di Paolo Costa

 

[La prima parte di questo articolo è stata pubblicata qui]

 

Di ritorno dal Giappone Bellah ottiene, a soli 34 anni, l’ambita tenure grazie al sostegno incondizionato di Parsons. Per celebrare degnamente il passaggio da lecturer a professore associato scrive e dà alle stampe il manifesto teorico che rivela al mondo quale sia il sacro Graal della sua missione di studioso: comprendere l’evoluzione religiosa dell’umanità[1].

Nel 1966, dopo aver trascorso un anno presso il Center for Advanced Studies in the Behavioral Sciences a Stanford, Bellah rompe gli indugi e, malgrado la recente nomina a full professor, decide di accettare la generosa offerta fattagli da Reinhard Bendix per conto della University of California. L’anno successivo Bob si trasferisce con Melanie e le sue quattro figlie (Tammy, Jenny, Abby e Hally) nella Bay Area di San Francisco e diventa Ford Professor of Sociology e direttore del Center for Japanese and Korean Studies a Berkeley. Con il trasferimento nella West Coast («an outward expression of an inward change»)[2] ha inizio il decennio più spericolato della vita di Bellah in cui si fondono, a volte confusamente, esplorazione intellettuale, esistenziale, psicologica, erotica, religiosa. Per un breve ma significativo periodo N.O. Brown, l’autore di Love’s Body, diventa la sua principale fonte d’ispirazione: «un Talcott Parsons estatico», come ebbe a definirlo in una lettera allo sconcertato maestro[3]. L’asse della sua ricerca al contempo esistenziale e scientifica diventa, in un periodo di estrema effervescenza intellettuale, la riunificazione di mente, corpo, emozioni. Scienza e poesia, teoria e profezia, dottrina e mistica, anziché fiorire in campi separati, devono fondersi in una sintesi superiore. Nella sfera privata, Bob e Melanie optano per un matrimonio aperto.

Il 12 aprile 1973, mentre sta combattendo una feroce battaglia accademica per ricongiungersi al suo amico Geertz nell’Ínstitute for Advanced Study di Princeton, gli giunge la notizia del suicidio di Tammy, la sua figlia maggiore. L’immediato ritorno in California pone bruscamente fine al «Bellah affair» e segna l’avvio di una dolorosa resa dei conti con le sue scelte personali e professionali all’ombra di un «patto infranto»[4]. Il 5 dicembre 1976 la tragedia ha un secondo atroce atto con la morte di Abby, la sua terzogenita, in un assurdo incidente stradale sulle colline di San Francisco. Alla fine del decennio più avventuroso e sventurato della sua vita, Bellah viene infine a patti con la propria omosessualità e con il fardello emotivo dell’abbandono paterno. L’improvvisa morte di Talcott Parsons l’8 maggio 1979 a Monaco di Baviera diventa per lui l’emblema del suo definitivo congedo dall’età dell’incertezza[5].

Gli ultimi trent’anni della carriera di Bellah sono segnati da due eventi principali. Il primo è il successo editoriale di Habits of the Hearts, il libro in cui, con il contributo decisivo di Richard Madsen, Bill Sullivan, Steven Tipton e Ann Swidler, vengono investigate in uno spirito genuinamente tocquevillano le luci e le ombre dell’individualismo americano[6]. La parabola di Bellah intellettuale pubblico e interprete originale del sogno americano tocca così il suo apice. Il secondo episodio è la scelta di dedicare la fase finale della sua carriera alla realizzazione del progetto di ricerca annunciato quasi quarant’anni prima nell’articolo dedicato all’evoluzione religiosa. Nel 2011, dopo quindici anni di intenso lavoro interdisciplinare, esce presso Harvard University Press Religion in Human Evolution, un’indagine monumentale sul ruolo svolto dalla religione nell’evoluzione culturale della specie umana, con un’attenzione speciale per la cosiddetta svolta assiale del I millennio a.e.v. e le sue diramazioni nell’ebraismo, nella filosofia greca, nell’induismo/buddismo e nel confucianesimo[7]. Bellah morirà nel 2013, dopo un intervento al cuore che avrebbe dovuto essere di routine, mentre stava progettando il libro sulla modernità annunciato nelle pagine finali del suo opus magnum. Da alcuni anni aveva affidato a Bortolini il compito di custodire la sua eredità intellettuale. A Joyfully Serious Man è la prova che Bellah era, in senso aristotelico, un uomo fortunato.

