di Aren
“I Fumi della Fornace” non è solo festa della poesia, ma una serie di confronti sul pensiero del presente e un laboratorio teatrale espanso. Dal 23 al 27 agosto scorsi il festival curato da Valentina Compagnucci, Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi ha animato la piccola frazione di Vallecascia, nel maceratese, e trasformato la sua fornace dismessa in un crogiolo di poetiche e saperi. Aren, osservatore partecipante, ne racconta e fotografa la sua “imperdonabile forma”.
Edipo. Vecchio Tiresia, devo credere a quel che si dice qui
in Tebe, che ti hanno accecato gli dèi per loro invidia?
Tiresia. Se è vero che tutto ci viene da loro, devi crederci.
Edipo. Tu che dici?
Tiresia. Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una
disgrazia diversa da esser vivo. […]
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)
I
Diario: Nel primo sguardo
Quanto angusta può essere la crepa, per divenire luogo di piante pioniere? Dove sarà possibile aprire un varco ed accedere a questo rovescio poietico? Non c’è necessità alcuna che viene dettata dall’interno, dalle viscere architettoniche. È la notte su cui il lavorio allusivo incontra la malta, la calce, l’odore acre d’eternit, l’argilla estratta “là, do’ sta la varza”, dove il torrente si fa profondo e scava nella stratigrafia di forni e opere d’essiccamento.
Questo è certo: gli elementi ci sono sempre stati, le materie prime sono locali e quanto veniva estratto dalla terra per generare quella cellula minima che trattiene l’umano, il mattone, nelle terre maceratesi nasceva qui. Un generico locativo, uno spazio esteso per sette ettari, grande abbastanza da contenere la storia industriale del centro Italia e per tumulare un corpo-fabbrica, nato nel 1890 e morto nel 2012, nel santuario monumentale che ora resta, presente, a ricordare l’origine di quella piccola frazione operaia che è Valle Cascia. Di filastrocche e cantori, di rime sciolte in processione, d’assonanza tra passi e crepacci: s’apre l’universo rovescio, il midollo de “I Fumi della Fornace”. La sopravvivenza è dettata da una seconda convergenza agostana, in questo limbo tra la costa adriatica e i monti Sibillini che si macchia d’oro e di colori brillanti della stagione. Un quadro picaresco che la mezzadria ha lasciato sulla terra, macchie fatte con squadra e compasso: di colori e colture delineate da cipressi, rovi come confini, o dalle querce. La rinascita, che incomincia nel terreno e dal suo respiro, nella stagione dell’aratro, coincide con una nuova semina immaginativa, il Nachleben incide il ritorno centripeto di quanto prima era in fuga dalle memorie e dai destini collettivi. Solve et coagula. Morta la prima fase, storica, quella della produzione di mattoni nella fornace Smorlesi, addensato e macero il fondo bruno come nigredo, va ad aprirsi una seconda vita degli elementi che supera lo stadio originario. La “terra nera” di Valle Cascia inizia la sua seconda fase.
Diario: 24 luglio 2023
S’apre il cancello con un tumulto da baritono rauco, di fronte alle soglie, lo spazio degli anni inattivi ha lasciato le sue orme di osservatore immobile. Un tempo corpo di bitume, continuità solida e superficiale, ora un’invasione: cardo, farinaccio, gramigna, artemisia, iperico, edera, corbezzolo, vitalba. In definitiva le malerbe hanno trovato qui una rinascita, il regno immenso di quanto è stato lasciato recede, passo dopo passo, dietro alla varietà vegetale, il Terzo Paesaggio ricade nelle forre della marginalità e incauti ne stiamo dettando un processo in riaccensione tra il recupero e la sconfitta. La varietà che più d’ogni altra lascia un segno perenne, in questo parco che ha sostituito polvere all’asfalto, è composta di bancali, mattoni, in ogni genere e forma, in ogni colorazione. Impilamenti che pullulano di vita, nei meandri microbiotici, dove tra una fessura e l’altra animali si insinuano trovando fertilità umbratile.
