di Antonio Casto
1. Introduzione: «L’hai visto? Dicono che…»
Vorrei dimostrare che già da alcuni anni è possibile spesso giudicare un film senza averlo visto, affidandosi tranquillamente ai suoi trailer, alla frequenza con cui spunta tra le sponsorizzazioni televisive o web, alla quantità di meme e mashup che lo riguardano che si riversano nei social, alla portata ed estensione del suo merchandising, alla diffusione nelle liste di «film dell’anno», alla proliferazione di tweet e articoli che ne parlano, alla visibilità che gli viene assegnata in critiche e recensioni, soprattutto all’intensità dei “l’hai visto?”, dei “che ne pensi?”, dei “devo ancora vederlo”, dei “dicono che” o “pare che” dei conoscenti: tutti segnali inequivocabili che il film (o se è per questo qualsiasi altro oggetto o fatto) è momentaneamente à la page, che «si porta», che è felicemente riuscito a trasformarsi in carrozzone virale su cui sarà obbligatorio arrampicarsi tutti come scalmanati per dire ognuno la propria, dal critico squisito alla casalinga di Voghera, prima che sia troppo tardi e il veicolo scompaia (per sempre) all’orizzonte (nel migliore dei casi entro qualche settimana).
Tutti questi elementi “intorno” al film non sono quasi mai fenomeni accessori e ausiliari, che emergono dal valore stesso dell’opera e si consolidano gradualmente nel tempo, ma piuttosto segnali appariscenti del fatto che la produzione ha efficacemente investito sul marketing più che sul prodotto. E perciò stesso abbiamo il diritto, mi sembra, di dare più valore ai contenuti del primo che a quelli del secondo.
2. Tran-tran del tam-tam
Il crescente potere dei sistemi promozionali, per esempio di un’inserzione sui social, consiste (a sua volta) non nel valore effettivo del prodotto che promuovono, ma nella pervasività non richiesta con cui compaiono, si insinuano, si moltiplicano nella nostra vita. Ripetitività ossessionante che infine costringe lo spettatore a credere indispensabile partecipare al nuovo “evento”, tartassamento che serve a generare quell’impellenza di esserci a tutti i costi, perché altrimenti non si saprebbe cosa dire quando poi – com’è inevitabile – tutti ne parleranno. È un fenomeno ben preciso, al quale gli americani hanno subito affibbiato una delle loro sigle: la FOMO, fear of missing out, cioè appunto il timore di perdersi qualcosa, estendibile a qualsiasi oggetto o situazione fruibili e “comunicabili” (un videogioco, una serata, un modo di fare vacanza). Tra l’altro, è il meccanismo su cui fanno leva i social network, senza il quale forse non esisterebbero. Tutto ruota attorno all’esigenza costante di restare connessi e sapere cosa gli altri stanno facendo, per giudicare, invidiare, e presto o tardi imitare: se nel giro di una settimana dieci persone con un certo numero di seguaci si fotografano in un certo luogo o situazione (un nuovo ristorante, l’Expo del 2015, determinate spiagge a metà agosto), in breve tempo lì s’ammucchierà la calca (si pensi a certi murali americani ingorgati dalla fila dei sedicenti influencer, décalage odierno della Gioconda perennemente sommersa al Louvre). Non c’è automatismo migliore da cannibalizzare per il meccanismo pubblicitario: bastano dieci Carhartt sfoggiati nei selfie di persone «seguite», per generare la slavina del logo[1]. Ma non divaghiamo.
Tra le cause che hanno indotto l’esplosione della FOMO si può annoverare, io credo, proprio questa moderna forma di marketing, il “creare l’evento imperdibile”, film/serie/programma/luogo/canzone di successo mondiale su cui bisognerà confrontarsi, discutere, che bisognerà acquistare o raggiungere e «condividere» (anche quando non è piaciuto), tra spezzoni, citazioni, post, repost, aperitivi, like, commenti, reportage e opinioni – insomma la vendita di un contenitore più che di un contenuto, da riempire con i “mi è piaciuto”, “non mi è piaciuto”, “ti è piaciuto?”, “è bello”, “è brutto” – opinioni tutte equivalenti (a loro volta valide per l’evento che tirano in ballo, mostrando così di essere “sul pezzo”, e non per ciò che sostengono) con le quali carburare la pura chiacchiera (proprio nel senso di Heidegger), indifferente e irriflessa, da sostituire la settimana prossima con il prossimo contenitore/evento che la soppianterà. Questa fissa dell’“evento” è tutta attorno a noi, e sta generando apposite figure professionali: organizzatori di eventi, promotori di eventi, creatori di eventi – sembra lessico da fenomenologia husserliana, invece si tratta perlopiù di serate in discoteca. Concentriamoci sui film: è diventato praticamente annuale questo andazzo del “film imperdibile” mondiale, ogni volta con picchi da isteria di massa che puntualmente si spengono nel vuoto appena il film sparisce (per sempre) dalla circolazione e gli entusiasmi (anche della critica) si tramutano in imbarazzata indifferenza. Un ovvio esempio sarebbe il Titanic, e si potrebbe risalire anche più indietro[2]. Ma più di recente, qualcuno è sopravvissuto al 2016 senza aver visto La La Land? Al 2017 senza aver visto Call me by your name? Al 2019 senza aver visto Joker? E chi ha osato rinunciare a Barbie? L’oggetto (soprattutto creativo) come avvenimento obbligatorio, meteora globale la cui rilevanza dipenderà solo dal fermento suscitato, non dalla sua qualità (fermento soltanto mediatico: fuss, buzz, ado, tam-tam – tutti monosillabi da lallazione asignificante)[3].
2.3 «He was an old man who fished alone…»I libri obbligatori
Per farvi un’idea della validità di un criterio simile, immaginate di redigere un elenco della letteratura, per esempio del xix secolo, affidandovi soltanto alle pubblicità dell’epoca, all’entusiasmo delle recensioni e alle statistiche dei volumi più venduti. Oggi suonerebbe come una lista di non pervenuti: chi si interessa più a Marie Corelli, a Paul et Virginie, Charlotte Temple, Les mystéres de Paris, se già quasi più nessuno legge Dickens? (Intanto i capisaldi della letteratura a venire vendevano zero copie.) E per gli ultimi cento anni? Tanto più, i manuali scolastici dovrebbero trattare solo Dan Brown, Harry Potter, Cinquanta sfumature di grigio, Twilight, per precipitare da noi in Italia addirittura a Va’ dove ti porta il cuore e Melissa P.
