di Massimo Baldini

 

[Dal 29 settembre all’8 ottobre, nella Sala Cavazza del Complesso del Baraccano, nel quartiere Santo Stefano, a Bologna, apre la mostra fotografica ITALIA REVISITED. Campionario per immagini di Massimo Baldini, a cura di Claudio Marra. Esposte 86 fotografie a colori, insieme all’omonimo libro d’artista (disponibile su www.massimobaldini.net), che rappresentano un’indagine dell’autore sul paesaggio italiano contemporaneo. Presentiamo qui l’introduzione al libro, assieme ad una selezione di opere]

 

Negli anni Sessanta Carlo Fruttero e Franco Lucentini curarono un’antologia di fantascienza, poi divenuta celebre, intitolata Universo a sette incognite[1]. Anche il mio Italia Revisited può essere concepito come un sistema a sette incognite, che qui mi propongo di decifrare, anzitutto a me stesso. Nel gioco delle rispettive forze gravitazionali, i miei motivi ispiratori definiscono, se non proprio un universo, almeno una piccola costellazione. Ne fanno parte, a diverso titolo: Luigi Ghirri e altri autori che hanno contribuito al Viaggio in Italia del 1984, soprattutto Gabriele Basilico[2]; il gruppo dei New Topographics e in particolare Stephen Shore; i coniugi Becher e altri membri della Scuola di Düsseldorf; alcuni scienziati sociali contemporanei come Howard Becker e Daniel Miller; infine, per contrasto, quelli che definirò flying photographs.

 

Il primo elemento della mia costellazione è lo «stile documentario» così come è stato elaborato, in particolare, da Walker Evans: una ricerca in cui l’intento della documentazione si declina, o meglio si incarna, in una scelta estetica[3]. Sappiamo che tra questi due elementi sussiste una tensione forse irriducibile: «Da qualsiasi angolazione la si voglia guardare, l’idea di “arte documentaria” rimane un paradosso. Perché volersi avvicinare a una visione puramente meccanica dovrebbe essere il mezzo più sicuro per fare della fotografia un’arte? Come pretendere, sulla scorta di Walker Evans, di lasciare le cose esattamente come sono e tuttavia produrre un lavoro d’autore? Perché la bellezza di un’immagine rappresentata come copia fedele della realtà dovrebbe essere attribuita al fotografo e non semplicemente al soggetto? Sarebbe vano, a nostro parere, cercare di risolvere questa contraddizione sul piano ontologico»[4]. Non voglio qui addentrarmi in tale intricata discussione e mi limiterò a dire che la documentazione, da sola, può dare risultati spartani e perfino aspri, di notevole interesse (vedi ad esempio la pagina Instagram #balconidimerda), ma alla lunga claudicanti, perché costretti a reggersi su una gamba sola. Da parte sua, lo stile viene spesso considerato una sorta di orpello estetizzante, da guardare con un certo snobismo, se non con disprezzo[5]: «Non mi interessano: le immagini e i movimenti decisivi, lo studio e l’analisi del linguaggio fine a se stesso, l’estetica, il concetto o l’idea totalizzante, l’emozione del poeta, la citazione colta, la ricerca di un nuovo credo estetico, l’uso di uno stile», dichiara Luigi Ghirri[6]. Ma sono bersagli polemici, in realtà almeno alcune di queste cose sicuramente, e giustamente, gli interessano. Anche lui, infatti, coltiva un’aspirazione stilistica, all’inizio vaga e malcerta, poi fattasi conclamata con il lavoro su Versailles. Non per nulla quel lavoro segue un incontro in cui Arturo Carlo Quintavalle, presentando alcune opere di Ghirri a John Szarkowski, responsabile delle collezioni fotografiche del Museum of Modern Art, si era sentito rispondere che non erano sufficientemente curate sul piano qualitativo per poter entrare nel circuito della fotografia d’arte. A quel punto Ghirri, insieme al suo stampatore Arrigo Ghi (erano passati i tempi in cui faceva stampare i rullini dai normali laboratori, come un qualsiasi fotografo della domenica[7]), inizia una lunga sperimentazione, attenta specialmente al colore, che sfocerà nelle foto versagliesi: «In questo periodo comincia a ricercare per le sue foto dei colori discreti, dei delicati toni pastello. Pensa che le immagini che produce abbiano una natura magica e strettamente legata ai processi di memorizzazione e che, proprio per questo, esse richiedano dei colori in grado di ricreare quella sensazione di indeterminatezza propria del mondo dei ricordi e del sogno»[8]. E cosa sarebbe questo se non uno stile? Personalmente, io non lo considero né una concessione, né tantomeno un tradimento, ma anzi un necessario approdo, frutto di maturazione creativa, e parto proprio da quelle foto – come hanno fatto con esiti diversi anche altri, da Massimo Siragusa a Walter Niedermayr, a Massimo Vitali – per elaborare un mio universo cromatico: lontano dai colori saturi di Franco Fontana o Harry Gruyaert, giocato su tonalità per lo più stinte, ma illuminate da sfondi bianchi o al massimo cilestrini, organizzato di preferenza per campiture omogenee. Colore esangue, assenza di figure umane: alla nitidezza vagamente spettrale delle immagini si accompagna un senso di inquietudine, che cerco di cogliere. La cosa che più mi preme, però, è che questa ricerca formale non sia un punto di arrivo, come per Ghirri, ma di passaggio, in un percorso che torna diritto alla documentazione: non, o almeno non solo, palazzi e giardini principeschi, tanto meno il mondo dei ricordi e del sogno, e neppure spiagge affollate o campi da sci, ma anche capannoni, stabilimenti, silos, cantieri, depositi, magazzini.