II
Il rito teatrale, a costruzione compiuta, è un macchinare equilibri scomposti in perfezione di regola antisimmetrica. Le luci e le ombre di questi involucri stagliati tra le ciminiere degli essiccatoi, i quali vedono la terra compiere la prima fase di trasformazione per divenire materia da costruzione, confliggono tra essi per risolversi in un pianto tragico, accampato tra le nuvole auree di tramonto collinare. Di questo tragico possiamo dare una soglia di antichità, quella del post-moderno. Si va scavando nella penombra sulfurea del sistema di cui i fumi si proclamano exclave. Questo teatro di forma nasce intorno ad un fuoco che non scalda, anzi trionfo del ri-velamento sta nel giocare con queste mani sonore, con le fiammanti lingue del gesto o l’immobilità ieratica in opposta forma, affinché esse possano deflagrare l’iconografia sacra del contemporaneo da vendita al kilo. Ad innescare questo annullamento troviamo una coralità in forma edipica, infatti più s’avanza nel movimento e maggiore è il distacco che si crea tra la scena e la visione, filtrata, di una società meccanica e incancrenita. Weltanschauung come messa in scena che s’infossa nel tentativo di superare il limes ideologico che è l’argine del boom economico e dei suoi decadimenti, inevitabilmente dei suoi rappresentanti, delle sue Signorie.
(Foto di M. Zanconi)
Formula, di forme, in cui la scena appare un altrove che non appartiene all’umano ma alla macchina, l’interpolazione tra testo poetico e movimento scenico fatica, sovente, a ritrovare nel gesto un rimando che corrobori la voce e viceversa, il cammino che viene compiuto intorno alle parole di Giorgio Maria Cornelio non accetta consonanze visive, non è quanto si assiste in scena, non sarebbe possibile date le misure della realizzazione avvenuta site specific. Tuttavia, c’è una dicitura di continuità, ovvero le formule narrative, chiuse in simbolici Tableau Vivant, sono contratte in una vestizione della voce, che scende visibilmente dall’alto, attraversando lo spazio di mattoni incolonnati che dalla sommità di destra, dove un obelisco in acciaio sancisce il vertice della statura, raggiunge il centro del proscenio attraverso l’azione e l’orientamento fisico di chi dà suono alla parola. La voce poetica del testo è ribattuta dal controtempo sonoro dei musicisti, il cui golfo mistico ricade dentro la scena e opera geograficamente e visivamente nella misura di controbilanciamento all’azione, che volge così a una simmetria di suoni, commistione di voci e strumenti.
Nei Diari Intimi, Baudelaire, lamentava del teatro l’interesse esclusivo per i lampadari che lo illuminavano, contro attori che non danno altro se non la lezione di testi noti. Qui avviene allora lo sconcerto: del testo poetico, nel rito teatrale collettivo, poco resta invariato. Le forme, certo, e i monologhi, ma dalle stesure sulla carta, la geografia mutante della scena convoglia una rivoluzione anche testuale, dovuta al dialogare storico con l’archeologia dei reperti di fabbrica, che tra tagli e scomponimenti, ricombina la continuità del flusso dettandone una impassibile fermezza d’incastri, la creazione della scena e del testo, interdipendenti, sono un’evoluzione improvvisa, c’è abbandono e rovescio, ci si lascia fare dalla scena e dal momento.
