di Paolo Costa
[La seconda parte di questo articolo di Paolo Costa verrà pubblicata tra qualche giorno].
Life does not tell stories. Life is chaotic, fluid, random; it leaves myriads of ends untied, untidily. Writers can extract a story from life only by strict, close selection, and this must mean falsification. Telling stories really is telling lies.
(B.S. Johnson)
One’s life and work are an effort to find a form which will reconcile inner needs and outer pressures. The form itself is unique and personal even though both the inner needs and the outer pressures are transpersonal.
(R.N. Bellah)
1. Immaginiamo di avere in famiglia uno zio noto per il suo stile di vita libertino. La cosa è risaputa e ciascuno si comporta con lui secondo le proprie convinzioni. C’è chi lo invidia segretamente, come il per altro pudicissimo nonno Mario, e chi lo considera un indecente sporcaccione, come sua sorella Lina, emigrata a Dallas negli anni Cinquanta.
Dopo la sua morte, però, si viene a sapere che, a dispetto di questo epicureismo sbandierato senza scrupoli, lo zio era uno studioso serissimo di Santa Teresa d’Avila. Emergono taccuini zeppi di appunti, manoscritti inediti, anche scoperte di archivio sostanziose. Nessuno riesce a trovare un senso in questo lato ben nascosto della sua personalità. Le chiacchiere impazzano e la curiosità aumenta proporzionalmente.
Come si spiegano le persone questa stranezza?
Forse qualcuno si sarà messo subito alla ricerca di una teoria psicologica («il libertinismo è sempre un appagamento secondario: alla base di tutto c’è una forma di ascetismo») o di una spiegazione metabolica («gli sbalzi d’umore sono cominciati con una terapia ormonale prescrittagli da bambino») e non si riterrà soddisfatto finché lo zio non diventerà il token di un type o l’occorrenza di una legge.
A conti fatti, però, nel brusio generale prevalgono frasi del genere: «Se hai un attimo, ti racconto questa storia che girava in casa tempo fa»; «A me invece hanno raccontato che…»; oppure: «Ho sentito dire da V. che tutto è cominciato l’anno in cui G. gli propose di unirsi a lei per fare insieme il cammino di Santiago de Compostela. All’inizio sembrava che…».
Per lo più la gente si spiega le astrusità della vita raccogliendo gli elementi eterogenei di cui dispone in quella sintesi diluita che siamo soliti chiamare «narrazione», e che, per evocare Thomas Mann, prende forma in un tempo imperfetto e viene pronunciata con un tono di voce che assomiglia più a un sussurro, a un bisbiglio, che a una dichiarazione stentorea.
Che cosa succede esattamente quando decidiamo di spiegare i punti ciechi di un’esistenza raccontando una storia?
Per molti questa scelta è soltanto il sintomo di un ripiegamento cognitivo: la presa d’atto, cioè, dell’impossibilità di dire come stanno veramente le cose. Un congedo dalla realtà nuda e cruda. Narrare, detto altrimenti, sarebbe solo un modo socialmente rispettabile di prendere tempo mentendo a sé stessi e agli altri: una via elegante per desistere senza tagliare i ponti, come quando si fa conversazione spicciola con persone il cui giudizio non ci importa più di tanto.
Raccontare, insomma, è di norma «raccontarsela» o, come si dice oggi, storytelling: aggiustare l’ordinario caos o nonsenso materiale rivestendolo di una patina d’ordine e significato ideale che non può per principio appartenergli. Non a caso, il principale spauracchio dei veri scrittori è la consolazione a buon mercato del «senso», del lieto fine, del vissero tutti felici e contenti. D’altro canto, se il primo obiettivo di qualsiasi autore degno di questo nome è scrivere un’opera originale, rifiutarsi a priori di raccontare la storia di una persona o di una famiglia felice è una regola più che giustificata. Storie del genere si assomigliano tutte. E si assomigliano così tanto per il semplice motivo che le persone e le famiglie felici esistono solo nei cattivi racconti, dato che l’esistenza umana è fin dal principio impregnata di caos e disordine, non può che frustrare le ingenue illusioni giovanili ed è destinata a concludersi nell’angoscia e con una fine senza compimento. L’unica verità universale che si può desumere da qualsiasi vicenda biografica è quindi banalmente pessimista: sarebbe stato meglio non nascere.