 

Foto #1

 

Il secondo elemento della mia costellazione, dunque, è il «paesaggio esterno» dell’Italia tardo-industriale. In esso permangono sì i reperti di atri muscosi e fori cadenti, per dire di sopravvivenze storiche disseminate lungo tre millenni, e ci sono elementi di continuità, che provo a mostrare nel profilo di certi tetti, nella composizione di certi conglomerati abitativi (foto #1) già visibili nella pittura medievale e rinascimentale, poi tramandati, passando per Bellotto, giù giù fino a Carrà, De Chirico e Morandi[9]. Ma oggi quel paesaggio è ormai interamente segnato dalla pervasività della produzione. Non più le fabbriche novecentesche, austere e bellissime (sic!), di Basilico e la vasta archeologia per immagini che ne è seguita. O la fabbrica d’avanguardia, dotata di tecnologie iperavanzate in un ambiente che dell’industrialismo non ha quasi più nulla, dove gli addetti – non è più il caso di chiamarli operai – esercitano più che altro funzioni di controllo, rilassati dalla silenziosa presenza di piante e acquari. Tra questi due estremi stanno le fabbriche di quella che, accanto alla Prima Italia grande-industriale e alla Seconda Italia arretrata, è stata chiamata Terza Italia[10]: Triveneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, cui oggi si aggiungono spezzoni di un centro-sud un po’ meno arretrato. Nel tempo, la Terza Italia si è mangiata le altre due, perché con la scomparsa di buona parte delle grandi aziende private (al Nord) e pubbliche (al Sud)[11], la piccola impresa è divenuta dominante in tutto il paese: fabbriche e fabbrichette, officine e laboratori embedded nel territorio sotto forma di distretti industriali e zone artigianali, ma anche collocati dietro casa, sotto casa o addosso alla casa, come un tempo capitava a chiese e cappelle. Quello che Stefano Boeri definisce «territorio promiscuo»[12]. Questo paesaggio, in cui è pressoché totale la contaminazione fra attività produttive e altre dimensioni di vita, è stato oggetto di attenzione soltanto sporadica da parte dei fotografi, con qualche eccezione, come Mario Tinelli e Vittore Fossati nel Viaggio in Italia. Anche le esperienze americane si sono concentrate per lo più sulle modificazioni dell’ambiente industriale rispetto agli anni ruggenti del fordismo, ad esempio con The New Industrial Parks Near Irvine, California di Lewis Baltz[13], ma isolate da altri spazi umani e sociali. In Italia Revisited, invece, le inestricabili commistioni tra diversi ambiti di vita sono fotografate con paziente sistematicità, quasi con accanimento tassonomico: teatri che somigliano a stabilimenti, abitazioni che somigliano a cimiteri che somigliano a scuole, chiese che somigliano a ristoranti che somigliano a centri direzionali che somigliano a bunker. E poi cortili che sconfinano in piazzali di carico, zone residenziali che sconfinano in sterpaglie, aree industriali che sconfinano in campi coltivati. L’accesso alla landa sterile che circonda una grande centrale termoelettrica è paradossalmente riservato ai residenti (foto #2). È un territorio segmentato da strade, autostrade, guardrail, binari, viadotti, canali di scolo; scandito da torri, campanili, ciminiere, piloni, tralicci, gru; maculato da spianate, parcheggi, cave, cumuli di materiali da costruzione, detriti; imbrattato da ogni sorta di superfetazioni edilizie e imbellettato da stravaganze di archistar locali. Una palazzina esibisce una scala a ferro di cavallo che rivaleggia con quella del castello di Fontainebleau, fondale dell’addio di Napoleone dopo Waterloo (foto #3). Solo in un superstite scampolo di campagna la natura sfigurata tenta una rivincita: i fichi d’India stanno per sopraffare le tracce del consorzio umano (foto #4).