Diario: Sulle esplorazioni in fabbrica
Dell’odore acre ho ancora ben presente l’essenza, quanto i passi hanno sollevato polvere tra le officine e i magazzini tanto l’evidenza del decadimento era vivida. Nuove le orme e i solchi, vuoti gli occhi all’arrivo e tra le indagini. In avanscoperta nell’abbandono, abbiamo racimolato i pezzi rimasti a cantare il verso delle manifatture. Lo spazio di macchinari rimossi e delle fucine, venduti o distrutti, hanno lasciato voragini in terra, fosse profonde di ricordi e rischiose per vagare in ricerca. Giorno dopo giorno si apprende la planimetria d’avanzi, questo grande labirinto composto e animato da uccelli e insetti, odori di eternit, paludi metalliche e strutture di tubi divelti tra crolli. Legni marci a reggere architravi, i padiglioni accasciati come quadri fragili tra le serie numerate di depositi. Concluse le prime due traversate ho appreso di saper distinguere gli odori, il forno Hofmann ricorda una cantina profonda nel grembo della terra, serba umidità stabile e temperatura sempre più bassa dell’esterno. Superati i magazzini e gli essiccatoi l’intelaiatura rimasta d’un muletto, tra i mattoni impilati, emerge come idolo geodetico in questa campata dalla memoria dorica. Per due terzi manca il soffitto d’amianto intelaiato, ma questa proporzione apre un suono noto agli storici dell’architettura sacra azteca. L’ondulazione continua delle lamine di copertura frammenta i suoni più forti, che siano mattoni spaccati o battiti di mano, ogni accento si trasforma in grido di rapace e nel boato assoluto di questo silenzio tuona come ci si aspetterebbe dalla pizia delfica. Abbiamo raccolto tavole unte di grasso e diesel, una forca da gru, boccaporti in ferro, tazze in acciaio, telai in legno per mattoni, profili espositivi della produzione, calendari immancabilmente porno, carriole ottocentesche, carretti, schedari dei turni, ogni oggetto che trasudasse la quotidianità della vita in fornace e che senza eccessive declinazioni ci ha attratto a sé. Sopra ogni significato pratico, una quantità meravigliosa di arzigogoli e monili dalla funzione incerta, costruzioni e idoli del tempo libero e dell’impiego giocoso di pause dal lavoro. Da questo repertorio vasto inizia il lavoro della scenografia e così l’intreccio con il testo.
La costruzione è la chiave di volta in grado di reggere questo ponte performativo, le suture sceniche, gli smottamenti della materia, guidati dalle mani e dalle saldature di Daniele Quintabà, permettono la lettura in continuità di spazio dei movimenti altrimenti slegati, autosufficienti. È stata svolta una ricomposizione di spazi estremamente estesi, affilati simmetricamente rimuovendo o costruendo pile di mattoni con quanto era stato lasciato nel luogo di deposito, dove il rito andava nascendo.
La suggestione, visivamente potente di questo universo, tradisce I SETTE PALAZZI CELESTI, Anselm Kiefer e le memorie di idoli sacri per civiltà distrutte, composte anche a Valle Cascia con un recupero in altezza di quanto archeologicamente apparterrebbe ad altra storia e altre epoche, così si attraversa in queste strutture la fumosa e aliena natura industriale gettata nel 1927 dal capolavoro di Fritz Lang, Metropolis.
L’artificio cromatico di alcuni lavori di Vanessa Beecroft, l’aspetto di VB61 STILL DEATH! DARFUR STILL DEAF? riverbera nello sciabordio di sangue e immobilità tenace, costruita intorno ad una figura distesa sulla medica esposizione di un’impalcatura bianca, buona per essere altare e tavolo di dissezione. La volontà, ineludibile, di aprire (univoche) porte evolutive dà voce ad una disputa diacronica con la specie. Gioco di questo movimento, in cui si percepisce una suggestione alchemica, è attraversare albedo e rubedo, fasi nella soluzione (non distanti dalla seduzione) di una legge di rinascita biologica e ipnotica, una stele al superamento di quanto includendo, ha soffocato. Una placenta in rigonfiamento che preannuncia, con la consistenza densa del sangue, una fertilità in riapertura, la promessa di una sopravvivenza.
