di Filippo Saccardo

 

L’utilizzo del termine “soggetto” nell’ambito della psicologia accademica e sperimentale è considerato deprecabile. Suona sempre più spesso come una di quelle parole che l’uso corrente ha relegato nell’alveo del politicamente scorretto. Le prime volte ero piuttosto scosso da questa presa di posizione, poi con il tempo mi sono piegato ad utilizzare sinonimi considerati più rispettosi come “partecipante” o il più generico “persona”, con buona pace di revisori e docenti. Non pensavo però che avrei dovuto rinunciare ad un termine che trovo invece molto ricco di sfumature semantiche e niente affatto riduttivo. Vorrei qui tentare una difesa in extremis di questa parola e ripercorrere, senza pretese di esaustività, cosa comporta diventare soggetti tentando di evidenziarne i significati che rischiamo di perderci e al contempo sottolineare la ricchezza filogenetica che si cela in questo termine. Rinunciare ad utilizzare un termine significa restringere il nostro orizzonte lessicale e semantico laddove invece dovrebbe essere continuamente ampliato. «I limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo», scomodando Wittgenstein[1].

 

Dal subiectum al s-oggetto

 

Penso che la reticenza nell’impiegare questo scabroso termine sia legato al timore che una persona si senta reificata, questa è l’unica spiegazione che mi sono dato in questi anni rassegnandomi a questo lutto lessicale. Il subiectum è etimologicamente ciò che soggiace, che è posto sotto. Ma a cosa soggiace? A partire dal concepimento, l’essere umano è prima di tutto l’oggetto del desiderio di due persone, che lo vogliano o meno, aggiungerebbe Françoise Dolto. Può anche essere definito, meno romanticamente, come il risultato dell’incontro tra due corpi di sesso biologico opposto. In termini meccanicistici è quindi assoggettato alle scelte e ai comportamenti altrui; di qui le recriminazioni dei giovani «non ti ho chiesto io di nascere!». Subiecta è dunque la vita intrauterina assieme al periodo neonatale e all’intera infanzia, periodi che necessitano di una presa di cura da parte di altre persone, altri significativi. Il soggetto infatti non è mai solo, il suo sviluppo è sempre legato ad un altro corpo secondo uno schema di dipendenza. Lo sviluppo psico-fisico-affettivo è determinato dall’interazione con la madre e con i caregiver in generale. Allo stesso tempo, fin dai primi mesi, i neonati intraprendono un processo che li condurrà a percepirsi a livello fisico e cognitivo come separati dalla madre. Nella linea del tempo evolutivo si assiste ad un passaggio dalla con-fusione del corpo neonato con il corpo materno alla sua dif-fusione, verso l’autonomia fisica. Già durante gli ultimi mesi trascorsi nell’utero i bambini iniziano a costruire un sé corporeo attraverso meccanismi di autopercezione, quando, ad esempio, le mani inavvertitamente toccano il viso. Dalla cesura ombelicale prendono forma due enti: l’io e l’altro, il (proto)sé e l’altro-da-sè, cui ogni soggetto si appellerà per il resto della vita e da cui verrà determinato, ovvero s-oggettivizzato.

 

Subiectum è prima di tutto relazione, relazione primaria con la madre, con l’Altro. Relazione che è possibile solo a partire da una perdita: la fusione identitaria. La relazione si gioca tutta nella costruzione del campo semantico in cui il bambino e la madre sono immersi, attraverso il processo di significazione. Conferire significato a tutto ciò che non è io, è prima di tutto una necessità ma si fa necessità dal carattere generativo. Genera infatti senso, genera mondi e spazi di comprensione. Il linguaggio va concepito come motore fondamentale del processo di s-oggettivazione. Nel linguaggio avviene la separazione dei soggetti (dopo la cesura fisica tra i due corpi) e l’identificazione di un tu, che, quando rivolto a noi, si traduce in Io. Il linguaggio permea così la relazione e le sue mancanze. «Negli intervalli del discorso dell’Altro – dice Lacan – sorge, nell’esperienza del bambino, una cosa che vi è radicalmente reperibile – Mi dice questo, ma che cosa vuole?».[2] Il «cosa vuole?» diventa un’apertura fondamentale, un’apertura alla possibilità che si concretizza nell’interrogare il desiderio dell’Altro. È un interrogativo che apre una finestra sul mondo fenomenico e permette a chi la riceve di prendere parte all’esistenza, essere nel mondo (in der Welt sein). Nel discorso il soggetto esplora i limiti del mondo di cui fa parte e scopre i propri come un navigatore pre-colombiano verso territori inesplorati. Il soggetto si determina (de-terminus) cioè si assegna i propri confini, accedendo allo spazio simbolico condiviso.