 

 

Foto #2

 

Foto #3

 

Foto #4

 

Il terzo elemento della mia costellazione è un «paesaggio interno» che affianca e completa quello esterno, esaltandone il senso. Anche qui è possibile individuare una linea di ascendenza che prende nuovamente le mosse dal Viaggio in Italia, considerato il caposaldo della nuova fotografia di paesaggio nel nostro paese, e tuttavia capace di accogliere immagini che col paesaggio tradizionalmente inteso non hanno nulla a che fare, come gli interni – appunto – di Vincenzo Castella, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Andrea Cavazzuti, Mimmo Jodice, Cuchi Withe. Del resto nell’introduzione al volume Quintavalle scrive: «Ma la città, quella vera, quella che le cartoline mai rappresentano, è fatta di interni»[14]. Questa scelta è poi confermata in successivi lavori dello stesso Ghirri, come Il profilo delle nuvole e Vista con camera[15], ma soprattutto in una serie intitolata precisamente Interno italiano, che però non prese mai la forma conclusa di esposizione o di libro[16]. Un altro contributo a tale concezione estesa del paesaggio viene poi da Stephen Shore nelle diverse edizioni di Uncommon Places: se nel 1982 le 49 foto della prima edizione erano interamente dedicate al landscape americano contemporaneo, la seconda edizione del 2004 sale a ben 156 immagini, che allargano di molto lo spettro tematico dell’opera. Scrive Shore: «Il tema dell’ambiente costruito americano restava centrale, ma la selezione originaria, concentrata soprattutto sul paesaggio, veniva più accuratamente bilanciata con una serie di ritratti, di interni e di dettagli»[17]. Questa espansione prosegue con ulteriori 20 immagini nell’edizione del 2014, denominata The Complete Works: è come se l’autore acquistasse progressivamente consapevolezza del fatto che, senza il paesaggio interno e interiore, quello esterno resterebbe monco. Una consapevolezza che appare condivisa da altri dei New Topographics, il gruppo di «paesaggisti» (il sottotitolo della mostra da cui prendono il nome nel 1975-76 è Photographs of a Man-Altered Landscape) cui Shore appartiene: di Robert Adams si veda una serie di foto scattate in Colorado[18], di Lewis Baltz i numerosi Interiors della serie Park City[19]. Ma persino Basilico, che più di altri è rimasto fedele al «ritratto» del paesaggio, specie urbano e suburbano (da cui il titolo Milano ritratti di fabbriche), ha sentito il bisogno di offrire un contributo come Dancing in Emilia, in cui molta attenzione viene dedicata al décor, ovvero al paesaggio interno[20].