  1. Anche da questo riassunto piatto, incolore, che non rende giustizia al fascino del contorto itinerario esistenziale e mentale di Bellah, si può capire quanto possa essere difficile raccontare la sua storia esemplare con l’intento di «dire ciò che è». Per tornare all’inizio del mio ragionamento, facciamo finta che il sociologo americano sia un nostro lontano parente e che, pungolati dalla notizia della sua improvvisa morte, ci venga voglia di capire chi fosse veramente lo zio Bob. Alla fine incontriamo una persona che sembra sapere tutto su di lui e la bombardiamo di domande. Più i dettagli biografici si accumulano, però, più la confusione aumenta. Più intricati sono gli eventi, meno chiari appaiono gli scopi, i moventi, i valori, i torti, le ragioni e i reali significati delle scelte e dei loro contesti. Curiosità spicciola a parte, che cosa può tenere viva l’attenzione? Che cosa ha senso aspettarsi da una narrazione così diluita nel tempo e, quali che siano l’abilità e l’impegno di chi ne sovrintende lo svolgimento, inevitabilmente selettiva?

L’impressione che si ricava dal libro di Bortolini è che, se raccontata come si deve, la storia di Bellah lasci intravvedere un pattern, anche se il motivo, la figura che affiora dagli eventi episodici, non è trasparente, non si spiega da sé, resta in ultima istanza equivoca. Per evocare una celebre distinzione hegeliana, il «familiare» non si trasforma immediatamente in «noto». Affinché il riconoscibile trapassi nel riconosciuto serve un lavoro assiduo e scrupoloso di articolazione dell’implicito. Più in particolare, occorre illuminare con cura il contesto in cui prende forma il resoconto biografico in modo che, grazie all’effetto volta a volta di consonanza, dissonanza e risonanza tra gli elementi del quadro, il pattern individuale assuma le sembianze di un pattern sovraindividuale.

Da questo punto di vista, l’aspetto più innovativo e ammirevole del libro di Bortolini è proprio la capacità di creare un campo di tensione ermeneutica affiancando a una ricostruzione simpatetica della vicenda umana e professionale di Bellah punti di vista eccentrici che ne problematizzano sistematicamente il senso, l’autocomprensione, il valore. Così facendo, ciò che si ottiene in cambio è un’adesione non mimetica al protagonista della storia. Capitolo dopo capitolo si percepisce, cioè, una genuina ammirazione del biografo per il suo soggetto, ma anche un senso vivido dell’inadeguatezza dell’uomo – che è poi un segnaposto dell’inadeguatezza del genere umano nella sua totalità.

In particolare, se si va alla ricerca di un segno del tempo nella vicenda umana e professionale, molto ben documentata, di Bellah l’aspetto che spicca di più è la tensione strutturale tra il suo «self-absorption», il suo egocentrismo, e le spinte centrifughe che scaturiscono sistematicamente dal nucleo della sua vita di studioso. Mi azzarderei persino a sostenere che sia proprio questo il profilo più significativo che riemerge spontaneamente dalla narrazione e genera il sense-of-reality che galvanizza il lettore. È un profilo, tuttavia, non trasparente, con una sua enigmatica bistabilità. Non solo l’entusiasmo di Bellah, osservato da un altro punto di vista, appare dannatamente accigliato, ma la sua preoccupazione ossessiva per il proprio destino personale, se la si osserva obliquamente, sembra in realtà guidata dal desiderio di detronizzare l’io, di mortificare la passione moderna per il sé. L’atmosfera di relativa pace che si respira negli ultimi capitoli del libro da che cosa dipende, in fondo, se non dal progressivo decentramento del sé nel campo di attenzione di Bellah? Comprensibilmente, la vittoria sul dispotismo dell’io è parziale, transitoria, obliqua. Come potrebbe essere altrimenti in un mondo che ci spinge a mettere le gratificazioni dell’io sempre al centro dei nostri pensieri, progetti, occupazioni? E come potrebbe essere altrimenti per una persona che è invecchiata misurando la distanza che la separava dal traguardo che gli avevano assegnato d’imperio a Harvard: essere il nuovo Max Weber – il campione delle dicotomie moderne e della coscienza irriducibilmente divisa?