Ma è davvero così ovvio ridurre la predilezione delle persone per le storie, un bisogno quasi universale e apparentemente insaziabile, all’appagamento di un’aspirazione puerile fondata su un’illusione senza fondamento nella realtà? Quanto è stringente l’idea che solo una facoltà creativa come l’immaginazione possa imporre (dall’esterno) una forma riconoscibile a un dato esperienziale di per sé irriducibilmente frammentato e disgregato? E fino a che punto chi sposa intuitivamente il verdetto scettico sullo storytelling appena formulato è tenuto ad aderire più o meno consapevolmente a questo tipo di epistemologia costruttivista?
Come molti altri narrativisti prima e dopo di lei, Hannah Arendt, per citare un controesempio significativo, era convinta che raccontare una storia fosse uno dei pochi mezzi di cui gli esseri umani dispongono per «dire ciò che è»: per creare cioè un contatto epistemico con aspetti della condizione umana in cui la distinzione tra reale e apparente conta eccome – è addirittura una condizione d’intelligibilità del fenomeno rischiarato, sebbene attorno a essi infurî un conflitto di interpretazioni talmente radicale da far supporre che si tratti qui di qualcosa non solo di costruito, ma di deliberatamente o inconsapevolmente inventato.
In un libro solo recentemente tradotto in italiano, Arendt ha persino provato a raccontare il senso profondo della sua epoca attraverso dieci ritratti esemplari di suoi «contemporanei»: persone, cioè, che come lei avevano vissuto con occhi ben aperti e il cuore in tumulto le «catastrofi politiche, i disastri morali e lo sviluppo stupefacente delle arti e delle scienze» senza farsi ingannare dagli «efficientissimi discorsi espliciti o a doppio senso di quasi tutti i rappresentanti ufficiali che, senza interruzione e con molte variazioni ingegnose, si sono sbarazzati di fatti spiacevoli e preoccupazioni giustificate tramite abili razionalizzazioni». È soprattutto in tempi bui che vale la pena di raccontare storie che hanno la capacità di illuminare gli eventi grazie a quella «luce incerta, tremolante e spesso debole che alcuni uomini e alcune donne, nelle loro vite e opere, sanno accendere in quasi tutte le circostanze e diffondere sull’arco di tempo che gli è stato destinato sulla terra»[1].
Belle parole. Il dubbio, tuttavia, rimane. Se si ammette che le esistenze umane sono, senza eccezioni, opache e intricate, e che le vite dei moderni sono rese ancora più indecifrabili dalla «luce del pubblico che tutto offusca» (Heidegger), non è, a conti fatti, irragionevole attendersi dal racconto di una storia personale un significativo effetto di illuminazione?
2. Nelle pagine finali della sua avvincente biografia di Robert Bellah, il teorico della «religione civile americana», Matteo Bortolini offre al lettore ormai saturo di informazioni sugli alti e bassi personali e professionali del protagonista della storia, una spiegazione a prima vista convincente del nesso labile che lega l’esistenza umana al senso di realtà che sembra emergere, volente o nolente, da ogni suo resoconto scrupoloso[2].
Da un lato, nota Bortolini, ci sono «le molte vite di Bellah»: «un individuo col suo modo di stare al mondo profondamente ambiguo, dialettico». Dall’altro lato, c’è l’aspirazione alla «sintesi», alla «singola immagine» che, essendo le biografie un genere letterario ecfrastico, assomiglia, volente o nolente, all’ultima parola di un argomento inconfutabile. Date queste due forze uguali e contrapposte, su che cosa potrà mai basarsi la sensazione tipica di chi legge una buona biografia di essersi accostato al nocciolo di un’esistenza, al real self dell’eroe del racconto? Qual è, insomma, il punto d’applicazione del vettore asintotico che punta verso ciò che effettivamente è? Incontriamo qui la muta zoè o il più raffinato bìos – la vita così com’è, in tutta la sua confusione, o la silhouette liofilizzata che può restituirci la memoria pubblica sotto la spinta di una o più urgenze di razionalizzazione? Condurre una vita, in fondo, significa tenere insieme i frammenti nell’unica esistenza che è possibile vivere come «propria». Quando, però, la suddetta vita è sufficientemente lunga o ricca, questo «insieme» può apparire meno consistente, meno essenziale di quanto il suo status contingentemente privilegiato non lasci supporre.
La tentazione, come capita spesso in questi casi, è di aggirare la contraddizione apparentemente insanabile optando per un ossimoro. Per andare diritto al punto, la verità della vita del sociologo americano, se narrata nel modo giusto, sembrerebbe risiedere nell’enigmatica riconciliazione di gioia e serietà che essa esemplifica. Questa conciliazione degli opposti è raggiunta gradualmente e tra molte traversie grazie a una genuina vocazione intellettuale, ossia in un’esistenza spesa avendo come stella polare il motto: «Io devo capire – ho una vita sola e quello che mi preme, a conti fatti, è comprendere».