 

Il quarto elemento della mia costellazione è l’«ordinarietà dell’arte» come dimensione costitutiva del paesaggio, esterno e interno, specie in Italia. Nell’opera fondativa I mondi dell’arte Howard Becker critica «la tendenza a considerare l’arte qualcosa di speciale che non può essere trattato alla stregua delle altre attività “normali”… un’area di attività umana in qualche modo “migliore” della vita ordinaria, un’area in cui persone dotate in modo straordinario, quasi sovrumano, producono capolavori dello spirito che incarnano i valori più profondi… Naturalmente sappiamo tutti che l’arte non è proprio così»[21]. Lungo questa linea, Italia Revisited considera l’arte, nelle sue molteplici accezioni, un elemento imprescindibile soprattutto della vita ordinaria[22], in un paese che ospita una quantità largamente sovraproporzionale, rispetto al territorio o alla popolazione, delle opere d’arte esistenti sul nostro pianeta. Accanto alle abitazioni, alle strade, alle stazioni ferroviarie troviamo così, senza soluzione di continuità, le esposizioni, i musei, le case-museo. Un’insistenza che si discosta dai lavori sui visitatori delle collezioni d’arte – ad esempio Museum Photographs di Thomas Struth[23], o Spectaculum Spectatoris di Francesco Jodice[24] – per indagare la presenza di manufatti «artistici», a volte difficilmente distinguibili da quelli considerati autentici, in ambienti «normali» come hotel, ristoranti, bar, cortili, giardini. Ecco allora che il paralume di una lampada dialoga con la cupola del Brunelleschi, il David di Michelangelo sorveglia uno sportello bancomat, un bronzo di Riace garantisce la segnalazione di Tripadvisor, il decoratore di una pizzeria cita Edvard Munch (foto da #5 a #8), e così via. È un altro aspetto della commistione tra diversi ambiti di vita. Nei progetti fotografici ci si concentra in genere su uno soltanto di tali ambiti, mentre le antologie di fotografia sono abitualmente divise in capitoli rispettivamente dedicati al paesaggio, al lavoro, alla politica, alla religione, al tempo libero[25]. Ma nel mondo reale l’abitazione, lo stabilimento, il campo sportivo e il museo, specie se piccolo e decentrato[26], sono caoticamente frammisti nello stesso territorio, e di conseguenza nell’esperienza delle persone: la basilica di Sant’Apollinare in Classe, per fare un solo esempio, benché situata fuori da un territorio metropolitano (Classe ha appena duemila abitanti), si trova a poche centinaia di metri da villette suburbane, spazi ricreativi, negozi, strutture ricettive, insediamenti produttivi di vario tipo.

 

 

Foto #5

 

Foto #6

 

Foto #7

 

Foto #8

 

Il quinto elemento della mia costellazione è la «macchia umana»[27]. È vero, come dicevo, che in queste foto sono quasi del tutto assenti le persone, ma di esse si trovano tracce indelebili nei paesaggi, negli ambienti e, semplicemente, nelle cose. L’antropologo Daniel Miller ha scritto un libro, intitolato Cose che parlano di noi, «sul modo in cui gli uomini si esprimono attraverso le cose che possiedono, su tutto ciò che queste cose ci dicono della loro vita».

 