Ciò non toglie che il metodo dell’evento-da-guinness, del nome che passa sulla bocca di tutti e solo per questo diventa, tautologicamente, un must al quale bisogna dedicarsi, foss’anche controvoglia, conserva la sua efficacia. Ad esempio, per restare in ambito letterario, a nulla serve che certi grandi e autorevoli miti novecenteschi stiano inesorabilmente tramontando per la critica (Salinger) o siano stati furiosamente smontati molto presto (Hemingway da Macdonald, Wilde da Praz). Basta guardare le copertine di chi, in vacanze e su mezzi pubblici, decide di portarsi dietro per sciccheria libri del secolo scorso: si tratta puntualmente del Ritratto di Dorian Gray, di 1984/Fattoria degli animali, del Vecchio e il mare, di Siddharta; altrimenti sarà Il signore delle mosche, Il giovane Holden, Il grande Gatsby, forse Sulla strada; e null’altro sembra esistere di anteriore al Novecento se non forse qualche sporadico Dumas e la martoriata Madame Bovary, letta per le ragioni opposte a quelle per cui fu scritta (un po’ come Emma stessa prende terribilmente sul serio le sue letture romantiche) – insomma tutti quei libri che bisognerebbe aver cotto e mangiato magari anche con entusiasmo nella lontana adolescenza, ma un po’ sorpassati se li si affronta da adulti, e che invece i radi lettori odierni in cerca di alternative al contemporaneo si trascinano sul comodino magari per anni, fino alle soglie dell’anzianità, come catene al piede, gonfi di umidità e crepitanti di sabbia, insaccati di biglietti del treno e scontrini tra lidi, aliscafi e pressurizzazioni, dai quali si sollevano affranti gli sguardi di chi li ha scelti per autopunizione credendo che «vanno letti» perché alle medie se ne parlava tanto. (E nel frattempo attorno è tutto un turbinare di romanzetti estivi d’appendice la cui sola esistenza dovrebbe costituire un insulto per il lettore, capeggiati a ogni età e ovunque nel mondo dall’eterna infestante melensa novella di de Saint-Exupéry.)
3. Trailer
Prendiamo un “classico” della promozione cinematografica, i trailer. Il loro valore creativo e affatturante si è, come i film stessi, azzerato: oggi i trailer sono riassunti schematici dell’intera trama del film, dall’inizio alla fine; in altre parole mirano – in modo un po’ paradossale – a invogliare la visione togliendo ogni dubbio sul prodotto, così che nulla resti nascosto e il pubblico sappia subito in sintesi ciò che più lo preoccupa, cioè di cosa parla, e in secondo luogo quale stile o aria generale il film si vuole dare, cioè in quale cassetto pre-esistente inserirlo – altro elemento cruciale e rigidamente classificato: i film indie à la Mubi avranno occhi rossi che fissano il vuoto, tinte pastello, storie rarefatte di puri sentimenti e lunghi silenzi (che nel film vero e proprio dureranno ore interminabili), con scoppi non molto chiari di rabbia tra sputacchi e mocci al naso; il film di fantascienza/fantasy/supereroico/d’azione/thriller (la differenza si va facendo impalpabile) mostrerà un sommario degli effetti visivi più elettrizzanti, brevissimi singulti epilettici con esclamazioni monosillabiche (che il doppiaggio italiano avrà reso esilaranti), primi piani tesissimi e gente che insegue o scappa – non serve altro; il trailer del film italiano girato con quattro soldi e gli stessi cinque attori degli ultimi trent’anni avrà uggiose tinte seppia o fari sparati da teatro amatoriale, e farà addormentare già al primo fotogramma esattamente come il film stesso, mentre attirerà l’occhio dell’insegnante, soprattutto di italiano, soprattutto di provincia (i vari Dante, Il giovane favoloso – sostanzialmente sceneggiati per scolaresche; un titolo come L’ombra di Caravaggio è già tutto un programma di didascalismo).
Ben altra cosa era il trailer almeno fino a mezzo secolo fa: arte di invogliare senza dire, di incuriosire creando dubbi e non fornendo spiegazioni lapalissiane predigerite, di rimettere allo spettatore il giudizio, il decreto, il percorso interpretativo, insomma di creare lo stimolo a ficcare il naso nel film e non di imporre il monolite indigesto del polpettone a priori, la medicina cattiva che “va presa” per evitare la FOMO. Negli anni Quaranta il trailer era una forma d’arte, quasi un corto avulso dal film. Ecco il trailer di Scrivimi fermo posta: Frank Morgan (ex-mago di Oz) si rivolge agli spettatori e presenta uno per uno i dipendenti del suo negozio. Alla fine gli si affianca Lubitsch in persona: «L’uomo che vi ha fatto ridere con la Garbo, e che adesso vi farà ridere con Morgan». «Si spera…» puntualizza Lubitsch. Fine. Della vicenda del film non ci è stato detto nulla, eppure abbiamo respirato proprio quella deliziosa atmosfera, accomodante e distensiva, che lo caratterizza: siamo subito di casa. Ecco il trailer di Arsenico e vecchi merletti: «Your special attention is requested to a message of vital importance from Cary Grant»; seguono spezzoni dalla scena di Grant con la bocca tappata che mugola, e a ogni mugolio segue un cartello esplicativo del tipo: «Boy, oh boy what a picture!». Dove l’elemento cruciale è quel «vital importance», irrisione appunto della prosopopea smodata del «film da non perdere» (mentre è sempre il mattone che va propinato con squilli di tromba: «the most memorable event in the annals of motion pictures» parte subito sparato il trailer di Via col vento). Elegante understatement che rifuggiva dall’imporsi, anzi piuttosto minimizzava, auto-ironia ai nostri giorni definitivamente defunta, tra manchettes che annunciano solo libri del secolo e aggettivi solo superlativi per ogni stronzettino cagato da semi-analfabeti superbi e riscritto da editor spesso delusi dalla vita, e film «eccezionali» e «magnifici» che «hanno fatto ridere/piangere/sognare» critici anonimi «come non ridevo/piangevo/sognavo da anni» – eppure che nessuno avrebbe il coraggio di sorbirsi una seconda volta nemmeno se pagati per farlo.