 

È paradigmatica la lettura che Lacan, e prima di lui Sartre, fa di un passaggio molto noto di Rimbaud. Scrive il poeta francese nel 1871 in due diverse occasioni, scrivendo al prof. Izambard e all’amico e poeta Demeny. «Je est an autre». Vale la pena riportare per intero la frase: «È falso dire ‘Io penso’ si dovrebbe dire ‘Mi si pensa’ . – Scusi il gioco di parole: Io è un altro»[3]. Lacan prende a prestito questa formula poetica per evidenziare la dimensione “oggettuale” del s-oggetto segnando la nota differenza tra Moi e Je dove il primo è l’esito di una stratificazione immaginaria che mi viene restituita dall’esterno, mentre il Je è il soggetto dell’inconscio, soggetto del desiderio. Il soggetto lacaniano è strutturalmente diviso, barrato, come dirà lo psicanalista francese. A questa natura “mancante” si deve l’apertura all’altro e l’identificazione con tutti quegli aspetti che de-terminano il s-oggetto. Essere s-oggetto si traduce ontologicamente nell’apertura al possibile e all’incontro con l’Altro.

 

Narrazione e autonarrazione

 

Se la parola è la chiave per aprire la dimensione del simbolico, il suo articolarsi, il suo aggrammaticarsi, è il mezzo che i bambini utilizzano per s-oggettivizzarsi. Nella narrazione fatta dall’adulto i bambini costruiscono la propria identità. Se da un lato accedono alla propria storia etero-narrata e quindi esposta allo sguardo altrui che comporta la costruzione di un sé biografico, dall’altro, le descrizioni del caregiver (e prima ancora le definizioni ostensive di cui parla Wittgenstein in Ricerche Filosofiche) agiscono come etichette da appuntare al mondo, e alle caratteristiche dei bambini. Identificare attraverso categorie è la prima modalità con cui facciamo conoscenza del mondo. Si potrebbe dire, eccedendo in semplificazione, che tutto il resto viene poi agito dall’intelligenza induttiva che traccia similitudini e differenze. L’incontro con l’ambiguità, con la polisemia di un termine diventa poi occasione per creare legami tra significati e contesti, di aprirsi al grigio del significato, alla sfumatura. Costruiamo il mondo anche per mezzo di processi linguistici, integrati ovviamente nell’esperienza. Attraverso il linguaggio, spiegano le psicologhe Hoemann e Feldman Barrett[4], i nostri figli accedono alla sfera emotiva, imparano a riconoscere le emozioni proprie ed altrui e di conseguenza a regolarle in maniera adattiva. I bambini maltrattati, per fare un esempio estremo, sviluppano invece un’immagine negativa di sé perché vengono loro “restituite” in forma narrativa solo caratteristiche negative da cui costruiscono un’immagine negativa del sé, «sono una/un bambina/o cattiva/o»; la bassa autostima li renderà con ogni probabilità adulti insicuri e sempre in allerta, alla ricerca di possibili minacce e conferme ai propri tratti negativi.

 

La narrazione funziona in due direzioni: dall’adulto al bambino e dal bambino all’adulto. Non si viene solamente raccontati ma ci si racconta, si crea una propria narrazione con cui presentarsi al mondo in un articolato gioco di riflessi in cui ci si specchia nello sguardo narrativo altrui e lo si riflette come autonarrazione, per parafrasare l’idea di looking glass self utilizzata da Cooley all’inizio del Novecento. Si tratta di un aspetto importante in cui la persona effettua una sorta di mietitura di quello che è lo sguardo altrui e il proprio finalizzato alla costruzione di un’identità il più possibile solida da presentare al mondo. L’adolescenza è il gradino più fragile di questa scala di sviluppo individuale e quello su cui il s-oggetto costruirà la propria personalità, l’impalcatura che struttura l’identità.