Si può dunque raccontare la storia di Bob Bellah come la storia di un uomo che ha speso le sue migliori energie per scovare la realtà dietro l’apparenza. Tale realtà, o il suo simulacro, detto concisamente, assume per lo più le sembianze di una totalità capace di integrare la particolarità senza negarla. A conti fatti, questa ricerca della realtà sottostante finisce per ruotare ossessivamente attorno all’individualità. L’obiettivo finale, però, è di trascenderla, disinnescandone il superficiale, ma resiliente senso d’importanza. Il real self di Bellah, insomma, è un self che ha saputo riconoscere l’alterità come parte costitutiva di sé, senza trasfigurarla in un idolo, banalizzandola semmai. Persino il duplice abbandono del padre, che è senza dubbio l’episodio decisivo della vita di Bellah, assume alla fine della storia le sembianze ridotte (e corrette) di un prosaico contesto della scoperta, che non sostituisce e non esautora il contesto di giustificazione: il foro pullulante di storie in cui si decide del senso ultimo dell’esistenza gioiosamente seria dell’infaticabile Bob, perennemente alla caccia di una ragione estatica e della definitiva epifania intellettuale.

  1. In Like a Fiery Elephant, un’altra eccellente biografia di un uomo larger than life, il suo autore, lo scrittore inglese Jonathan Coe, scava nella vita di uno dei propri beniamini, il beckettiano B.S. Johnson, e con uno stupefacente gioco di specchi pone il lettore di fronte a una chimera non meno bizzarra di un comunitarista ossessionato dal proprio sé: un novelist tormentato dal potere della letteratura di mentire[8].

Mentire significa ignorare deliberatamente la realtà. Per un parresiasta compulsivo come Johnson dire la verità significa semplicemente dire come stanno le cose: non camuffare mai la realtà. Questa si manifesta costantemente nei suoi scritti come una fonte di frustrazione, un muro contro cui si deve prima o poi andare a sbattere, un agglomerato di fatti, insomma, che non chiede di essere raccontato, ma notificato, tutt’al più denunciato. Il punto, alla fine, è quanta realtà si è in grado di sopportare: quanto è grande il proprio coraggio, quanto adamantina la propria integrità, quanto incontenibile la propria furia.

La serietà che si respira nei romanzi, nelle poesie, negli articoli, nei filmati di B.S. Johnson è evidentemente il prodotto dell’enorme fardello che viene caricato sulle spalle di chi accetta questo tipo di sfida intellettuale, che comprensibilmente non lascia granché spazio per la gioia. Se Bellah aveva la possibilità di definirsi, a seconda dei casi, un ottimista pessimista o un pessimista ottimista, B.S. Johnson è un apocalittico che può confidare tutt’al più in un po’ di caustico senso dell’umorismo e, finché regge, nella protezione di una risata tonante.