Maestro del trailer fu anche Hitchcock (e quando mai). In primo luogo come personaggio-feticcio dei suoi stessi film, marchio di fabbrica di regista per antonomasia (e anche questa è promozione che avverte e non dice: basta un tratto di penna, una silhouette). Nel trailer per Psycho, Hitchcock accompagna lo spettatore per un tour del set, tra casa e motel, e in ogni ambiente accenna a indizi fondamentali o comincia a descrivere omicidi, ma si interrompe ogni volta perché troppo nauseato, con micro-sketch esilaranti. Alla fine, nel famigerato bagno, spalanca di persona la tenda della doccia. Stacco su una controfigura della Leigh che urla. Fine. Insuperabile è il trailer de Gli uccelli. «Mr. Hitchcock would like to say a few words to you». Hitchcock si fa avanti in uno strano studio/sala da pranzo, set irrelato agli ambienti del film, e in un lungo piano sequenza si dilunga sull’antico e duraturo rapporto tra l’uomo e gli uccelli, presentando ironicamente le nostre crudeli usurpazioni come fossero tratti di squisita raffinatezza (la caccia, la cucina, le penne sui cappelli, le gabbiette), da cui senz’altro anche il regno animale deve aver tratto vantaggio: «Surely the birds appreciate all we’ve done for them». Si noti che questa piccola rassegna storico-antropologica costituisce anche l’unico velato tentativo del regista di spiegare il comportamento degli uccelli nel film, e si trova solo qui, nel trailer, che quindi diventa perfino un commento – altro che un clistere della trama. Ma cominciamo a sentir gracchiare fuori dalla casa. Hitchcock si guarda attorno: «Most peculiar… What on Earth…?». Stacco drammatico su Tippi Hedren che entra e si chiude la porta alle spalle: «They’re coming! They’re coming!». Silhouettes di uccelli su sfondo bianco come nei titoli di testa del film. Fine.
Ci sarebbero altri esempi esaltanti, certi trailer di Kubrick, soprattutto Dr. Strangelove. Particolarmente istruttivo è il trailer di Lolita, che ruota proprio (con un’ironia autoreferenziale non dissimile da quella del romanzo) sulla piccante aspettativa del pubblico per il chiacchierato film tratto dallo scandaloso romanzo: brevissimi spezzoni o fotogrammi, su cui si addensa sempre più ossessiva e moltiplicata la domanda in tono oltraggiato: «How did they ever make a movie of “Lolita”?». Sembra quasi il trailer per un documentario sul film (e lo rimarca il fatto che il titolo “Lolita” compare sempre solo tra virgolette).
3.4 «Il guaio è che poi le ha viste veramente»
Fellini, con le sue impressionanti doti medianiche, aveva colto perfettamente il senso di questo gioco e il pericolo svilente delle anticipazioni, e così come sfuggiva alle interviste e alle domande troppo dirette, inventando di sana pianta le trame di film che aveva già scritto e girato, capiva anche, con acume quasi psicanalitico, che il massimo interesse lo si suscita restando il più possibile in ombra. E lo sapeva perché aveva toccato con mano un esempio del contrario, col polverone sollevato da La dolce vita. In un brevissimo backstage (tra i pochi documenti girati sul set di 8½, e per di più nell’ultimo giorno di riprese[4]), con poche parole essenziali spiega perché non ha lasciato trapelare nulla della trama del film. L’intervistatore gli chiede: «Sappiamo che lei non vuol parlare. Perché non vuole parlare?» «Mah, non voglio parlare… Prima di tutto cosa c’è da dire. Parlare delle intenzioni mi sembra sempre un atteggiamento molto goffo, tutto sommato abbastanza insincero e pericoloso, perché io m’accorgo che tutte le volte che ho riletto alcune dichiarazioni che ho fatto alla vigilia di un film, poi ho sempre dovuto pentirmene, così, con un senso di imbarazzo, di vergogna… Poi questo qui è un film che non ha niente da guadagnare a essere anticipato nella sua trama, nelle sue intenzioni…». Ed ecco le parole cruciali: «E poi perché non voglio che si ripeta un pochino quello che è successo con La dolce vita, si ricorda? La pubblicità così abnorme, dilatante, amplificata che ha avuto La dolce vita tutto sommato ha portato a far sì che lo spettatore sia andato a vedere quel film già sperando e credendo di trovarci certe cose che non c’erano – e il guaio è che poi le ha viste veramente, cioè si è creato un film diverso». Infine: «E poi non ne voglio parlare perché ormai ho stabilito così e non mi sembra il caso alla fine poi di…», si interrompe e conclude: «Perché, anche lei pensa che invece è una trovata pubblicitaria? Va be’ allora diciamo così, è una trovata pubblicitaria, contento?»[5].
4. Pubblicitààààà
Ma il trailer è solo la punta dell’iceberg. Con gli anni è diventato indispensabile fare sempre di più, “montare” ogni volta “il caso”, sempre più faticosamente, soprattutto quando comincia la competizione con la tv. Così pian piano dilaga il marketing più spicciolo e invasivo. Spielberg, soprattutto con Jurassic Park e E.T., e con lui l’amico George Lucas, sono i capostipiti di un cinema che (a voler essere buoni e non istigare le ritorsioni mortali dei vari fandom) è al 40% cinema e al 60% merchandising. Poi viene James Cameron, ingegnere di strategie promozionali epiche (non ultima convincere i cinema di tutto il mondo che è giunta l’ora del 3D, quando il tentativo era già fallito più di mezzo secolo prima) per film che sono enormi recipienti vuoti (diventati però lo stampo per ogni “filmone” americano dell’anno). E poi naturalmente c’è la Disney, caravanserragli di plastiche ed Happy Meals; gli hobbit e gli Harry Potter tallonati dalle loro pseudo-gotiche sottomarche fantasy, che esalano gli ultimi respiri da anni; i supereroi che partoriscono maniacali franchising epidemici, per i quali i film sono solo appendici trascurabili; Batmen e Spidermen a cadenze pluriannuali (e tutti a giudicare se l’ultimo è meglio o peggio del precedente, quando ormai è difficile distinguere anche solo i titoli), utili più che altro a vendere i relativi videogiochi. Tutto fa brodo, e a fronte di un prodotto anche insulso, il marketing che lo supporta può fare la differenza[6]. Ricordate quando, appena vent’anni fa, si poteva far credere addirittura che The Blair Witch Project fosse vero? Toccherà allora rivalutare D’Annunzio soprattutto in questa chiave, stratega pubblicitario che per tutta la vita spese un’immane quantità di energie in squallide, qualche volta disperate tattiche auto-promozionali, a partire dalla prima finta morte per caduta da cavallo.
