) promettono la scienza, che non era sorprendente che fosse più cara della patria ad un (uomo) desideroso di sapienza. E desiderare di conoscere tutte le cose, quali che siano, deve essere ritenuto proprio dei curiosi, invece essere condotti tramite la contemplazione delle cose più grandi al desiderio della scienza deve essere ritenuto proprio degli uomini sommi.”(Cicerone, “De finibus bonorum et malorum”, V, 18).
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    B) LA “FEMMINA #BALBA”, LA “DOLCE #SIRENA”, E IL BRUSCO #RISVEGLIO DAL #SONNODOGMATICO: LA #DIVINACOMMEDIA. Con l’aiuto della #memoria della figura paterna (#Virgilio) e della #figura materna (#Beatrice), la #donna “santa e presta”, #DanteAlighieri riesce a portarsi #oltre le illusioni del “sommo bene” e del “sommo male” e a proseguire il suo #viaggio al di là dell’#inferno e del #purgatorio, verso la sua piena #rinascita e fuori dallo #stato di #minorità” (Kant) :
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    “[…] mi venne in sogno una femmina balba, /
    ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, /
    con le man monche, e di colore scialba.
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    […] Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto, /
    cominciava […] /
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    «Io son», cantava, «io son dolce serena, /
    che ’ marinari in mezzo mar dismago; /
    tanto son di piacere a sentir piena!
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    Io volsi Ulisse del suo cammin vago /
    al canto mio; e qual meco s’ausa, /
    rado sen parte; sì tutto l’appago!».
    +
    Ancor non era sua bocca richiusa, /
    quand’una donna apparve santa e presta /
    lunghesso me per far colei confusa.
    +
    «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», /
    fieramente dicea; ed el venìa /
    con li occhi fitti pur in quella onesta. /
    +
    L’altra prendea, e dinanzi l’apria /
    fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre; /
    quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
    +
    Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: «Almen tre /
    voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; /
    troviam l’aperta per la qual tu entre». ”
    (Purg. XIX, 7‑36).
    +
    * STORIA E LETTERATURA: MARIACORTI ( https://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Corti), “IL CANTO DELLE SIRENE” ( https://www.bompiani.it/catalogo/il-canto-delle-sirene-9788845298776 ).
    +
    Federico La Sala

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