a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[All’inizio dell’anno, Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Dopo Ivan Schiavone, Charles Bernstein,Marilina Ciaco, Nathalie Quintane e Rachel Lamoureux, Michele Zaffarano, ospitiamo oggi le risposte e le riflessioni di Vincenzo Frungillo].
1) Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?
Fin dai primi anni del Duemila ho sentito l’esigenza di elaborare una poesia corale, che guardasse alla tradizione poematica italiana ed europea, non per una mera scelta di genere ma per necessità teorica e politica. La questione del noi aveva un suo peso. Pensavo che bisognasse ragionare nuovamente sulla “cornice” per sfatare l’incantesimo di una condizione di benessere edonistica giustificata dal presupposto filosofico della fine della storia (su questo rimando a quanto già scritto in un saggio uscito in diverse sedi e ospitato anche qui in LPLC nel 2012). Da Omero (si confronti Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, o anche Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno) a Tasso, da Eliot a Majorino e Pagliarani, la poesia ha avuto lo scopo di richiamare in scena la dinamica di forze nascoste (su questo aspetto rimando anche a Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione, Carteggi Letterari le edizioni, Messina, 2017, che raccoglie i saggi da me pubblicati sull’argomento a partire dal 2008). Le grandi produzioni poematiche, in fondo, hanno agito sempre dopo eventi epocali per ritessere le ferite provocate dai traumi o per far parlare il rimosso. I primi testi che ho pubblicato si ripromettevano di seguire in chiave contemporanea il calco dei modelli. L’intera rappresentazione scenica di quei poemetti giocava con lo sguardo del lettore, chiedeva una sua precisa e diretta partecipazione, per questo motivo ho cercato di realizzare testi strutturati, fondati magari su rimandi interni o meta-testuali (documenti, immagini, sezioni in prosa e note), tutte le componenti sarebbero state funzionali a questo scopo: dalla metrica alla lingua, dalla scelta dei personaggi alla divisione delle parti. Ogni personaggio, sulla scorta della lezione di Benjamin e di Jesi, avrebbe avuto una funzione allegorica, non sarebbe stato semplice descrizione di un carattere. Il meccanismo testuale nel suo complesso era un’indagine sul rimosso collettivo.
Le opere più recenti, invece, ritessono il legame tra forze opposte, rivelano il meccanismo che si cela dietro i quadri dei primi poemetti. Qui i nomi sono identità accennate che mettono in atto la nostra situazione di specie, anzi, il centro stesso della poesia è la relazione tra il corpo, nostra matrice animale, e la parola, nostra prima tecnica di conservazione e sopravvivenza. La distanza irrisolta tra i due diventa spazio testuale e prateria primordiale.
2) Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?
Se l’”io è il più volgare dei pronomi”, il noi non lo è da meno, stando almeno ai disastri che ha provocato nella storia. Ricordo un passaggio di Heidegger dei suoi corsi sul linguaggio degli anni Trenta, quando giustificava la propria adesione al nazismo, dicendo: “Bisogna far saltare la cassaforte dell’io per permettere il noi del Popolo”. Il noi, evidentemente, può essere un’adesione alienata agli accadimenti collettivi. Ma tra gli eventi e la loro codifica in forme artistiche c’è sempre di mezzo uno spazio, un contraccolpo. Restare nella bolla di una presupposta giustificazione aprioristica del mondo, o dei fatti che ci circondano, presuppone la reificazione di un Io o di un Noi. Anche per questo motivo, provo una certa difficoltà nel leggere opere che riproducono, con indubbia capacità e