Un buon esempio recente di questo sistema, tra i moltissimi possibili, può essere la serie Wednesday. Prima di tutto, il tema è un reboot, tanto per non rischiare (vedi 5.1). Poi, la critica e il pubblico hanno pacificamente ammesso che non contiene nulla di particolarmente esaltante o innovativo sotto nessun punto di vista. Ma – qui è l’assurdo – questo stesso fatto non implica un giudizio negativo sul prodotto, anzi. Ecco alcuni stralci dalla recensione del New York Times (corsivi miei): «reasonably well executed and entertaining», «among the post-“Harry Potter” proliferation of supernatural high school dramas»¸ «satisfying only on the level of formulaic teenage romance and mystery. On that basis it’s pretty tolerable, though», «She [l’attrice principale] doesn’t do much with Wednesday’s mean-girl punch lines, which is at least partly the fault of the writing […] She’s good, though»[7]. Insomma, bisogna proprio turarsi bene il naso per sorbirsi questa serie, ma a noi va bene così! Tenendo conto di questo risultato quasi preannunciato, la domanda diventa: com’è possibile che Wednesday sia diventata la seconda serie Netflix in lingua inglese più vista di sempre, peggio ancora: la seconda serie originale Netflix più “prenotata” di sempre, debuttando al primo posto in 83 paesi (una uniformità di risposta planetaria sinceramente inquietante)? È evidente che i fruitori hanno approvato a priori qualcosa che poco o nulla aveva a che vedere con il contenuto, ma solo con il tam-tam dell’evento. Difatti, anche qui il marketing è stato colossale, e a suo modo geniale, perché attirava il pubblico proprio gettandogli in faccia la sua stessa inedia: i manifesti pubblicitari consistevano in cartelli retti dalla protagonista, del tipo: «Suona il clacson se sei morto dentro», «Questo ascensore è l’unica cosa che ti solleverà oggi», «Congratulazioni, hai alzato lo sguardo dal tuo strumento elettronico che ti succhia l’anima», in cerca di una complicità con quell’esaltazione della noia così diffusa oggi, quell’alzata di spalle a tutto che per esempio vediamo all’opera proprio nella recensione del New York Times. La campagna pubblicitaria si è andata a posare perfino sui vassoi per i controlli di sicurezza negli aeroporti, sul fondo dei quali si leggeva, di fianco al volto della protagonista: «No sharp objects? What a shame». Il vero tormentone però è giunto con un meme: un breve spezzone di una puntata, modificato in modo che la protagonista sembra ballare su un’altra canzone (e da lì tutta una ramificazione con vari altri sottofondi); effetto amplificato dall’inevitabile ripresa del balletto da parte di varie “star”, mentre la canzone utilizzata, che risale a più di dieci anni fa, ha subito scalato varie classifiche nazionali. A questo punto, attratti dal successo del meme, o per capirne l’origine, anche i pochi che non si erano ancora accorti del successo “prenotato” della serie, avranno sentito l’impulso inevitabile di cercarla e quantomeno informarsi, per non essere travolti dalla FOMO. Ecco dunque – per riassumere – le due tappe essenziali: pubblicità preparatoria, che spinge la serie in cima alle classifiche prima ancora dell’uscita; dieci secondi di balletto, con la musica originaria modificata. In mezzo, il nulla (con la conferma della trascurabilità del contenuto nelle recensioni). Coda: la serie è stata subito rinnovata per una seconda stagione, e indovinate di cosa parla il primo trailer diffuso: «Nelle scorse settimana» racconta la protagonista «sono stata imitata milioni di volte su Internet» (segue uno spezzone del meme) «Una vera tortura. Grazie». Qualche immagine di gente affollata in attesa di Tim Burton che si affaccia a un balcone a salutare, e l’annuncio della nuova stagione. Nel sottofondo, la canzone del meme… (Chissà se l’inventore responsabile dell’abbinamento ci avrà almeno guadagnato qualcosa.)
Questa categoria di fenomeni ha un nome. Sono i cosiddetti “paratesti”, il termine coniato da Gérard Genette per descrivere i materiali che circondano un libro e ne dipendono pur non facendo parte dell’opera stessa (copertine, indici, ma anche interviste, articoli, manifesti), termine tanto più calzante per i prodotti mediatici in generale. E siccome tutto oggi appare sotto specie di prodotto mediatico, anche gli eventi stessi della realtà, a ben vedere potremmo dire che il paratesto è diventato uno degli elementi fondanti del nostro tempo. «L’industria mediatica destina regolarmente più soldi alla produzione di paratesti promozionali che non all’opera stessa. Spesso i paratesti occupano decisamente più tempo e spazio dell’opera in sé (per esempio possono raggiungerci due anni prima del film; possono comparire sui nostri motori di ricerca o alla fermata del bus; i “director’s cut” possono seguire il film a diversi anni di distanza), e in certi casi costituiscono l’obiettivo principale, come per i giocattoli “paratestualmente” associati ai programmi per bambini negli anni Ottanta»[8].
Paratesto per eccellenza è la pubblicità, talmente ramificata ed estesa attorno a noi da essere diventata a sua volta oggetto di paratesti, da assumere l’autorità e le sembianze di testo a sé (per esempio il product placement in film già semi-pubblicitari, o le sponsorizzazioni sui social che ci appaiono indistinguibili da post che potremmo effettivamente seguire), proprio perché non esiste più niente che non sia già discorso o promozione di qualcos’altro[9]. È un vessillo della nostra epoca, «l’insegna stessa del nostro millennio» secondo il genio come sempre oracolare e numinoso di Calasso, quelle magiche «tre parole… “We run ads”, “Abbiamo la pubblicità”», con le quali Mark Zuckerberg aveva risposto «a un senatore che non riusciva a spiegarsi in che modo Facebook guadagnasse denaro, anzi molto denaro». «Nel 1963, nessuno immaginava che mezzo secolo dopo la massima concentrazione di denaro sarebbe derivata non dal petrolio ma dalla pubblicità»[10].
4.4 «Ma che volete di più dalla vita?»
