di Gianluca D’Andrea

 

[Esce nei prossimi giorni per L’arcolaio Nuovo inizio, di Gianluca D’Andrea. Ne pubblichiamo un estratto].

 

Allora comincerò con un altro disegno,

un’altra carta, ancora una leggenda.

Franco Fortini

Il custode, 1989

 

I PARTE

Lo spettacolo della fine

 

IV.

 

Un ottantanove infinito, un ottantotto…

Il nastro girava sulla stessa scena: Ben Johnson batteva Carl Lewis. Carl Lewis battuto da una bomba mai esplosa. No, occorre osservare bene, ricominciare (dalla console nella mia capsula). Ben Johnson abbatte il record del mondo, la creazione dell’uomo supera l’uomo, lo spirito olimpico è in esubero, lo spirito. Giunge al tracollo lo spirito. La realtà dice di polizie scientifiche e di controlli scientifici e risultati scientifici, ecc. Osservo lo scatto della scienza, lo sprint della chimica, l’impatto organico sulla linea della sostanza, sull’órganon risonante di tempo che sposta il traguardo e lo oltrepassa. Il corpo sacro dello sport è superato, nasceranno altri fenomeni come fulmini e ultimi scenari della storia. La storia della fine inaugurata dal figlio della sfortuna a discapito del figlio del vento, con un’audacia che rende merito all’assenza, all’adattamento, alla selezione innaturale dei nuovi vincitori.

 

VII.

 

«È spaventoso pensare che mio papà impugnasse gli elettrodi per la tortura con le stesse mani con cui mi accarezzava», racconta Analía, 34 anni, figlia di Eduardo Kalinec. Per tutti era Dottor K, uno dei più feroci aguzzini, condannato all’ergastolo nel 2010. «All’inizio non sapevo, poi non volevo vedere, alla fine ho aperto gli occhi», spiega Analía.

 

Oltre lo scandalo resta la notizia, le associazioni suscitate, i fantasmi del tempo, dell’Argentina il velo biancoceleste.

Non esiste altra storia se non quella dell’individuo e la quantità di informazioni incamerate.

Dottor K, mi fa pensare a mosche e scarafaggi, scarti, reietti, eppure lui ha nome e soprannome, e gli elettrizzati? I morti affogati e imbottiti di Pentothal (altro nome della morte buona e pietosa) e lanciati – pesi morti – e schiantati e disidentificati e sparpagliati e discomparsi e mancanti e anestetizzati, ecc.

Tutto gestibile ancora meglio dalla console, perché è accaduto e ho ancora un po’ di tempo per fare le mie ricerche, aspettare e guardare e leggere e informarmi e incamerare e quantificare e potenziarmi e lavorare su nuovi aggettivi, ecc.

È spaventoso pensare che il corpo svelato sia così puro e tenero e che abbia una chimica così complessa, un’emivita così prolungata… raddoppiata e dimezzata tendente al vegetale – forma di vita perfetta.

 

Alba celeste che non sorgerai più

come la videro gli scomparsi

o i calciatori e gli insetti,

alba che finisci in un tempo

che si rinnova in altri cicli,

alba naturaleinnaturale,

darwiniana e rituale,

alba che induci al canto involontario

ogni essere digitale

prima di comprendere e neutralizzare

anche la scomparsa.

 

VIII.

 

Mi sveglio sempre nell’immagine

una volta celebre di Vertigo, immerso

nella luce verde e nel riflesso

alienante, spiazzato dall’ombra

prima del contatto, nel desiderio

del feticcio destinato a dissolversi.

La finzione che amoreggia col reale è l’eccedenza,

la avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,

contenerla nello spazio minimo

della mia solitudine. Sullo schermo

appaiono oggi, ogni mattino

nell’alba verde, serie tv con famiglie sorridenti

in un quotidiano semiserio.