 

Il s-oggetto è dunque l’esito del mondo linguistico in cui è immerso. Il linguaggio mi definisce ed è da sempre altro da me. Lo ricevo dal mondo. Lo ricevo da una madre. «Non ho che una lingua e non è la mia».[5] «Il monolinguismo dell’altro sarebbe – continua il filosofo – innanzitutto questa sovranità, questa legge venuta da altrove, senza dubbio, ma anche e innanzitutto la lingua stessa della Legge»,[6] perché ogni cultura è originariamente coloniale, è l’esito di avvenimenti umani, politici, e dinamiche di potere che si esercitano attraverso il linguaggio e quelli che, in termini foucaultiani, possiamo definire dispositivi. Certamente in questo pensiero riverbera la storia dell’occupazione algerina in cui crebbe Derrida ciononostante non siamo così distanti dal concetto di egemonia culturale di gramsciana memoria.

 

L’io non si configura semplicemente come un altro, «en autre» come diceva Rimbaud, l’io è plurale, molteplice. L’io è altri. Il s-oggetto non è solamente altro da sé, essere errante privo di centro di gravitazione, egli è altri da sé, abitato da storie, culture, Discorsi, che talvolta partono da lontano ma che riescono a depositarsi sul s-oggetto come corpuscoli di significato trasportati dal vento. Non deve solamente essere concepito come eccentrico quanto multicentrico. Nel primo libro del Seminario, Lacan definisce il soggetto come una cipolla, «lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito»,[7] perché è l’esito di questa azione dell’Altro, è la sua sedimentazione.

 

Trauma trasgenerazionale

 

L’Altro va sempre inteso come essere in relazione e scambio. Nell’incontro con l’Altro dobbiamo farci carico della sua storia, della sua biografia intesa come eco del passato che riverbera nel presente e lascia le sue tracce nella dimensione psichica e corporea. Dolto, tra le prime ad aver colto l’effetto del trauma transgenerazionale scrive: «Ogni bambino è inevitabilmente costretto a sopportare sia il clima nel quale cresce, sia gli effetti patogeni che si sono cristallizzati nei postumi del passato patologico non solo della madre e del padre, ma anche delle persone che si occupano di lui. Il bambino è portatore del debito contratto all’epoca della sua fusione prenatale e in seguito della dipendenza postnatale, e che l’ha strutturato».[8] Il corpo dei bambini diventa terreno fertile in cui può risuonare l’eco del passato familiare. Esistono fardelli che le famiglie si passano di generazione in generazione. Sono “debiti”, come li definisce Schützenberger,[9] che possono talvolta portare, all’interno della famiglia, alla designazione inconsapevole di un “paziente”, una sorta di amplificatore somatico, un capro espiatorio per quei silenziosi traumi, quei non detti, che vengono tramandati per generazioni all’interno del sistema famigliare; l’anello più sensibile della famiglia fa emergere tramite la sua persona tutte le segrete dinamiche e dà voce con i propri sintomi ai silenzi e ai non detti. L’esito di questo processo può anche manifestarsi come una malattia ricorrente proprio attorno ad una data specifica su cui in passato si è concentrata una disgrazia famigliare che si è sempre preferito tenere nascosta oppure attraverso ripetizioni di eventi capaci di mantenere aperti canali di significazione o ben più semplici fallimenti che ripetono i traumi passati. Ho conosciuto diverse persone che, fatti tutti gli esami, non sono mai riuscite a laurearsi ripetendo il fallimento dei genitori, ad esempio, o perché un fratello era deceduto senza mai potersi laureare. Molto recentemente ho letto di uomo morto in sella alla propria motocicletta esattamente dieci anni dopo la morte del figlio avvenuta nelle medesime circostanze. Sono esempi di debiti e legami intergenerazionali che appaiono sicuramente come incredibili scherzi del destino, come se queste vite fossero semplicemente in «balìa di una sorte bizzarra e cattiva». Riconosco che esista la casualità e che sia inoltre insito nell’essere umano voler ricercare regolarità e attribuire loro un significato, siamo in fondo animali fatti per generare senso e tracciare fili rossi che diano significato ad un ambiente talvolta poco prevedibile. Si dirà, forse a ragione, che si tratta di tragiche fatalità. Esistono però circostanze e schemi di ripetizione meno fuori dal comune. Nel 1953 Josephine Hilgard[10] pubblicò uno studio sistematico su persone che, dopo aver avuto figli erano state ricoverate per problemi psichiatrici rilevando correlazioni statisticamente significative tra l’età del ricovero e l’età che aveva uno dei loro genitori quando era rimasto orfano di padre o di madre. Parlò di sindrome di anniversario.