E potremmo affidarci di nuovo a Fellini, primo, acutissimo, disincantato osservatore del degrado anche pubblicitario, questo regista sempre liquidato in modo sbrigativo e un po’ paternalistico come “visionario”, che invece resta l’unico ad aver descritto con assoluta e antropologica esattezza l’Italia. Qui non mi riferisco ai famosi paparazzi, ma a Ginger & Fred, con la sua pubblicità onnipervasiva, con l’allora neonata Mediaset (oggi fusa alla Rai, che ne ha assimilato personaggi, contenuti, faziosità e filtri luce), rappresentata usando quello che nel 1986 poteva sembrare furore grottesco, ma che visto oggi pare un semplice documentario perfino edulcorato sul presente (il breve monologo introduttivo di Franco Fabrizi, gonfio presentatore dell’indegno programma “Ed ecco a voi…”, con le sue frasi al contempo insipide e sciroppose, pieno di nulla, potrebbe stare perfettamente in bocca all’abominevole presentatore dei nostri Grande Fratello[11]). E fuori dagli studi televisivi, una città che non si può qualificare meglio se non con l’aggettivo “assediata”: basta aprire lo sportello per essere travolti da un’inondazione di disperati, matti, drogati, musicaccia, carcerati, extracomunitari che somministrano pacchi di fazzoletti e fiori, gente che chiede una comparsata in tv, tra strade intasate, affumicate, affossate, affogate, pericolose, dove non si può uscire a prendere una boccata d’aria neanche mantenendosi nei pressi dell’entrata all’albergo (appena Giulietta si affaccia rischia di essere rapinata o peggio), monnezza fumante, cartelloni troneggianti, televisione onnipresente, eternamente accesa mentre gli altri parlano, cotechini giganti, salsicce e polente, tette e mortadelle; e perfino quando, finalmente, ti chiudi a chiave nella tua stanza, e in teoria ti lasci il mondo alle spalle, un faro verdognolo si insinua e sonda flemmaticamente le pareti: l’isolamento non esiste più.
4.5 Lo spettatore di paratesti
Ma torniamo da dove abbiamo cominciato. «Se un testo consiste di opera e paratesti, di un’opera e dei suoi orpelli sociali, il suo pubblico consisterà di tutti coloro che hanno interagito non solo con l’opera ma con qualsiasi dei paratesti e/o degli orpelli sociali»[12]. Un corollario di ciò è che la diffusione e il successo di un prodotto non sono più un’incognita, possono essere decisi in anticipo: basta scegliere quanta parte del budget destinare agli ads, al marketing, alla promozione (o dovremmo dire alla propaganda). In altre parole, oggi la popolarità di un film (e di qualsiasi altra cosa) dipende quasi per intero dalla disponibilità economica in partenza di chi lo pubblicizza – uno strano, apparente sovvertimento dei fini della produzione. È un processo così astratto che comincia a valere non più solo per gli oggetti, ma anche, come accennavo, per le persone e per gli eventi stessi della realtà, per ciò che succede: dei fatti che avvengono nel mondo, ci si limita a plasmarli in clip spendibili, notizie faziosamente appetibili, meme tormentoni passeggeri, interpretazioni sempre solo parziali per irritare qualcuno, glorificare qualcun altro, di cui sappiamo già cosa se ne dirà e chi ne trarrò profitto. È lo stesso meccanismo per il quale ormai conosciamo con grande precisione i risultati delle elezioni prima che si tengano. Potere dei grandi numeri e della viscosità acefala delle masse. Vorrei arrischiarmi (se me ne intendessi di più) a considerarlo un esito quasi metafisico del capitalismo: dal produrre prodotti che non soddisfano esigenze, al produrre puro desiderio di prodotti, a produrre il successo anticipato di un prodotto solo fantomatico, di cui non c’è nemmeno più bisogno: si monetizza la pubblicità, non serve vendere davvero qualcosa.
Secondo questa definizione generale e inclusiva di pubblico, anch’io, che non ho visto Barbie, faccio parte (senza possibilità di sfuggirvi) del suo pubblico, e in quanto tale ho il diritto (almeno quello) di parlarne.
5. Barbie
Basta ripercorrere quanto abbiamo visto finora e applicarlo al film. Prima di tutto, vediamo che si opta sempre per un soggetto già noto. È sempre più difficile trovare una storia originale, una trama elaborata a partire da zero, che non riguardi qualcosa di già esistente, già avvenuto, già narrativizzato altrove: sequel, prequel, reboot, ricordi, riduzioni, trasposizioni, trazioni da, ispirazioni a (che ormai significa parodia di), basamenti su, idee di. Occorre sempre garantirsi dall’inizio almeno una fetta di pubblico già fedele con un argomento acquisito. In questo caso, il franchising Barbie. Altrimenti, si può puntare sulle problematiche: le storie di extracomunitari attirano moltissimo certo pd educativo di provincia. Oppure i mafiosi e le periferie analfabete, un vero marchio italiano nel quale, a giudicare dal successo, si rispecchia la maggioranza della popolazione. Le donne che lottano per sopravvivere (di solito Jasmine Trinca). Oppure si ricorre alle minoranze, dette anche tematiche: il film a tematica gay – e tutti i gay dovrebbero andare docili e fedeli a comprare il biglietto perché li riguarda –, il film a tematica etnica, il film a tema disabilità (quando l’anno scorso mi capitò sotto gli occhi la locandina di un film intitolato Corro da te, con Favino in sedia a rotelle, ho dato per scontato che fosse un meme comico, salvo poi ritrovarlo esposto in (qualche) cinema – e siccome una vera commedia con un disabile non sarebbe immaginabile, perché disabile = compassione e tragedia, il protagonista nel film finge di essere disabile).
