di Tiziano Gorini

 

L’uomo è la malattia mortale dell’animale

(A.Kojeve)

 

Dalle sue antiche origini fino all’età contemporanea il copioso inventario dell’immaginario occidentale è disseminato di metamorfosi: nell’arcaica Epopea di Gilgamesh la dea Inanna muta il suo amante in uccello e nell’Odissea la maga Circe in maiali i compagni di Ulisse, nell’Eneide le navi troiane diventano ninfe, nella medievale Commedia dantesca Pier delle Vigne è tramutato in un arbusto,  nel XIX secolo Collodi racconta diun pezzo di legno che diventa un bambino e nel XX Kafka narra di un uomo che si trasforma in un insetto. Ed è un’opera cardinale della letteratura, fonte ricorrente di imitazioni, ispirazioni, variazioni, Le metamorfosi di Ovidio, in cui la sequenza delle metamorfosi mitiche di dei e semidei, eroi ed eroine, rappresenta un’enciclopedia mitologica e al contempo disegna una sorta di storia universale che si sdipana dal Caos primordiale all’apoteosi di Cesare e Ottaviano. Nell’incipit Ovidio dichiara il suo intento: In nova fert animus mutatas dicere formas corpora: ed è appunto questo mutarsi della forme in nova corpora la ‘metamorfosi’; la parola traduce il greco μεταμόρϕωσις, da meta, ‘oltre’, e morphé, ‘forma’, che denota appunto l’assunzione da  parte di esseri divini o mortali di un’altra, differente forma, animata o inanimata, causata da un intervento soprannaturale.

 

Essendo così numerose le metamorfosi immaginate e narrate se ne può perfino dedurre una classificazione: c’è quella volontaria (che riguarda gli dei) e quella involontaria (che invece riguarda gli umani), la reversibile ( che consente in svariati modi il ritorno allo stato originario) e l’irreversibile (che avviene durante in vita, in punto di morte o dopo la morte); può essere, infine, ascendente (se è una ricompensa divina, come per Filomene e Bauci) o discendente (se invece è una punizione, come accade a Licaone); inoltre innumerevoli sono le forme assunte: Scilla, ad esempio, diviene pietra, Marsia un fiume, Dafne un albero, Atteone un animale e, infine, Medusa un mostro anguicrinito. Ma sempre si tratta della manifestazione dell’effervescenza della realtà,  che  improvvisamente palesa una pluralità di clandestini interstizi che consentono, nel contingente sdipanarsi delle possibilità dell’essere,  la transizione tra l’umano e l’inumano.

 

Perciò, poiché essa ha senso soltanto entro una rappresentazione di una natura animata, perennemente esposta al mutamento, dove è possibile all’essere umano avvertire la familiarità con un sasso, un fiore, un animale, un dio, la metamorfosi è l’espressione di un pensiero arcaico, della credenza nel sovrannaturale che pervade il mondo reale. Quando, col moderno procedere dell’opera di disincanto di questo mondo intriso di divino e di magico, un’altra rappresentazione della natura ha soppresso l’antico animismo, sbarrandone le frontiere  ontologiche, la metamorfosi perde la sua aura letteraria, proprio perché l’animismo può ormai trovare ospitalità soltanto nei versi di qualche poeta romantico e decadente; piuttosto la letteratura dell’età del positivismo e della scienza arditamente elaborerà la perversa figura dello scienziato, criminale o filantropo – o, in una drammatica torsione etica,  ambedue – intento ad operare scientificamente ben altre metamorfosi, sostituendosi al dio antico nella  propria allucinata onnipotenza: Frankestein, Jekill, Moreau,  Preobraženski.

 

Eppure l’opera più inquietante – e dunque continuamente riletta e variamente interpretata – della letteratura contemporanea ancora narra proprio di una orrenda metamorfosi: è La metamorfosi, di Franz Kafka.