 

Negli ultimi anni diverse ricerche hanno dimostrato quello che negli anni ‘50 sembrava solo un’ipotesi molto azzardata: l’esposizione a situazioni particolari e durature di stress produce una metilazione del dna[11] capace di trasmettersi alle generazioni successive. Questo significa che genitori con un forte squilibrio dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), diagnosticati con il disturbo da stress posttraumatico[12], sarebbero in grado di trasmettere ai figli la propensione allo stress. Da una prospettiva epigenetica, gli eventi traumatici del passato sono in grado di influire a cascata sulle successive generazioni insinuandosi nella linea riproduttiva.[13] Se parlare di sindrome di anniversario può apparire naïf sembra del tutto lecito parlare quindi di riproducibilità e trasmissione del trauma.

 

Autonomia e corporeità

 

Nell’esperienza della corporeità a partire dalla prima infanzia è all’opera una tensione tra due dinamiche contrapposte: l’eteronomia e l’autonomia. Sono entrambi agenti di soggettivazione che operano però in direzioni opposte. Il linguaggio assume il ruolo di attore primario anche nella formazione dell’autonomia del bambino. La libertà di esperire e muoversi che i bambini mettono in atto è legata, oltre che alle competenze psico-fisiche acquisite, alla voce interiorizzata di chi si è preso cura di loro. Le rassicurazioni, il tono di voce, i divieti, inizialmente impartite dai genitori, e quindi nate in modalità eteronoma, risuonano interiormente come regole di azione autonoma nei bambini. Se questi hanno potuto sviluppare una base sicura che gravita attorno alla figura del garegiver saranno capaci di sperimentare distanze sempre maggiori in totale sicurezza.

 

Sul corpo, che voglio intendere e sviluppare qui anche nell’accezione di territorio, si sono giocate, e si giocano continuamente, enormi battaglie politiche. Nell’era post-moderna si è assistito ad un progressivo superamento del dualismo cartesiano e al felice approdo verso una concezione olistica di mente e corpo[14]. Il corpo è stato emancipato dalla visione platonica di tomba dell’anima che ha dominato i secoli scorsi, e ha cominciato ad entrare come elemento integrante del processo di significazione, anche grazie alla psicanalisi. È avvenuta una fondamentale traslazione di significato nell’equivalenza di σῶμα σήμα. Il termine “sema” non rappresenta più la prigionia di un’anima variamente concepita che aspira all’infinito, ma riprende il suo più intimo significato di “segno”, espressione di desiderio. Il corpo accede al simbolico. «L’immagine del corpo è l’incarnazione simbolica del soggetto».[15] Non è più l’anima ad essere prigioniera ma il corpo. Il s-oggetto scopre il suo corpo prigioniero della presa eteronomica che si esprime quotidianamente attraverso l’educazione, le pratiche medico-ortopediche, le norme sociali di comportamento, ma trova una sua autonoma emancipazione che passa attraverso la formazione di una propria visione del mondo, la scoperta di un proprio luogo nel mondo e l’appropriazione di una nuova estetica. Cercando nuovi significati di espressione del sé attraverso la corporeità, il s-oggetto genera attivamente la propria unicità. Si scopre capace di autonomia, di produzione soggettiva. Nell’autopoiesi, inteso come auto-generatività, avviene il processo di soggettivazione, di individuazione. Fare parte di gruppi che esprimono desideri non-mainstream, subculture come direbbero i sociologi, è una delle vie d’accesso alla produzione autonoma della propria soggettività. Diventa scelta di essere s-oggetto. «I capelli sono fondamentali – bisogna tenerli dritti – all’insù – come spilli o borchie taglienti – sono un simbolo importante – le punte rigide significano odio – i capelli devono stare in piedi – incazzati con il mondo intero…».[16] Inizia così un vecchio libro di gioventù, Costretti a sanguinare, ed esprime con chiarezza la portata comunicativa dell’estetica di gruppo. Quando l’aspetto viene utilizzato e indirizzato politicamente, l’estetica si fa etica, l’autonomia si fa attitudine, scelta di vita. L’espressione (est)etica è un segnale di comunicazione sociale, un’affermazione duplice di distinzione dalle scelte del gruppo dominante e contemporanea appartenenza ad un sottogruppo. L’aspetto fisico diventa sia un messaggio trasmesso ai “regolari” che un richiamo per i simili. Funziona come agente inter-soggettivo innescando reazioni, sguardi, giudizi, da parte della maggioranza conformista che permette al sottogruppo di rafforzare le proprie scelte etico-estetiche. La categorizzazione sociale è dunque un meccanismo di discriminazione, nel senso etimologico del termine, non solo nella sua accezione negativa, di identità di gruppo e individuale. Il discriminare parte dal processo di discernimento e termina con la separazione categoriale attuata attraverso il raggruppamento di caratteristiche utilizzare allo scopo di riconoscere similarità/dissimilarità nell’ambiente. Si torna qui al concetto di de-terminazione visto poco fa.