In secondo luogo, Barbie sarà un ottimo esempio di contenuto assente, in quanto già predeterminato dai suoi contesti e paratesti. E qui è dove si può pronosticare il film più nel concreto. Tutto nasce a livello aziendale, dove si prende la decisione (puramente pubblicitaria) di produrre un film su Barbie (meglio sarebbe dire: di rinforzare il mercato delle Barbie mediante un film). C’è insomma un oggetto da imporre dall’alto, che deve filtrare attraverso un lungometraggio. In altre parole, non si parte da una idea (imprevedibile) di qualcuno su Barbie, bensì bisogna spalmare Barbie su un’idea (che dovrà essere quindi un insieme di idee già assestate, per andare sul sicuro e attirare più o meno tutti). Spazio ce n’è a volontà, perché sappiamo che oggi basta nominare in modo didascalico un tema per dare l’impressione di averlo “affrontato” e suscitare commenti e vespai. Parte allora il brainstorming per gli addetti al lavoro creativo: quali temi deve trattare un film su Barbie? E si stila un elenco programmatico, che andrà rispettato e incastrato nella trama punto per punto. Per esempio, non mancherà tutto lo spettro della «questione» femminile: patriarcato, femminismo, empowerment delle donne e donne ai vertici del potere, stereotipie femminili da combattere, peso del giudizio sull’aspetto fisico, e all’opposto mascolinità tossica, depauperamento della figura maschile, inversione/fluidità dei generi, machismo, stereotipie sessiste – tutto il bagaglio rococò del lessico “progressista” odierno. Poi, si dedicheranno due o tre scene ironiche a capitalismo, produzione in serie, commercializzazione di massa, consumismo, regresso della società. E naturalmente si vorrà infondere leggerezza e buonumore nello “spinoso” problema della bambola magra bianca bionda quale pernicioso status symbol – e quindi via di contrasto con inscalfibili prese di posizione contro razzismi, fascismi e body shaming, smodata esplicita inclusività LGBTQIA+, minoranze, handicap ecc., di tutto un po’ (giuro che non lo so, ma sono certo che il film contiene almeno un personaggio queer, una Barbie sovrappeso sicuramente molto simpatica e forse un po’ sboccata, una nera di successo). Siamo nell’ambito automatizzato di quella mania del voler far felici tutti, di temere che un sì o un no netto a qualcosa venga subito interpretato come discriminazione, quel patologico evitamento del conflitto anche solo immaginato che oggi impera e che ha già trascinato l’azienda a produrre in serie modelli di bambole con decine di carnagioni diverse, etnie (paradossalmente iper-stereotipate), vestiarî di professioni e mestieri tradizionalmente mascolini e ai vertici del potere, pesi e misure accomodanti, e poi carrozzelle, alopecie, arti mancanti, sindromi di Down, vitiligine (che oggi tira tantissimo), nel tentativo disperato e compulsivo di «rappresentare» ogni condizione genetica, fisiologica, medica. Il risultato è che tra un po’ alle “dreamhouse” bisognerà sostituire i lazzaretti (allora perché non Barbie anoressica? e a quando la Barbie con flebo della chemio?). In ciò si riproduce bambolescamente proprio quell’ossessione nominante e categorizzante che è uno dei tratti distintivi della nostra epoca, quella rivendicazione pedestre di diritti per ogni singolarità che si converte paradossalmente nel suo opposto, cioè una sempre più minuziosa, frattale scomposizione, separazione in gruppi, segregazione, tribù, ghetti di ghetti, minoranze di minoranze, attraverso le quali tracciare confini sempre più rigidi, sempre più austeri e impietosi, riducendo la propria personalità a una caratteristica soltanto, fino al risultato finale di impedire qualsiasi comunicazione e ingabbiare ciascuno in una sua incommensurabile, onanistica individualità (guarda caso poi indistinguibile da quella di tutti gli altri).
Il fatto che una costruzione di questo tipo, meccanica, da tema scolastico benché volta al sorriso (il tipico modello «quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così», secondo gli EelST), il fatto che una lista da spuntare con freddezza sia effettivamente in grado di garantire l’automatica popolarità di un prodotto, è anche, secondo me, il motivo alla base del temuto, potenziale successo dell’“intelligenza artificiale”: un mezzo rovinosamente piatto, rigido e stolto, che da strumento adatto a impostare l’agenda o organizzare e abbozzare informazioni finisce per diventare autore di intere sceneggiature prese sul serio. Il problema grave infatti non è l’utilizzo dell’AI in ambito creativo, ma il fatto stesso che un prodotto derivante da tale eventuale impiego oggi riscuoterebbe successo, ovvero che possa generare profitto un’opera creativa ricavata da un semplice elenco di regole, tattiche e tematiche anodine, riassunti Wikipedia. Se c’è chi teme che questa possibilità sussista, è proprio perché i film vengono già oggi scritti in questo modo elementare e ciò nonostante considerati passabili o addirittura belli (vedi 4.2). Ecco il vero guaio. Ma non divaghiamo.
5.3 Fucsia rules
Infine, Barbie è un esempio perfetto di quella logica oppressiva dei paratesti su cui ci siamo soffermati all’inizio. Il budget assegnato alla promozione del film è stato, leggo, di 150 milioni di dollari, contro 145 milioni impiegati per girare il film – e forse basterebbe citare il rapporto tra queste due cifre senza aggiungere altro. Le prime immagini promozionali sono apparse più di un anno prima dell’uscita, il primo trailer più di sei mesi prima. Da allora è stato impossibile sfuggire al martellamento: immense promozioni incrociate su tutti i canali Warner Bros., bar temporaneo a New York, varie «dreamhouses» tirate su dal nulla in giro per il mondo, crociere a tema, Xbox fucsia, case di Barbie disponibile su AirBnB, e intanto instagrammer e influencer di corsa a fotografarsi in rosa o nelle scatole finte a misura d’uomo (di donna?) e davanti ai poster, fino alla perversione estrema: pagare Google stesso (in teoria un strumento al di qua delle informazioni) per colorarsi di viola e brillare a qualsiasi ricerca sul film o sugli attori e personaggi connessi[13]. Poi, come una “meta-pubblicità” nel film-pubblicità, gli invadenti product placements diventati ormai d’obbligo, vistosi, segnalati da primi piani appositi, dettagli da telemarketing su rete privata[14].
Come se non bastasse, forse temendo che l’ennesima pianificazione del “film-evento” non avrebbe retto, ecco la monumentale e ingiustificata impalcatura della fusione con l’altro film-mattone rivale dell’anno, anch’esso dal successo già preannunciato e programmato: Oppenheimer[15], volutamente distribuito lo stesso giorno almeno negli Stati Uniti, con la scusa ridicola di voler fornire un’alternativa («controprogrammazione») per chi non volesse vedere Barbie. L’obiettivo vero naturalmente è che i film si fomentino a vicenda in un circolo vizioso. Invece ecco subito tutti i critici tuffatisi a cercare (e trovare) congruenze e somiglianze tra le due pellicole al di là delle apparenze, con tanto di intervento žižekiano e addirittura citazioni (annacquate) da Proust[16]. Senza rendersi conto (forse) di fare così proprio il gioco pubblicitario, cioè di rinforzare l’idea del “doppio evento”. «Bisogna vederli entrambi!» hanno subito detto tutti, «A guadagnarci è il cinema» ha inneggiato l’attore di Oppenheimer (al quale l’attrice di Barbie ha pubblicamente chiesto una maglietta autografata), «È bello avere così tanta scelta al cinema!» hanno rincarato altri, sostenendo l’esatto opposto di ciò che rappresenta questa operazione, perché l’idea sottesa al «Barbenheimer» (il termine si è subito meritato la sua pagina Wikipedia) è proprio il contrario di una libera scelta, anzi è un tipico dispositivo pseudo-libertario: due opzioni fintamente contrapposte che in realtà costituiscono un unico obbligo raddoppiato: se non ti interessa un film, dovrai andare a vedere l’altro; ovvero, truccare il gioco eliminando le alternative.