Come succede al protagonista alla fine della Recherche, anche in questo caso il tempo ritrovato grazie alla sottile arte del racconto policronico è quello che allaccia gli snodi essenziali della vita producendo un disegno inconfondibile, che non ha nulla di inventato, se non nel senso banale che è il prodotto non deliberato delle intenzioni di un agente che, essendo situato, non era evidentemente in grado di supervisionare la propria esistenza in corso d’opera. In questa ingenuità «seconda» o riflessiva troverebbero allora una sintesi non posticcia le due verità apparentemente antitetiche giustapposte in un celebre aforisma di Kierkegaard: la vita può essere compresa solo guardandosi indietro, ma la si può vivere soltanto con lo sguardo rivolto verso il futuro. Detto più semplicemente, è proprio perché i moventi contingenti delle scelte di Bellah entrano costantemente in risonanza con corde più profonde della condizione umana che noi oggi, col senno di poi, possiamo usare queste ultime per raccontare la sua storia come se fosse una sorta di sinfonia.
Se sostituiamo «gioia» e «serietà» con vocaboli più asettici come «ricettività» e «chiusura», la rilevanza di questo esercizio di comprensione dovrebbe emergere con ancora maggiore forza. Quando raccontiamo la storia di uno studioso che, più o meno come tutti, ha proceduto nella sua vita a zigzag, rispondendo in maniera a volte creativa a volte meccanica alle sollecitazioni, sfide, ambizioni, delusions & disappointments, tipiche di una lunga vicenda professionale e umana è lecito attendersi qualche lezione interessante circa i limiti fino a cui può spingersi il desiderio umano di aprirsi il più possibile al mondo senza dissolversi in esso, di rispettare i fatti senza trasformarli in idoli, di incarnare la verità anche quando non si riesce a conoscerla in ogni suo dettaglio.
Se ci si pensa bene, già riservare un ruolo di primo piano alla ricettività nella investigazione scientifica rappresenta un’eccezione significativa rispetto alle varianti più o meno arcigne di stoicismo a cui si sono ispirati nella sostanza la gran parte degli intellettuali moderni nell’immaginare un modello di vita buona per quanti si dedicano anima e corpo alla ricerca della conoscenza. In aggiunta a ciò, dal connubio ossimorico di gioia e serietà sembra emergere l’idea che entrambe implichino, in modi diversi, un decentramento dell’io, un superamento non penitenziale dell’individualismo, una fiducia nelle gratificazioni del trascendimento di sé: comportamenti non esattamente incentivati dalla forma di vita occidentale moderna. Anche, se non soprattutto per questo motivo, la storia raccontata da Bortolini ha il fascino delle favole. È in un certo senso una favola non solo per adulti, ma per adulti appartenenti a un preciso milieu: è una fable for eggheads, mi verrebbe da dire.
Ma lo è davvero?
3. Per capirlo, vorrei provare a mettere in fila le pietre miliari della biografia di Bellah che nel libro sono presentate con una dovizia di dettagli da cui dovrò per forza prescindere nella mia rassegna volutamente superficiale.
Robert Bellah nasce nel 1927, alla vigilia della Grande Depressione, nel Sud degli Stati Uniti (Altus, Oklahoma). Dopo una prima infanzia segnata dall’abbandono del padre Luther Hutton Jr., che scompare per un banale desiderio di cambiare vita e la cui fuga termina tragicamente con un suicidio nel 1931, Bob cresce a Los Angeles con la madre Lillian, la sorella minore Hallie Virginia, e gli zii Clifford ed Elizabeth. Fin da piccolo si fa notare per le sue doti intellettuali fuori dall’ordinario e un’ambizione non meno spiccata che a dieci anni lo spinge ad annotare in una stringata autobiografia che il suo obiettivo è «rendere il mondo un posto migliore in cui vivere»[3].
Dopo aver concluso col massimo dei voti la John Burroughs Junior High School, Bellah si iscrive alla LA High. Qui incontra la sua futura moglie, Melanie Claire Hyman: l’amatissima compagna di una vita. Entrambi sono redattori del giornalino scolastico «Blue and White». Nel 1945, grazie a una generosa borsa di studio Bellah si iscrive a Harvard, dove, terminato l’anno di leva, frequenta con entusiasmo i corsi propedeutici di cultura generale, si orienta verso l’antropologia sociale grazie al carisma di Gregory Bateson e diventa per un breve periodo membro del Partito comunista (da cui verrà espulso a causa del suo interesse per la psicanalisi)[4].