 

Ambiente come fattore di soggettivazione

 

Nella prospettiva di Maturana e Varela, un sistema vivente realizza la propria autopoiesi in «accoppiamento strutturale» con un medium che è fuori di lui. Questo medium è l’ambiente. «Nella storia delle interazioni di una unità composita nel suo medium, sia l’unità che il medium operano in ciascuna interazione come sistemi indipendenti che, inducendo l’uno nell’altro un cambiamento strutturale, selezionano l’uno nell’altro un cambiamento strutturale.».[17] Gli autori si occupano di sistemi biologici cellulari ed è evidente come il loro costrutto di autopoiesi sia per diversi aspetti diverso dal concetto di generatività autonoma presentato poco sopra. Tuttavia possiamo esportare questa logica su una scala più ampia, fino ad investire il sistema s-oggetto e il suo gruppo. Quando d’estate la canicola estiva spinge a cercare refrigerio in montagna, dalle mie parti si possono notare esemplari di homo sapiens fermi a godersi l’ombra del primo spiazzo trovato dopo un tornante. Se solo si spingessero poco oltre, solo qualche chilometro, avrebbero a disposizione decine di chilometri quadrati di prati e boschi, loro però preferiscono il comfort del primo slargo a ridosso della carreggiata, rassicurati dalla presenza della propria auto parcheggiata a pochi metri che li attende maternamente con il baule aperto. Mi sono sempre chiesto cosa spingesse certe persone a fermarsi proprio lì, a ridosso del ciglio stradale, a respirare i fumi delle auto che per tutto il giorno salgono e scendono dai monti. La risposta me la fornì un giorno mia moglie, con la sua lucidità analitica, mi dette una spiegazione che denota una complessità maggiore della semplice constatazione di fatto che fece: «si fermano lì perché c’è un’area attrezzata con tanto di barbecue». Quello specifico ambiente, così costruito, elicita una propensione individuale che potremmo definire aristotelicamente allo stato potenziale. Io infatti non la posseggo e non la capisco. Il prato verde a bordo strada, dopo un curvone, e l’insieme di panche e barbecue, realizzano la potenzialità del s-oggetto che, per sue specifiche caratteristiche personologiche, sarebbe già propenso a fermarsi quanto prima e con tutte le proprie cose a disposizione all’interno della propria auto evitando ogni ulteriore affaticamento. Lì trova un habitat invitante, ricco di releaser[18] che stimolano il comportamento messo in atto. Tutti gli oggetti inoltre sono, più o meno, dotati di affordance ovvero caratteristiche proprie che invitano all’utilizzo specifico per cui quell’oggetto è stato costruito. Prendiamo banalmente una sedia, la sua affordance ci invita a metterci seduti su di essa. Una panchina ci spinge anche a sdraiarci. Una persona creativa potrà trasformarla in un’opera d’arte, conferendo all’oggetto un’affordance che non era stata prevista dal costruttore. Anche un ambiente può essere dotato di affordance. Per tornare alla più elegante concettualizzazione di Maturana e Varela (1987): «i cambiamenti prodotti dall’interazione fra essere vivente ed ambiente sono innescati dall’agente perturbante e determinati dalla struttura del perturbato. Lo stesso vale per l’ambiente, per cui l’essere vivente è una fonte di perturbazioni e non di istruzioni».[19] Nel caso di queste aree di sosta, gli amministratori hanno creato spazi che invitassero alla sosta, proprio lì, in uno non-luogo in cui magari qualcun altro non si sognerebbe mai di passare la propria giornata o dove forse altri avrebbero scaricato immondizie. Hanno cioé innescato un sistema, attraverso la manipolazione dell’ambiente, orientato a stimolare comportamenti soggettivi. Questa prospettiva, applicata al nostro habitat, chiarisce come esso agisca sulla nostra soggettività e come al contempo permetta l’espressione di nostre specifiche caratteristiche in un meccanismo biunivoco di azione e retro-azione che diventa agente di soggettivazione.