Il racconto inizia quando la metamorfosi si è già inesplicabilmente compiuta: il protagonista, Gregor Samsa, si è svegliato trasformato in «un insetto mostruoso». Tuttavia in un primo momento non sembra rendersi conto della sua nuova straordinaria condizione, è più preoccupato per gli intoppi che ne deriveranno al suo lavoro, per l’ansia dei suoi familiari le cui voci gli giungono dalle altre stanze, per le critiche e le minacce proferite dal procuratore della sua ditta, sopraggiunto a chiedere ragione del suo ritardo. Cosicché il lettore è indirettamente informato sulla grama vita quotidiana che Gregor conduce, mentre attende una spiegazione dell’orribile mutazione che l’ha colpito. Spiegazione che non ci sarà e che nessuno cerca, né Gregor né i suoi familiari, tutti rassegnati a quella assurda normalità che nel tempo si stabilisce: lui, recluso nella sua stanza, imparerà a convivere col suo nuovo corpo, giungendo perfino a provare «una beata spensieratezza»; loro si impegneranno come possono a sopravvivere a quella vergognosa catastrofe, che è anche economica, poiché Gregor era l’unico sostegno della famiglia. Il padre gli è ostile, la madre sprofonda nel dolore, la sorella tenta di gestire praticamente quel disperato stato di cose, inseguendo una parvenza di normalità, ma infine la situazione inesorabilmente precipita, quando Gregor esce dalla propria stanza per partecipare almeno per un momento a quell’atmosfera familiare che per lui ormai è perduta, provocando invece una subitanea ed irata repulsione che si manifesta coll’aggressione del padre, che lo ferisce, e la decisione di liberarsi di quel mostro che sta distruggendo la loro vita. Infine Gregor, reietto e disprezzato, morirà, per la ferita e per l’inedia; si lascia morire, convinto che solo la morte potrà liberare lui e soprattutto la sua famiglia dall’incubo della sua mostruosità.

 

Se proiettassimo La metamorfosi nel passato, alla ricerca di qualche corrispondenza narrativa o ideologica con le metamorfosi narrate dalla mitologia e dalla letteratura classica, potremmo compararla con L’asino d’oro, di Apuleio, dove appunto è narrata la trasformazione di un esuberante giovane in cerca di avventure, Lucio, in un asino. Poiché in ambedue le storie un essere umano è mutato in un animale tematicamente sembrerebbero analoghe, tuttavia più che le somiglianze sono significative le differenze, in quanto segnano un trapasso ideologico tra la mentalità antica e quella moderna, perché mentre la metamorfosi animalesca e degradante di Lucio ha una propria causalità (è l’esito di un malriuscito esperimento di magia tentato dallo sprovveduto con la sua amante) coerentemente compatibile con la religione e la cultura dell’epoca di Apuleio, è reversibile ed infine, una volta riconquistata la parvenza umana, valutabile come una rinascita spirituale, la conquista di una più compiuta umanità, quella di Gregor è inesplicabile, insensata, mortale. La metamorfosi di Lucio è infine un processo di espiazione e redenzione, favorito dal benigno intervento della divinità, laddove tra la dimensione umana  e quella divina c’è comunque un’ apertura, la possibilità di una comunicazione; in termini cristiani si potrebbe definirla una grazia; la metamorfosi di Gregor invece non ha nulla di causale né di religioso, tranne forse una sua affinità con la disperazione di Giobbe, e neanche si può attribuire a un dio, sia pure maligno; è soltanto una inesorabile regressione verso un altro mondo: un’epifania dell’assurdo.