Affogato dalla luce verde vado

in cerca di altre immagini,

fiuto famiglie esplose in aeroporti,

corpi scarnificati a un soffio

dalla disintegrazione. La mia capsula

non torna indietro, per questo

coordino dalla console il peggio

dell’uomo del benessere, i suoi scarti,

i consensi superficiali, i corpi noiosi della gloria,

gli scheletri e i ventri estroflessi.

La riproduzione spettrale della materia

ripresa ed esposta è il compenso

che riproduce l’ozio e gli incubi

dell’essere di pienezza estinto.

 

XIX.

 

Ma fu l’immaginazione a seppellire l’evidenza delle vicende accadute. Dentro pipeline e venature metalliche si formavano i pensieri, suscitati dai ricordi e da un indistinto desiderio di protezione.

Tornai alla console e scorsi la frase, «l’autodistruzione è lo scopo più intimo, più sublime dell’arte», balenare da un’immagine del passato. Dopo averla letta parecchie volte per fissarne il senso, pensai a Elephant, un film di prima della fine, di prima, prima ancora che il sospetto della fine potesse far capolino nel mondo. Eppure, nel film un mondo sommerso chiede di emergere dalle onde seriali che scandiscono i giorni, ma non per investirci e scandalizzarci, quanto per fingere che esistano gli eventi e che questi possano essere interpretati come in un grande pettegolezzo globale.

In ogni caso nel film, trivellato di soggettive che giocano a intersecarsi, esistono delle presenze. La natura incombe attraverso il suono, aumentando il senso di sospensione manifestato dalle riprese distanzianti. Lo spettatore è spettatore e il pathos è eliminato a favore della necessità. Il disastro è dentro lo sguardo che si preoccupa di percepirlo, in un gioco di riflessi che illudono la stessa distanza. Mentre lo schermo rimanda le immagini del disastro, ritorno all’autodistruzione di Kiefer. Trivellato dall’immagine mi immergo nell’attesa della fine.

 

XX.

 

Autodistruzione era una parola ricorrente durante l’adolescenza. Un’infanzia scaduta e l’apprensione-ambizione per il senso di competizione che si espandeva in me. L’esigenza che ogni vittoria fosse non solo raggiungibile ma inevitabile. Per ottenerla occorreva il mezzo più facile e nessuna eleganza, sempre che non scaturisse dallo sforzo di vincere, come evento casuale dell’ambizione.

Apprezzavo Goran Ivanišević. Ricordavo come il 9 luglio di parecchi anni prima quel tennista, la cui carriera era stata caratterizzata da costanti oscillazioni emotive, avesse realizzato un’impresa sportiva a Londra.

Così mi avvicinai alla console e guardai le immagini dell’evento. Poi, ricontrollai i gesti del tennista, rimanendo sempre più affascinato dalla serialità vincente, ossessiva, del movimento con cui componeva il suo servizio.

Tutto avveniva mentre passava altro tempo, impegnato a distogliermi dalla serialità della fine per accedere alla più grande vittoria, la più semplice: ripetere lo stesso gesto con l’unica ambizione di renderlo fluido, inconsapevole, meccanico.

 

XXIII.

 

Sembrava non guardare ma percepiva esplosioni di luce. Non il calore, perché l’orizzonte picchiettava di bagliori i vetri della cabina. La console distante emanava colori e parole. Un unico linguaggio fatto di segnali, intermittenze, quasi la scomparsa progressiva del corpo di ogni oggetto, un alone, un’ombra come nelle vecchie immagini di Hiroshima.

 

Ogni frammento di realtà rimaneva sospeso ma al riparo da ogni minaccia, eppure un pericolo imperscrutabile sembrava incombere e provenire dai bagliori. Ma lui era rannicchiato al centro del corridoio, contro il pavimento tiepido di lastre metalliche, sfiorato dalle ombre dei corpi. Il loro carattere era un insieme di immagini latenti, scandite in uno scenario che lui avrebbe voluto occultare ignorando o dimenticando i dettagli. Il vero scopo di questo gioco a nascondere sembrava risiedere in una volontà passiva che non cercava indizi e non credeva in alcun mistero.