Non diversamente da Bortolini, anche Coe intreccia con il suo soggetto una relazione intricata e dialettica. C’è chiaramente una forte simpatia, ma l’ammirazione non sfocia mai in un’adesione mimetica e la ricerca di un disegno, una figura, un pattern, resta il motore della narrazione. Ci sono alcune similitudini tra le storie di Bellah e Johnson – l’infanzia difficile, un padre assente, un’ambizione divorante, una bella moglie e una famiglia numerosa, un’identità sessuale tormentata, una vocazione intellettuale granitica e una sensibilità fuori dal comune – ma le analogie finiscono qui. La divaricazione dei profili è infatti il fenomeno più interessante. Nella storia raccontata da Bortolini il caos che permea la condizione umana mantiene qualcosa di generativo. Per evocare il vocabolario teologico di Paul Tillich, dall’angoscia di fronte alla mancanza di senso può sempre scaturire, con uno slancio imprevisto, il «coraggio di esistere»[9]. Un simile processo rigenerativo ha l’ambivalenza delle ierofanie. Sebbene le irruzioni di ciò che è iperbolicamente reale mettano immancabilmente a soqquadro il senso comune delle persone, il sovvertimento delle aspettative può produrre sia disorientamento sia un bisogno di integrazione a un livello superiore di riflessività. La «realtà» rimane cioè il termine di paragone, ma non opera soltanto come una minaccia diretta alla vulnerabilità del soggetto o come una fonte di frustrazione dei suoi desideri. Per questo può essere raccontata a oltranza.

Nella storia tragica riesumata da Coe, invece, l’ambivalenza alla fine si ossifica e il blocco produce una contraddizione insanabile. A quel punto la serietà può produrre solo una escalation di amarezza e recriminazioni che culmina con il tracollo in una voragine allucinatoria. Paradossalmente, la realtà smette di essere un unico solido contraltare della parola e si popola di fantasmi. Oppresso dal compito titanico di fungere da garante del rispetto della cruda fatticità delle cose, il parresiasta si trasforma gradualmente in un paranoico per il quale ogni irruzione del fantastico, dell’inatteso, assume un aspetto minaccioso, persecutorio. Alla fine il suicidio interrompe bruscamente e senza appello il flusso del racconto. Fine della storia.

Tirate le somme, come dobbiamo interpretare questo esito tragico? Come il fallimento di un’impresa eroica? Come l’atto supremo di coraggio di uno scrittore che ha osato guardare nell’abisso senza mai abbassare lo sguardo? Oppure come la prova che un senso adulto della realtà è una condizione che si può raggiungere solo con una traiettoria spiraliforme che, più che quantificare la nostra capacità di sopportazione, misura la nostra abilità di essere felicemente seri o gioiosamente realisti?

Dove stanno le migliori ragioni alla fine? Ed esistono queste ragioni? E spetta a un buon racconto portarle a galla?

Quesiti difficili, scottanti. Sono le domande che aleggiano nell’aria anche dopo aver letto il magnifico libro di Matteo Bortolini che, tra i suoi molti pregi, ha pure quello di non contenere tutto quello che l’autore avrebbe potuto dire. Questo riserbo è una dote tipica dei narratori di razza che sanno che c’è un unico modo per confutarli, raccontare una storia migliore, e si preparano per tempo.

[1] R.N. Bellah, Religious Evolution, «American Sociological Review», 29, 1964, pp. 358-374.

[2] R.N. Bellah, Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-Traditional World, Harper and Row, New York 1970, p. xvii.

[3] N.O. Brown, Corpo d’amore, trad. it. di S. Giacomoni, Mondadori, Milano 1969; M. Bortolini, A Joyfully Serious Man, cit., p. 139.

[4] R.N. Bellah, The Broken Covenant: American Civil Religion in Time of Trial, Seabury Press, New York 1975; M. Bortolini, The «Bellah Affair» at Princeton. Scholarly Excellence and Academic Freedom in America in the 1970s, «The American Sociologist», 42, 2011/1, pp. 3-33; M. Bortolini, A Joyfully Serious Man, cit., capp. 13 e 14.

[5] M. Bortolini, A Joyfully Serious Man, cit., p. 222.

[6] R.N. Bellah, R. Madsen, W.M. Sullivan, A. Swindler, S.M. Tipton, Abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, trad. it. di M. Rosati, Armando, Roma 1996.

[7] R.N. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2011.

[8] J. Coe, Come un furioso elefante. La vita di B.S. Johnson in 160 frammenti, trad. it. di S. Rota Sperti, Feltrinelli, Milano 2011.

[9] P. Tillich, Che cos’è il coraggio?, trad. it. di G. Sardelli, Fazi, Roma 2015.

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