Ecco un altro dei nodi cruciali del nostro tempo: questa sfrontatezza di vendere qualcosa come fosse il suo opposto, descrivere un’azione come il suo contrario, sostenere l’opinione antitetica a ciò che si fa. Ci siamo abituati, sembra, al depauperamento immediato anche delle alternative valide, non vendute dall’alto: tutto scade subito, tutto è subito inglobato e pervertito, anche – soprattutto – ciò che conta. Un’idea magari potente, che afferma qualcosa di valido contro un certo modo di fare le cose, viene subito tradotta in magliette, prodotti per la pelle promossi da influencer analfabete, costumini arcobaleno. E viceversa, più un oggetto è insulso, più lo si propaganda come rivoluzionario (lo smalto come emblema di libertà). La verità viene immediatamente assorbita dalla menzogna, e protestare vuol dire essere inclusi. Il lessico contemporaneo è ricco di segnali di questo processo, a partire dal fatto che viviamo in una realtà in cui la parola “letteralmente” è utilizzata sempre solo in senso figurato (che è poi una delle definizioni della schizofrenia). Le proteste alla società si integrano perfettamente nel suo meccanismo. Alcuni esempi: paillettes e crop shirt lastricati di slogan di massa contro il patriarcato, “lotta” riversata per intero (ed estinta) nel tunnel dell’industria; svendita del corpo come mezzo per “sentirsi sé stessi”; installazioni artistiche e proteste anticapitalistiche gonfie di “è ora di reagire” perfettamente integrate nei meccanismi ottusi e multimilionari delle biennali e delle organizzazioni con stand di cineserie in vendita; band “trasgressive” perché fumano gli spinelli e hanno maschi che si truccano (con almeno settant’anni di ritardo su Little Richard, se proprio non vogliamo risalire a Beau Brummell), suonando blando hard rock da scuole medie; pedestri vacanze a Ibiza pubblicizzate come «atto politico»; empowerment femminile tradotto in ascelle non depilate (anche qui, si potrebbe risalire parecchio indietro…) e film su Barbie ma «girato da una donna». Potremmo andare avanti a piacere. Quanto siamo lontani da quel pudore anti-dichiarativo dell’intervista a Fellini[17]. Eppure dovremmo sapere già da Freud che esplicitare una verità significa automaticamente trasformarla nel suo opposto. Ma non divaghiamo.
5.5 «scolamangi – La pasta che fa dimagrire»
In Barbie vediamo questo meccanismo all’opera continuamente, a ogni livello. Nella sedicente critica al consumismo e alle multinazionali inserita in un film che è pura promozione mondiale. Nell’immensa operazione di marketing di un prodotto dalle implicazioni sorpassate e insostenibili (anche tralasciando il corpo e il patriarcato, stiamo pur sempre parlando di una bambola di plastica…) etichettata come film anti-patriarcato e anti-body shaming, con una o più donne alle redini del progetto. Nel potenziare la pubblicizzazione canonica, tutta fucsia e plastica, per la fascia culturalmente medio-bassa, accoppiandola alla regista di area hipster femminista per titillare il pubblico soi-disant alternativo e convincerlo che si tratta anche di un’operazione “critica” nei confronti della bambola[18]. Per inciso, la categoria dei, diciamo, “radical chic”, è importantissima in questi casi, perché è quella che può permettersi di spendere di più, e soprattutto che – tra critiche, articoli, tweet e passaparola – parla e fomenta il “discorso” pubblico[19], che “intavola la discussione” su un certo prodotto creativo e quindi ne garantisce il passaggio da oggetto di successo soltanto commerciale a caso dell’anno, amplificandolo esponenzialmente con effetto valanga – un’attività a cui l’intellighenzia puntualmente, stupidamente si presta ogni volta che c’è qualcosa che invece sarebbe tanto meglio passare sotto silenzio. Combriccole di “alternativi” così sorprendentemente pronti ogni volta a farsi infinocchiare dalle campagne pubblicitarie, convinti che di un certo fatto bisogna in quel momento per forza “parlare”, casomai male, e cercando di convincerne tutti attorno a loro tra cene e aperitivi e chat di gruppo, ripetendosi addosso gli stessi due o tre articoli appena scrollati o caption lette di passaggio, infarcendosi di quei «ti dirò, a me non è dispiaciuto» e «alla fine è divertente» e «ha degli spunti interessanti»: la meta-conversazione con la quale chi è convinto di essere un intellettuale militante vuole lasciar intendere che sa anche lui godersi l’«americanata» (ma guarda caso solo quella che “va” in quel determinato periodo). Ma non divaghiamo.
Così, non si esclude nessuno. Del resto lo dichiara esplicitamente lo slogan principale del film: «If you love Barbie, if you hate Barbie, this movie is for you» – di nuovo la finta scelta, in realtà obbligo totalizzante: l’importante è che tu ti senta costretto a formulare un’opinione, buona o cattiva che sia (non ci interessa), e che compri il biglietto (o il prodotto)[20].
E il modello che abbiamo descritto – vendere qualcosa come sé stesso e come il suo opposto – continua nell’aftermath del film, per esempio nel giubilo col quale si annuncia che per la prima volta una regista donna ha diretto un film con incassi da oltre un miliardo di dollari: è davvero un traguardo che per far guadagnare tanto a una regista il film debba parlare di Barbie ed essere una lunga pubblicità che ha speso la maggior parte del budget in promozione? Rappresenta davvero una grande festosa «esperienza collettiva» (parole del presidente del marketing di Warner Bros.[21]) il fatto che sciami di spettatori e in particolare di donne si siano presentate alle proiezioni come zombie in completi rosa? (Ho saputo, non so se sia vero, di scene apocalittiche nel foggiano, dove ragazze si sono accapigliate perché ciascuna sosteneva di essere più Barbie dell’altra, con le madri accompagnatrici presenti che fomentavano ciascuna il proprio scarrafone).
Comunque, l’abbiamo detto, a questo gioco non si sfugge, se non premendo quell’unico tasto che ancora ci resta per esercitare un briciolo di potere concreto, cioè il tasto off. Vedete bene che ho ceduto anch’io, quando invece, come dicevo, bisognerebbe mantenere il silenzio sugli eventi gonfiati o cattivi (la risposta migliore a “Che ne pensi di…?” resta sempre “E chi/cosa sarebbe?”). Ma almeno non ho comprato biglietti. E con le ore non spese nel «Barbenheimer» ho pulito bene casa. Con i soldi risparmiati faccio la spesa.