perizia tecnica, la depressione del mondo personale su quello collettivo come se fosse una condizione inesorabile e però vagamente compiaciuta. Il paradigma del grado zero della scrittura allude ad un assottigliarsi millesimale del diaframma che separa io e mondo, soggetto creativo e mondo oggettivo, con la conseguente decadenza di tutti gli strumenti compositivi che solitamente caratterizzano la produzione poetico letteraria. Sarebbe come dire che gli accadimenti decodificati in truismi o, più in generale, in un senso comune possano sostituire lo spazio, la distanza di cui parlavo nella risposta precedente. La questione può essere raffrontata con le ricerche dell’ultimo Wittgenstein a proposito della “certezza” e del “senso comune” in Moore. I giochi linguistici, i meccanismi di senso che elabora l’uomo, hanno in sé uno spazio non esautorabile attraverso una specifica prassi comune né per mezzo di un fondamento razionale. Non si può confondere una partita del gioco con il gioco stesso. Ogni situazione, ogni condizione storica, ci obbliga alla rimessa in atto di prassi linguistiche sulla base della nostra condizione di esseri esposti al tempo, la “poesia in situazione” per l’appunto. Da questa condizione non si può sfuggire né nichilisticamente né ideologicamente. L’opera poetica deve stare nel tempo, ricordando così la dinamica del linguaggio come continuo e reiterato scontro di forze: la dynamis di fondo che non ha letteralmente fine. Quando Sadie Plant nel suo Zero, uno ci ricorda l’importanza dell’azione del tessere nella storia dell’umanità, mi sembra, che ci stia suggerendo precisamente questo: ci ricorda che questo gesto, operazione esclusiva delle donne nel mondo antico, prevede una falla iniziale che non può essere compresa dal disegno che si cerca di raffigurare sulla tela a cui si sta lavorando. Il vuoto è il principio che alimenta il disegno e la sua dinamica. Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, quando parla della tessitura, per alludere alla significazione, scrive: “Tu pensi di dover tessere una stoffa: perché seduto a un telaio -ancorché vuoto- e fai i movimenti caratteristici del tessere”. D’altro canto, provo una certa diffidenza verso la poesia civile che dice noi senza lavorare sul meccanismo testuale, intesa come impianto di senso, come se ancora una volta bastasse la postura autoriale e la citazione di certa poesia impegnata perché si possa sfuggire alla trappola dell’autoreferenzialità. L’interrogazione deve restare sul mistero della composizione e sulla dinamica di fondo. La tecnica ha un senso più ampio della mera capacità di mestiere o del tecnicismo. Da questo punto di vista, resta incisiva la figura dell’agrimensore kafkiano che misura il vuoto originario, o, se vogliamo, che misura ogni volta lo spazio di distanza che approssima il bios e il logos, il motore primo di ogni scrittura, senza arrivare mai all’interno del castello a cospetto di colui che gli ha commissionato il lavoro.
Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?
Più che immagine dialettica direi “dialettica in fase di arresto” per citare G. Bataille, anche se il filosofo francese usava questa espressione per reintrodurre il concetto di sacro nella letteratura contemporanea. La userei piuttosto per dire il movimento incessante di cui parlavo nella risposta precedente. Una dialettica prevede hegelianamente una sintesi e una ricomposizione finale, qui invece è lo scontro e la sovrapposizione che prevale, così come nei versi franti e asintattici Giancarlo Majorino o anche, sulla base di un paradigma beckettiano o celaniano, nei versi di Giuliano Mesa.
3) Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?