Si parla attraverso altro, la lingua di suggestioni composta da partiture dinamiche deforma l’immagine di un terrore. La pietà sembra essere d’assenza sulla scena; eppure, trapela nel suo silenzio, come forma, icona, memoria umana che attraversa i secoli per ricomparire mentre viene non detta. Nell’incastro tra voce e moto, tuttavia, chi assiste perde l’orientamento; della fruizione totalmente immersiva c’è un tracciato sensoriale: visivo, sonoro, olfattivo, ma viene meno una narrazione adeguata ad includere chi osserva, che resta immobile di fronte ad un monolite meccanico. L’impatto iconografico, visivo, può superare le necessità della scena stessa, sormontando e talvolta obnubilando la chiarezza delle istanze, proposte attraverso quadri mobili che colpiscono ma non sempre emergono dal fondo industriale: il medesimo soffocamento che risulta dal macchinare degli attori, chini in scena in un ritmo da produzione faticosa.
Viene perso l’equilibrio dello sguardo incavato nei trentacinque, immobili e onnipresenti, cadaveri di cocci stesi a terra e ricoperti di teli bianchi, affiancati dalle dodici figure operaie che andranno ad agire nel momento in cui la sirena richiama al lavoro. Trapela una vicinanza immaginativa che sfiora l’universo visivo della Societas e le mani d’orchestra di Romeo Castellucci, assonanze dettate, probabilmente, anche dalla vicinanza di alcuni esponenti di Congerie con la figura di Rubina Giorgi. In quest’articolare simboli, gettati-insieme nel cuore del forno, vive una suggestione subcutanea che non permette indifferenza e attraversa ogni visione in nuove rotte.
III
S’intraversa un canto d’addio: «Se questa è la loro giustizia/se questo è il loro tribunale/noi cosa c’entriamo?» un processo contrario alla storia, si riguarda al secondo novecento, all’Italia di piombo, alle decadi degli stragismi e alle forme di terrorismo inclusi nei tentativi di sovversione della Norma, per lasciare che gli animali stabiliscano le sorti del giudizio.
Una ripresa antica di voci in confronto, uomo-animali/natura-umanità. Dall’alto medioevo islamico è il lessico Sufi che esempla un fondo di dialogo tra “L’ufficio delle Tenebre, in quest’ora ripida” e “La conferenza degli uccelli” di Farìd al-Dìn Attàr o anche “Il Processo degli Animali contro l’Uomo”. Una connessione che riconferma il movimento anagogico con cui è articolato il rito, ricordando nelle misure e nelle partiture poetiche alcune voci del Teatro Valdoca: impensabile sarebbe non riflettere su Fango che diventa luce. «Che cosa diremo a quelli che nascono ora?/Che scusa troviamo per questo disastro umano?/Che cosa abbiamo dimenticato? […] Ci serve il nome/per non restare sgomenti/ci servono il principio e la fine di tutto. […] Nessun popolo è mai stato lontano come questo/da ciò che lo tiene in vita.[…] » , dalle parole della Gualtieri, ospite oltretutto al festival. Il primo movimento della trilogia di “Paesaggio con fratello rotto” è un precedente nobile con cui ribattere su posture affini e tutt’ora irrisolte:
«Quello che questa trilogia cerca di fare è tenere in un certo equilibrio pensiero razionale e selvatichezza, […] il teatro perseguito come forma d’arte e di rivelazione e non come intrattenimento, lo fa in modo largo, avvalendosi di tutti i linguaggi umani, di tutte le forme d’espressione. E soprattutto lo fa dopo aver ogni volta fondato una comunità provvisoria che lo anima e lo agisce dall’inizio alla fine di ogni impresa. […]»
Diario: Sulla comunità di Valle Cascia