 

La luce ormai blandiva la capsula e i bagliori si attenuavano mentre un’altra sera arancione riempiva lo spazio e un senso di raccoglimento emanava, come in un riflesso concreto, dallo schermo della console.

 

 

II PARTE

Nuovo inizio

V.

 

Il paesaggio era mutato.

Un altopiano di pozze di fango in cui affondava fino alle ginocchia. La fatica a ogni passo era accompagnata dall’angoscia di uscire velocemente da quel pantano. Aveva con sé una borraccia che era riuscito a riempire prima della partenza. L’acqua si trovava, buona parte degli acquedotti era ancora in funzione. I luoghi in cui le risorse abbondavano erano presidiati. Il viaggio si sarebbe protratto per un tempo indefinito, occorreva gestire le razioni.

Nonostante il dolore alle gambe, proseguiva. La vasta distesa era puntellata di zone asciutte, per cui era possibile di tanto in tanto riposarsi dopo il guado. L’ultimo attraversamento era durato un paio d’ore e il sole era già steso sul tracciato divaricato dell’orizzonte risarcendo la sua stanchezza con un arancione nebuloso su un paesaggio scheletrico.

In una panoplia di riflessi torbidi che scaturiva dalle pozze preparava il suo giaciglio. Era sul margine asciutto di una roccia che sporgeva dal lago viscoso.

Dentro gli argini un lago, una bava di luce riflessa in cui sciamavano frotte di moscerini a stento visibili. La notte era sempre più vera e il fuoco più tenue. Il giorno si era ridotto a una brace dorata che scoppiettava sul terriccio. Gli occhi emanavano una luminescenza inedita, terminale, che sfumava nell’indifferenza fino a sparire nel buio.

 

XXVII.

 

Cembri e alghe dai cembri.

Penzolavano quegli straccetti maleodoranti. Mentre il sentiero incontrava nuove pendenze, iniziava un saliscendi tra conglomerati e stratificazioni, per cui il paesaggio appariva in una nuova configurazione minerale.

Aveva freddo ma camminava, assecondando ogni frazione del cammino, ogni deviazione, ogni curva.

L’atmosfera fossile rifletteva il mutamento del suo modo di percepire gli eventi. Il prima e il dopo erano confusi nei ricordi e lui si muoveva in una specie di ottundimento, incapace di orientarsi.

Sentiva incontenibile l’urgenza dell’ascesa, anche il più piccolo ciottolo stabiliva il contatto con un mondo nuovo e allo stesso tempo familiare. Si sentiva confortato dall’essere immerso nel suo stesso cammino. Sentiva l’aria raffreddargli il corpo, traspirava. Sentiva il futuro, nella speranza di esserci per toccare il corpo del mondo, portare con sé la moltitudine dei suoi odori.

 

XXXIII.

 

Iniziò a nevicare.

Quando il cielo si oscurò cadde improvvisamente il silenzio.

Sulle colline invernali a stento percepiva le pieghe dei massi granitici.

Qui tutto è nuovo e diverso, si disse, mentre pensava ad altre colline disseminate di rocce bianche in una terra riarsa e spaccata come ossa calcinate nel deserto.

Cumuli d’oro dominavano i riflessi dell’alba sfiorati da una polvere impalpabile. Il disco del sole s’impennava e lui non desiderava andare oltre, non c’era niente più in là del mondo in cui un giorno il mondo avrebbe potuto trasformarsi e, chissà, sparire.

Tutto andava, ma non individualmente.

Fasci di luce mattutina cadevano come spilli, aprivano varchi tra le nubi picchiettando la superficie vitrea del mare.

 

XXXVI.

 

Fu così che ogni evento non ebbe più connessione con ciò che chiamiamo reale.

Non esisteva uno strumento che potesse insinuare il dubbio di una falsificazione dei dati, perché non c’era nessun dato da raccogliere, era tutto nell’azione che accompagnava l’idea di sopravvivenza, la paura di scomparire. Chi resterà saprà continuare oscillando nel cammino che è inizio e fine.

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