Il problema resta il mezzo o lo strumento di diffusione e di trasmissione del testo, il medium. Se leggo poesia in rete rischio di assecondare tempi e spazi di elaborazione che non sono quelli proprio della composizione creativa e lo stesso atto ermeneutico rischia di perdere il margine di fraintendimento, di distanza, necessario alla critica. La mente potrebbe assecondare il medium più potente ed essere regolata da tale “dispositivo” o “impianto”. Su questo mi sembra abbia scritto cose interessanti Zizek in Che cos’è l’immaginario. Il noi in questo contesto resta altamente problematico. L’accelerazione è una caratteristica propria della rivoluzione informatica che è riduzione del linguaggio a codice elementare così come previsto dalla linea genetica della logica modale. Un codice più semplice è sempre più efficace. Ciò che conta nella rete è il volume dei dati piuttosto che la complessità del testo. Continuo, del resto, a pensare che la deriva accelerazionista di alcune correnti della scrittura contemporanea, pur ammettendo il loro indubbio fascino, nasconda un’utopia negativa fuorviante e fondata su presupposti teorici e ontologici discutibili. Qui si agisce come se fosse possibile una fuoriuscita, seppur negativa, dalla dinamica compositiva che ho cercato di descrivere. La composizione non è una dinamica egoica, fondata sul presupposto ontologico di un io, e non è addizionando degli io reificati che si ottiene un noi. Interessante resta invece la pratica di una traduzione e reinterpretazione di testi stranieri nella lingua madre, lì dove la traduzione è trasmissione e processo interpretativo alto. Qui sono ancora dalla parte di Benjamin e su quanto ci dice ne “il compito del traduttore”, ossia la traduzione è rimessa in gioco del senso profondo del linguaggio prima ancora che “comunicazione”; tradurre significa mettere in atto il movimento stesso insito nella lingua.
4) Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?
Mi sembra che la questione antropologica, in relazione a quella tecnologica e politica, sia importante. Autori come Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, ad esempio, possono essere rilevanti per una considerazione più ampia sulla funzione originaria della scrittura. I due inventori dell’”antropologia filosofica” hanno messo in rilievo come un deficit biologico dell’uomo rispetto all’animale venga compensato con la produzione di cultura o con la tecnica. In particolare, scrive Plessner nel suo capolavoro I gradi dell’organico e l’uomo: “La sua forma eccentrica [corsivo mio] spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità. Gli uomini ottengono in ogni epoca ciò che vogliono. E, mentre l’ottengono, l’uomo invisibile che è in loro si è già spostato oltre. Il suo costitutivo sradicamento attesta la realtà della storia universale”. Questa sintesi di estrema chiarezza, citata dalla parte finale del libro, Le leggi antropologiche fondamentali (ivi, p. 163, Bollati Boringhieri, 2019), ci rende l’idea della tecnica come strumento di compensazione dello spazio incolmabile che divide l’uomo dall’ambiente. Il linguaggio, la scrittura, è la tecnica che registra il movimento della specie e la sua stessa caducità. Su questo aspetto si concentra la parabola allegorica del poema Ogni cinque bracciate (2007-2009), insistendo sulla relazione corpo-chimica-politica. Per inciso, e per essere più chiari, il postumano è l’utopia negativa che auspica una fuoriuscita da questa condizione e non certo lo sguardo realistico sulle dinamiche che ci riguardano. La poesia, invece, così come ci ricorda Heidegger nel famoso saggio Parché i poeti?, è l’arte che, per statuto, si limita a darcene memoria, in quanto “ qualsiasi ente, gli oggetti della coscienza e le cose del cuore, gli uomini autoimponentesi e i più arrischiati, tutti gli esseri, ognuno secondo il proprio modo, sono nella regione del linguaggio” (così in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, 1984, p. 237) , e “i più arrischiati sono coloro che nella mancanza di salvezza si rendono conto del nostro essere senza protezione”. Ciò che ci sostanzia come comunità nel tempo è precario e caduco, e la poesia mette in scena sia il fondo che la caducità. Non si tratta quindi di essere romantici sostenitori delle ragioni del cuore o, al contrario, apocalittici accelerazionisti. Insieme a Plessner e Gehlen (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo), mi sembra interessante per la scrittura di questi anni anche René Girard per l’analisi della violenza e del capro, concetto importante dal punto di vista politico, soprattutto in un Paese come il nostro tanto poco avvezzo all’”eccentricità” (sia a destra che a sinistra, politicamente parlando). In uno scenario di feticizzazione della partecipazione mediatica, la ricerca della vittima come elemento di risoluzione di dinamiche complesse è il rischio maggiore.
5) Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?
Se si riesce a sviluppare un confronto aldilà della mera questione di genere, che mi sembra ormai tematica speciosa e superata, direi che il dibattito può essere interessante.