 

La soggettivazione digitale

 

A partire dal Novecento la psicanalisi ha sviluppato diverse teorie per spiegare dinamiche in qualche modo affini: il processo di individuazione, lo sviluppo del Sè, il soggetto psichicamente tripartito in Io, Es e Super-Io. Queste prospettive, così simili e così diverse quanto parziali, non hanno forse sempre presupposto un s-oggetto inteso come un caleidoscopio di frammenti identitari? Le nuove tecnologie hanno offerto notevoli vantaggi nei termini di espressione della propria soggettività e nel sollevare il velo di Maya del dispositivo identitario. Pensiamo al nostro documento di identità; esso permette una identificazione de visu della persona a cui è intestato. È l’espressione monolitica dell’identità normativa, quello che potremmo definire sé burocratico. Si può pensare ad esso come una mappa dell’identità, una corrispondenza biunivoca tra la persona che presenta il documento e i dati anagrafico-somatici corrispondenti. Il s-oggetto però è un territorio per certi aspetti inesplorato e, come ebbe a dire Alfred Korzybski nel 1931 di fronte all’American Mathematical Society: «la mappa non è il territorio». Se la mappa non è riducibile al territorio (anzi, essi coincidono in un solo punto!), la carta di identità non è che lo strato superficiale della cipolla che siamo. Se potessimo esplorare il territorio che compone il s-oggetto ci imbatteremmo in una molteplicità di sé che vanno a comporre un’identità tutt’altro che univoca. Quando questa viene privata della sua mappa (l’identità burocratico-anagrafica), possono dunque affacciarsi i differenti sé che la compongono. Il web in generale e i social in particolare permettono tale meccanismo by design, per usare termini informatici. Ogni sito sul quale si va a registrare un account si appropria ed elicita solo di uno di questi aspetti della persona. Ecco quindi che posso mostrare il mio sé professionale iscrivendomi ad un sito per la ricerca di lavoro, per poi mostrare un altro aspetto della mia soggettività quando mi libero dalle sovrastrutture legate al genere binario e mi presento come una volpe su un sito furry fandom, o essere poeta su un sito dedicato alle poesie. E questo è possibile perché cade l’eteronomia dell’identità burocratica. I comportamenti delle persone sul web chiariscono la complessità dell’identità e del processo di soggettivazione perché viene meno la costruzione dell’identità rigida intesa come mappa che risponde all’inchiesta epistemologica del Brucaliffo che, guardando incuriosito Alice, le chiede: «Chi sei tu?». Non è un caso che la domanda sull’identità sia affidata da Carroll ad un bruco, un essere mutevole, dall’identità in transizione. La risposta alla domanda non può essere altro che: «Io è altri» perché altri e altre mi determinano, altri e altre mi abitano.

 

Note

 

[1]    L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1998, p. 88

[2]    J. Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 210.

[3]    Si riporta l’originale della lettera inviata il 13 maggio 1871 al Prof. Georges Izambard: «Je veux être poète, et je travaille à me rendre voyant : vous ne comprendrez pas du tout, et je ne saurais presque vous expliquer. Il s’agit d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète, et je me suis reconnu poète. Ce n’est pas du tout ma faute. C’est faux de dire: Je pense: on devrait dire on me pense. – Pardon du jeu de mots: JE est un autre».