Nell’agosto del 1949 sposa Melanie che, nel frattempo, si è laureata in legge a Stanford. Il suo primo lavoro scientifico, una tesi sul sistema di parentela degli Apache, ottiene il Phi Beta Kappa Prize e diventerà un libro nel 1952[5]. Per la prima volta dall’istituzione del premio un’onorificenza così prestigiosa viene assegnata a uno studente di scienze sociali.
Nel passaggio da undergraduate a graduate student gli interessi di Bellah virano verso la sociologia. Decisivo è l’incontro con Talcott Parsons, da cui eredita la curiosità per il problema della modernizzazione di cui, seguendo Max Weber, investiga soprattutto i presupposti religiosi. In questi anni stringe amicizia con un altro giovane e brillante membro dell’influente circolo dei parsonsiani: l’antropologo Clifford Geertz, di cui rimarrà amico per tutta la vita. A parte la fascinazione per gli scritti di Paul Tillich, il suo principale campo di studio è ora il Giappone e, più in particolare, il retroterra etico-spirituale della rapida modernizzazione giapponese. Il suo secondo libro, pubblicato nel 1957, è dedicato a un’analisi dei «valori del Giappone preindustriale»[6].
Nella fase più acuta del maccartismo a Bellah viene prima rifiutato il passaporto (e impedito così un viaggio di studi in Giappone) e poi sventolata come esca la prospettiva di una borsa di studio postdottorale in cambio di una piccola delazione. La richiesta, per lui inaccettabile, di denunciare all’FBI i suoi ex compagni di partito lo induce a lasciare momentaneamente Harvard per il Canada. Alla McGill University trascorrerà due anni molto produttivi, collaborando con l’Institute of Islamic Studies, diretto da Wilfred Cantwell Smith, il grande comparatista delle religioni. Nel maggio del 1957 ritorna a Harvard, dove cementa la sua partnership con Parsons. Nasce in questi anni la leggenda di Bellah «nuovo Max Weber», alimentata anche dal suo approccio sistematico allo studio della religione e alle sue critiche agli assunti positivisti e materialisti delle varianti più rozze della teoria della modernizzazione[7]. Nel 1959, su invito di Sir Hamilton Gibb, J.R. Jewett Professor of Arabic a Harvard, trascorre sette settimane in Medio oriente per perfezionare la sua conoscenza delle società islamiche. Questo è solo un piccolo anticipo della dose da cavallo di orientalismo assorbita durante l’anno sabbatico trascorso con la famiglia in Giappone tra il 1960 e il 1961. Imbaldanzito dalle letture accumulate sull’onda dell’invito di C.Y. Glock a contribuire con un saggio a una antologia dedicata alla religione in America, nella primavera del 1961 Bellah tiene a Tokyo una conferenza in cui rende per la prima volta pubbliche le sue opinioni sul ruolo del protestantesimo progressista dei Padri fondatori nel plasmare lo zoccolo duro dell’identità americana: «l’individualismo istituzionalizzato». Da questo germe teorico prenderà forma di lì a cinque anni il suo influente ritratto della religione civile americana[8].
Note
[1] H. Arendt, L’umanità in tempi bui: Lessing, Luxemburg, Giovanni XXIII, Jaspers, Blixen, Broch, Benjamin, Brecht, Gurian, Jarrell, trad. it. di B. Magni, Mimesis, Milano 2023 (le citazioni sono tratte dalla prefazione).
[2] M. Bortolini, A Joyfully Serious Man: The Life of Robert Bellah, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2021, pp. 359-361 («Epilogue: The Joy of a Serious Life»).
[3] M. Bortolini, A Joyfully Serious Man, cit., p. 11.
[4] Sull’incontro con Bateson cfr. ibid., pp. 29-30; sull’espulsione dal Partito comunista di Bob e Melanie cfr. ibid., p. 35.
[5] R.N. Bellah, Apache Kinship Systems, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1952.
[6] R.N. Bellah, Tokugawa Religion: The Values of Pre-Industrial Japan, Free Press, Glencoe (IL) 1957.
[7] L’etichetta «the new Max Weber» sembra gli sia stata affibbiata per primo da Cantwell Smith. Cfr. M. Bortolini, A Joyfully Serious Man, cit., pp. 77, 305.
[8] R.N. Bellah, La Religione civile in Italia e America, a cura di M. Bortolini, Armando, Roma 2009.