 

Lo è per Albert Camus, che in Il mito di Sisifo ha definito La metamorfosi «l’orrenda oleografia di un’etica della lucidità», in quanto rappresentazione dell’estrema e tragica rassegnazione all’insensatezza della realtà; ma su ciò vi è sufficiente concordanza tra le sue pur differenti interpretazioni, sia quelle che la intendono come una critica della società repressiva che distrugge l’individuo, sia quelle che la intendono come la messa in scena di un conflitto edipico (e in ciò i critici di ispirazione psicoanalitica hanno il sostegno della celebre, ma a mio parere fraintesa, Lettera al padre), sia quelle filosofiche, che vi rintracciano assonanze esistenzialistiche con la tragica condizione universale dell’essere umano deietto nel mondo: per tutti comunque la trasformazione di Gregor Samsa in un insetto è l’espressione di un disperato soccombere della vita, l’allegoria di un processo di alienazione dell’umanità che non concede alternative alla morte. Ma le interpretazioni potrebbero moltiplicarsi, poiché questo racconto è – come l’ha definito Cesare Luperini – una “allegoria vuota”, in quanto priva di quell’ulteriore significato a cui il racconto allegorico necessariamente si riferisce; quindi ognuno potrà scegliersi quella ritenuta migliore. Io scelgo quella  di Deleuze e Guattari, che nella metamorfosi di Gregor Samsa, nel suo divenire animale, vedono la fallita «via d’uscita, la linea di fuga» da una realtà assurda, che perciò diviene un’ autodissoluzione; tuttavia, poiché ne condivido la prospettiva ma dissento sui contenuti, intendo deviarne l’analisi verso un ambito ideologico molto differente, un po’ heideggeriano, siccome vi è centrale l’idea di humanitas  che – come appunto Heidegger riteneva –  consiste in una  differenza radicale dall’ animalitas.

 

Non c’è dubbio che i racconti di Kafka siano la costante rappresentazione della ricerca di linee di fuga dall’assurdità del mondo,    tragicamente (ma talvolta pure comicamente) interdette, come accade con la morte del K. in Il processo e con l’angoscioso smarrimento dell’altro  K. in  Il Castello; si potrà assegnare a questa tensione di fuga una causalità religiosa (la ricerca della Grazia di Dio, come per primo suggerì Max Brod) o psicoanalitica (il senso di colpa davanti all’incombente autorità del Padre) o esistenziale (l’ inesorabile condanna ad una vita insensata) o politica (l’alienata condizione della vita sociale dell’uomo moderno), ma comunque sia l’esito è sempre un vortice trascendentale in cui l’esistenza sconvolta precipita. In La metamorfosi questo vortice assume la forma della ripugnante trasmutazione del protagonista in un insetto. Tuttavia c’è un indizio linguistico che potrebbe orientare l’analisi del testo; e – pur ammettendone la labilità – vorrei provare ad usarlo per argomentare la possibilità di una nuova, ulteriore interpretazione. Dunque: la metamorfosi di Gregor Samsa lo trasforma in un “insetto”; però nel testo originario in lingua tedesca il termine ungeziefer è usato un’unica volta, all’inizio del racconto, e solo nella sua conclusione la brutale serva che ne annuncia alla famiglia la morte curiosamente lo chiama mistkafer, termine che indica lo scarabeo stercorario; nello svolgimento del racconto invece Gregor è sempre definito tier, “animale”. Si può esser certi che Kafka abbia compiuto la scelta narrativa della trasformazione in un insetto per sollecitare massimamente la ripugnanza che in noi umani gli insetti suscitano, per la  grande distanza genetica e morfologica  che ci separa, ma ciò  non deve distrarre – come sinora è accaduto – dal fatto che nella metamorfosi soprattutto si tratta dell’implicita rappresentazione di una tensione dialettica tra umanità e animalità.