[4]    K. Hoemann, F. Xu, L. F. Barrett, Emotion words, emotion concepts, and emotional development in children: A constructionist hypothesis, in «Developmental psychology», vol. 55, n. 9, 2019, pp. 1830-1849.

[5]    J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 7.

[6]    Ivi, p. 47

[7]    J. Lacan, Il seminario, Libro I, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 2014, p. 213.

[8]    F. Dolto, Le parole dei bambini, Mondadori, Milano 1991, pp. 244-285.

[9]    A. A. Schützenberger, La sindrome degli antenati, Di Renzo Editore, Roma 2004.

[10]  J. R. Hilgard, M. F. Newman, Anniversaries in mental illness, in: «Psychiatry», vol. 22, n. 2, 1959, pp. 113-121.

[11]  La metilazione è un processo di modificazione epigenetica del DNA che consiste nella consiste nell’aggiunta di un gruppo chimico (metile, -CH3) in punti specifici del DNA.

[12]  S. Bhattacharya, A. Fontaine, P. E. MacCallum, J. Drover, J. Blundell, J., Stress across generations: DNA methylation as a potential mechanism underlying intergenerational effects of stress in both post-traumatic stress disorder and pre-clinical predator stress rodent models, in: «Frontiers in Behavioral Neuroscience», vol. 13, n. 113, 2019.

[13]  C. Galan, M. Krykbaeva, O. J. Rando, Early life lessons: The lasting effects of germline epigenetic information on organismal development, in: «Molecular metabolism», vol. 38, 100924, 2020.

[14]  e.g. A.-R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995.

[15]  F. Dolto, L’immagine inconscia del corpo. Come le relazioni affettive determinano la percezione che il bambino ha di sé, Red Edizioni, Milano 2011, p. 188

[16]  M. Philopat, Costretti a sanguinare. Racconto urlato sul punk, Agenzia X, Milano 2016, p. 1

[17]  H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1992, p. 34

[18]  In etologia con il termine releaser ci si riferisce a stimoli in grado di scatenare un comportamento innato.

[19]  H. R. Maturana, F. J. Varela, L’albero della conoscenza: Un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana, Garzanti, Milano 1987, pp. 93-94

 

Riassunto

La vitalità di una lingua consiste nell’essere mutevole dei suoi termini, nella morte di alcuni di essi, nella comparsa di neologismi e nelle traslazioni di significato di altri. Il termine “soggetto” sta attraversando, almeno in ambito psicologico-sperimentale, un periodo di riconsiderazione semantica se non proprio di estinzione. Diviene utile indagare i vari significati che afferiscono al concetto di “soggetto” approfondendo il processo evolutivo che ad esso conduce: la soggettivazione. Saranno evidenziate alcune specifiche prospettive che alimentano la concezione di “soggetto abitato da altri”. Partendo dall’idea di soggetto in Lacan e dalla centralità nel linguaggio nella costruzione della soggettività, si descriverà la dipendenza dalle generazioni che ci hanno preceduto e le influenze dell’habitat; saranno descritti i processi di autonomia e autopoiesi, la centralità della dimensione corporea, per arrivare alle espressioni del soggetto nel mondo digitale.

 

Abstract

The vitality of a language lies in the mutability of its terms, in the death of some of them, in the emergence of neologisms, and in the shifts in meaning of others. The term “subject” is currently undergoing a period of semantic reconsideration, if not extinction, at least in the psychological-experimental domain. It becomes useful to investigate the various meanings that pertain to the concept of “subject,” delving into the evolutionary process that leads to subjectivization. Specific perspectives that fuel the conception of a “subject inhabited by others” will be highlighted. Starting from the idea of the subject in Lacan and the centrality of language in the construction of subjectivity, we will describe the dependence on the generations that preceded us and the influences of the environment. We will also describe the processes of autonomy and autopoiesis, the centrality of the bodily dimension, and finally, the expressions of the subject in the digital world.

 

Keywords: subjectification, language, constructionism, embodiment, transgenerational trauma

 

Bibliografia

 

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[Immagine: Matthew Pillsbury, Cup Noodles Museum, Yokohama, 2014].

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