Note
[1] Vale per tutto, anche per gli esseri viventi: la Disney per esempio fu responsabile di un aumento esponenziale dei dalmata nel 1961 – la maggior parte dei quali abbandonata nei canili qualche mese dopo. Oggi furoreggia il French bulldog, una sorta di terrificante esperimento genetico, dotato di una testa per sua disgrazia considerata irresistibile, ottenuta al prezzo di un crudele coacervo di malattie croniche e dolorose (nonché esose, a cominciare dal parto obbligatoriamente cesareo) che di rado gli permettono di superare i 5-6 anni di vita: «Più una razza acquista prestigio, peggiore diventa il suo futuro» (https://tinyurl.com/387u8pxy).
[2] Vedi 4.1.
[3] Si potrebbero citare eccezioni nelle quali la portata del fermento corrispondeva all’effettivo valore del film, ma di solito in questi casi lo scalpore suscitato dipende da fattori che nulla hanno a che vedere con il valore del film. Un esempio è La dolce vita, per il quale vedi sotto, 3.4.
[4] Vi si respira l’atmosfera notoriamente magica e irripetibile di quelle riprese. Dopo le brevi ma strepitose interviste a Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Sandra Milo, la Saraghina Eddra Gale e Barbare Steele, vediamo Fellini passeggiare con impercettibile fastidio fuori dal set dell’ultima scena e dire: «È un film che non mi è costato nessuna fatica, che si è svolto così quasi all’insaputa di me…», e poi, come facendosi violenza: «E oggi è finito…».
[5] A proposito di interpretazioni inutili, queste parole permetterebbero di leggere 8½ quasi come una reazione fisiologica a La dolce vita e al clamore che aveva suscitato (dopo la prima riflessione de Le tentazioni del Dottor Antonio): un film su un film grandioso e apocalittico parassitato anzitempo da critiche e commenti, che forse è meglio non girare, che anzi non si gira, di cui ci si dimentica freudianamente la trama e restano solo immagini e sensazioni vaghe, per non essere storditi e violati dalle opinioni altrui.
[6] «Lo slogan attesta e crea nello stesso tempo le maggioranze… L’innocente formuletta che ai giorni nostri sigla la pubblicità di certi prodotti (“il più venduto in Italia”) ricalca esattamente quel meccanismo; attesta una supremazione, e la consolida, o la propizia.» (Geno Pampaloni in un insospettato commento ai Promessi sposi, Istituto Geografico DeAgostini, 1984, p. 272).
[7] https://www.nytimes.com/2022/11/22/arts/television/wednesday-review.html.
[8] J. Gray, Dislike-Minded. Media, audiences, and the dynamics of taste. NYU Press, New York 2021, pp. 33-34.
[9] Come i nostri profili virtuali sono diventati dichiarate sponsorizzazioni di noi stessi, e di riflesso gli altri ci appaiono oggetti interscambiabili e trattabili come tali, relegando ormai al passato la costruzione lenta, accidentata, inevitabilmente faticosa dei rapporti interpersonali. Ma non divaghiamo.
[10] R. Calasso, Come ordinare una biblioteca, Adelphi, Milano 2020, pp. 114-115.
[11] «Buon Natale. Queste due magiche parole, ma sì, confessiamolo, ci fanno tornare ancora oggi tutti bambini, come quando attendevamo trepidanti quella notte straordinaria che ci faceva sperare che qualcuno, lassù, dal cielo stellato, avrebbe ascoltato la nostra voce e avrebbe esaudito i nostri desideri, in un mondo di festa e di pace.»
[12] J. Gray, Dislike-Minded, cit., p. 36.
[13] Ma questo è il futuro: anche cercando The Super Mario Bros. Movie, Google propone il cubo di mattoni col punto di domanda cliccabile (200 punti a clic).
[14] David Lynch: «Product placement in a film putrifies the environment. It’s so absurd. But it’s happening more and more. What kind of a world is this?».
[15] Anche qui, 100 milioni di dollari per girare il film, 100 milioni di dollari per pubblicizzarlo, con quel lunghissimo e pedissequo trailer che ci ha tormentato per mesi prima di ogni proiezione al cinema, ottimo esempio di un trailer che è il film: tutti ne parlavano come se fosse sostanzialmente già uscito, le opinioni già formate, il successo già assicurato… C’era proprio bisogno di andare a vederlo?
[16] In un articolo che sembra uno scherzo ma è citato (forse aggiunto dall’autore stesso) su Wikipedia. Vi si legge per esempio: «Barbie scava molto a fondo nella filosofia del significato e dell’esistenza». O ancora: «Essendo un amante della filosofia, delle grandi idee e del pensare in grande… mi entusiasma il fatto che questi film siano così profondi» (https://tinyurl.com/arwnc4s9). Non l’avrà scritto l’AI?!
[17] Ecco un esempio concreto e quasi militante del non voler esplicitare: guardate la distanza incommensurabile tra le domande analitiche dell’intervistatrice e la resistenza quasi esoteriche che vi oppone Lynch in questo stralcio di intervista su Lolita (https://tinyurl.com/ycyjdj8h).
[18] Questa è la ragione del trailer che strizza l’occhio ai cinefili, per “apparire” in un target altrimenti irraggiungibile con il solo tema-Barbie. In questo caso il metodo di esplicitare dall’inizio alla fine la trama non può funzionare, se la trama è totalmente al servizio di un prodotto, al massimo di un elenco di temi pre-convalidati (vedi 3.1). Esattamente come il trailer per un film come, mettiamo, Sulla mia pelle non può contenere altro che primi piani di Borghi/Cucchi con la faccia pesta, casomai scortato da carabinieri tra un corridoio e l’altro.
[19] Anzi il discorzo, secondo il lessico politico di Arbasino: «predominio di un interminabile “discorzo” o “dibbbattito” a più voci sovrapposte che si confondono e annullano […] in continui ‘fervorini’ serali per il popolo gregario e ininterrotti congressi e convegni di presenzialisti assatanati e sbraitanti» (Paesaggi italiani con zombi, p. 93 – questo libro ha venticinque anni ma può essere riletto ogni giorno come un commento ai fatti della settimana).
[20] Sarebbe lo slogan perfetto di Sanremo, perché è un po’ il suo modo ormai esplicito di vendersi: “forniamo un programma patologicamente insulso, vuoto, inutile, scadente, retorico e di cattivissimo gusto, ma guardateci proprio per questo, così potrete lamentarvi! Tanto cosa c’è di meglio?”.
[21] https://tinyurl.com/msm63235
[Immagine: Federico Fellini, Ginger & Fred].
Ho riso
Spero che la tendenza verso la diminuzione dell’individualità e di un modo unico di esprimersi cambi.