 

La dimensione antropologica dell’umanità occidentale moderna si costituisce nel doppio movimento dell’enunciazione della sua mondana eccentricità e nella complementare sostituzione dell’animismo col naturalismo; l’esito è stato un umanesimo antropocentrico che recide la costituzione zoologica dell’umano  e lo pone su un piano trascendente: nella rappresentazione ideologica dell’umanità non c’è più posto con familiarità biologiche, l’umanità si dà come alterità dalla natura. Pur ammettendo un’iniziale prossimità animalesca la costruzione dell’umano consiste proprio nella differenziazione dall’animale, che resta rinchiuso nella propria immanente datità. Come ha ben spiegato l’antropologo Philippe Descola, la familiarità tra l’essere umano e gli animali (e gli altri esseri viventi) propria dell’ontologia animistica si basa sul riconoscimento di una differenza fisica e biologica dietro a cui però è all’opera la credenza in una somiglianza interiore; viceversa l’umanesimo antropocentrico, che inaugura la sdivinizzazione del mondo e dunque l’ontologia naturalistica, concede che vi sia tra loro una somiglianza fisica, ovvero una continuità biologica, ma che essa sia  annichilita da un’enorme differenza interiore. Quest’umanesimo antropocentrico trovò la sua principale enunciazione nella rinascimentale Oratio de hominis dignitate   di Pico della Mirandola; il quale, riprendendo la concezione ciceroniana della dignitas come proprietà che deriva all’essere umano dalla sua eminente condizione nel mondo in quanto animal rationale, ma accordandola alla religiosità cristiana, rappresentò  in questo discorso un modello di umanità che è fondamento dell’ideologia antropocentrica moderna. Infatti egli ritiene che Dio abbia voluto l’essere umano indeterminato, sciolto dai vincoli naturali che limitano gli altri animali e quindi in grado di «essere ciò che vuole», artefice del proprio destino grazie al libero arbitrio che gli è stato donato; potrà dunque, se vorrà, auto realizzarsi, divenendo creatura celeste, prossima a Dio.

 

Una superba ed affascinante rappresentazione del destino dell’umanità, ma ormai inevitabilmente inattuale. I motivi di questa inattualità sono molteplici, ad esempio che la presunzione di universalità dell’umanesimo antropocentrico occidentale è tramontata insieme al colonialismo che vi trovava la propria giustificazione politica, o il sopraggiungere di una sensibilità ecologica che tende a diffidare del naturalismo, ma certamente il motivo principale è stato l’imporsi della teoria dell’evoluzione, che ha ricondotto l’essere umano proprio alla sua condizione di animale tra gli animali, casuale esito di mutamenti biologici. Dunque l’animalità può essere, come è accaduto, rimossa, ma non può scomparire, poiché è sostanza dell’umanità, il suo oscuro fondale. Infine, dunque, avrebbe ragione Nietzsche nel sostenere che l’uomo è un animale malato.

 

Poiché essi sono  la commistione di tratti umani e bestiali, possiamo considerare la prima traccia arcaica di questo processo culturale i miti che narrano dell’uccisione dei mostri (innanzi tutti il Minotauro), che sarebbero appunto quell’ibrido legame tra animalità e umanità che dev’essere reciso; conseguentemente diventa possibile considerare il racconto della metamorfosi di Gregor Samsa una variazione moderna del mito, perciò ormai privo dello sfondo religioso ma espressione dell’assurdità della condizione umana nel mondo. Un mito, però, rovesciato: perché è pur vero che ancora una volta il mostro muore, tuttavia – al di là di ciò che vi vede uno sguardo superficiale – la salvezza (la “linea di fuga”) non consiste più nel divenire esclusivamente umano o magari, come pensava Nietzsche, nell’acquisire una ulteriore e superiore umanità bensì, al contrario, rifiutando l’umanità, nel ritornare animale, mostro; per poter finalmente – ricordiamolo – vivere in uno stato di « beata spensieratezza». Ma è proprio questa regressione animalesca  che gli umani – cioè, nel racconto, i suoi familiari – non gli consentono, poiché la temono: la sua metamorfosi è una porta che dischiude l’abisso, dunque dev’essere richiusa.

 

[Immagine: Copertina della prima edizione di Die Verwandlung di Franz Kafka].

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