Delle anime che convengono a Valle Cascia nessuna dimentico, per chi orbita intorno e dona tempo e mani. Ci si sottrae dal mondo per un’isola o per forme consentite d’isolamento, non c’è mai tempo di riconoscersi nella propria quotidianità; eppure, si convive e ci si attraversa con le intenzioni carnivore di chi tutto vuole vedere e costruire. Può dirsi rito anche l’allestimento di questa festa, orchestrazioni indipendenti che pure intersecano l’individuale con la collettività: vengono deposte le armi sociali e si fa quanto serve, dando voce ad un profondo senso di riconoscimento politico con la consapevolezza, tutt’altro che scarna, di star scegliendo un’alternativa che muove radici e viscere nella necessità. Ho sentito il bosco e le sue vie, ho usato gli occhi per rubare sorrisi e sudore nei volti di chi, al richiamo della variazione, ha voluto rispondere con corpo e voce. Ci si innamora in questo tempo, forse di tutti e di nessuno insieme, come fossimo eterni fanciulli e di piccolo c’è il gioco che sconfina presto in ogni dimensione del giorno. Nulla ha più valore di questo e richiede più tempo per i bambini richiamati alle loro radici, è stato gioco indossare le vesti della domenica più seria o erompere nella fatica di organizzare una rinascita, eppure come un carosello, dato il tempo della giostra, ogni mano ha saputo scegliere il suo compagno e guidarlo per la corsa. Così “enfants” dalle fantasie magiche o operai di un gran macchinario della prossimità, ogni unione dall’intimità profonda, ha le sue distanze con quanto non s’aggrega, non collimando. Chi si è trovato spiazzato potrà raccontare aneddoti curiosi: cavi elettrici tranciati con asce, telefonate giornaliere alle forze dell’ordine e sospetti che tra le performance fossero inserite messe nere. Il palinsesto delle voci di contro suggerisce un rapporto per ora non del tutto risolto tra chi, entusiasmato, converge a Valle Cascia e chi, a malincuore, non riconosce più il silenzio della vita di provincia.
È necessario, smussare alcune di tensioni e ragionare, tra comunità permanente e comunità convergente, sulle possibilità future di quest’isola. Certo anche con le voci di chi al coro più giovane promette il cicalìo sopra le porte Scee, come consiglio degli anziani di Troia. Bisognerà chiedersi cos’è stata Valle Cascia finora e cosa potrà essere d’ora in avanti, chi vorrà testimoniare una rinascita o abbandonarsi, alla maniera d’epigoni, al canto del cigno d’una fornace spenta.
Questa tensione è parte, seppur minimamente a fuoco, della cinetica che si attraversa. Potremmo contenere l’equilibrio di Valle Cascia nella nozione greca di amicizia: ci si riconosce altro da sé, non v’è unione consustanziale effusiva, pare d’essere strumenti, oltre il carnale ci si ritrova spiritualmente. Questo massimo distacco è ciò che concede l’unione attiva nell’insieme, radicalmente politico, distante dall’intimo, dal segreto, per questo pubblico e con le naturali avversioni dello svelamento. Nel venire insieme è posta una semantica ri-abitativa, creando uno spazio polifonico per riordinare il presente, attraverso la costruzione di un agire individuale che strabordi. Alla maniera di Lisistrata, portando dal quotidiano, dall’ oìkos, quanto c’è di civile in senso politico. Si tenta di sconfinare, caricandosi di attributi autonomi «[…] per pensare oggi l’impegno politico in un mondo dove il danno all’ambiente è pervasivo e onnipresente e intrecciato a doppio filo a una crisi sociale che continua ad aggravarsi» (Laura Centemeri, Riabitare. L’impegno ambientalista in un mondo rovinato).
Diario: quanto verrà
Da ogni luogo, ci si può augurare, converranno gli occhi e le voci in questo dialogo tra moda e morte. Definire una summa degli avvenimenti: più si tenta e maggiore è la distanza dall’oggettività. Non è possibile esaurirsi o far che siano esaudite le richieste, ma in questo luogo tra le malerbe umane e fitomorfe, una crepa s’allarga e promette un riscatto, giura crollo e abbrivio. Allora adesso in cuore m’è chiara almeno una delle domande: so che non si attardano le piante pioniere, da ogni voce, da ogni crepa. È necessario lasciare che sia il margine a provocarci. Avremo così da attendere, citando la Campo, «una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile»
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Aren (2001) ha lavorato alla realizzazione dei Fumi della Fornace 2023 (Vallecascia, MC). Studioso di letteratura e archeologia, nel 2017 ha fondato la compagnia teatrale “I Serranda”. Collaboratore assiduo di numerosi festival è stato membro e curatore di progetti nell’ambito musicale, letterario e teatrale.