Dall’osservazione di queste impronte, o macchie, «inizia ad emergere un ritratto più grande, un’immagine del mondo moderno»[28]. È una prospettiva che ho adottato nelle mie foto, nell’intento di liberare la forza rivelatoria degli oggetti che abitano il nostro mondo insieme a noi. Ma voglio anche notare che il titolo originale del libro di Miller, The Comfort of Things, attribuisce alle cose un «potere consolatorio»[29]. È per questa ragione che in Italia Revisited le immagini di oggetti sono venate talora da una coloritura pop, ma spesso anche da un gusto kitsch. A tale proposito, non aderisco all’idea di un’Italia «considerata di solito marginale e minore, ma profondamente vera dal punto di vista culturale e sociale»[30]. In realtà anche questa Italia immaginaria è ormai completamente penetrata dalla cultura postmoderna, se vogliamo usare questo termine, e ha perso ogni presunta «autenticità» derivante dal rapporto con una vagheggiata tradizione. Il kitsch, che per Ghirri sembrerebbe non esistere[31], esiste eccome: nel mio campionario, se mai ce ne fosse bisogno, se ne trovano molti esempi (foto #9 e #10). Per restituire un’immagine veritiera del «paese reale», è allora necessario dismettere l’idealizzazione di un’Italia dei nonni definitivamente scomparsa[32], e osservare senza veli ciò che abbiamo di fronte, considerato che anche il kitsch parla, benché in modo ambiguo, di «emozioni come la gioia, la solitudine, l’ansia e la consolazione»[33]. Tutto ciò comporta anche qualche conseguenza per il lungo dibattito sulla capacità, o meno, della fotografia di «dire la verità», di non «mentire»[34]. Un dibattito che pare costitutivamente senza sbocco. Se, come è stato detto infinite volte, la fotografia funziona in qualche modo come specchio della realtà, allora ne rifletterà necessariamente tutti gli aspetti equivoci e contraddittori, tutte le commistioni di alto e basso, aulico e pop, banale ed eccentrico, scadente e ricercato, superficiale e profondo, ordinario e straordinario, irreale e iperreale, stravisto e mai visto. Emblema di questi dualismi è proprio il kitsch, in quanto ibridazione di sublime e dozzinale.

 

Foto #9

 

Foto #10

 

Il sesto elemento della mia costellazione è la «serialità eterogenea». Italia Revisited è chiaramente composto da diverse serie di immagini ricorrenti. Sulla serialità come forma espressiva esiste ormai un’ampia letteratura. In fotografia sarà sufficiente citare il lavoro di Bernd e Hilla Becher[35], i quali però adottano una serialità omogenea, che censisce di volta in volta altiforni, gasometri, serbatoi idrici, fornaci, torri di raffreddamento. Dietro questa serialità c’è un’idea più generale: che nell’opera (fotografica) la costruzione del senso avvenga come ordinamento meditato e sapiente. Stephen Shore, che ai suoi esordi aveva incontrato la serialità nella factory di Wharol, scrive: «Ciascuna singola foto perde la propria aura e il proprio contenuto, diventando un elemento indicale che acquista senso solo in relazione alla foto che le sta accanto»[36]. Altri lavori fondati esplicitamente sulla serialità omogenea sono quelli di Ed Rusha, considerato il padre dei New Topographics. Già i titoli sono espliciti in tal senso: Twentysix Gasoline Stations (1963), Some Los Angeles Apartments (1965), Every Building on the Sunset Strip (1966), Thirtyfour Parking Lots in Los Angeles (1967), A Few Palm Trees (1971)[37]. Nel mio lavoro, invece, la serialità è eterogenea: non è costruita su varianti dello stesso oggetto, ma su una mescolanza di 20 oggetti, elencati nella Tabula in coda a questo scritto, suscettibili di essere ricombinati in un numero praticamente infinito di varianti. Una possibilità combinatoria consacrata nella stessa confezione materiale di Italia Revisited come campionario di fiches estraibili e ricomponibili a piacimento. Shore dichiara che lo scopo della fotografia è svelare la «bellezza dell’ordinarietà». Un’idea che appare accolta anche dai Becher: «Shore conobbe Hilla nel 1973 e Bernd poco dopo. Essi cominciarono a collezionare le foto di Shore e le usarono nei loro corsi alla Kunstakademie di Düsseldorf, incoraggiando studenti come Thomas Struth, Candida Höfer e Axel Hütte a “vedere la quotidianità”»[38]. Condivido in parte questa intenzione, benché dell’ordinarietà io mi proponga di mostrare non solo la bellezza ma anche, senza reticenze, le brutture. L’aspetto più rilevante, però, è un altro: come potrebbero bellezza e brutture dell’ordinarietà essere portate alla luce da un progetto accuratamente editato, cioè dal contrario dell’ordinarietà stessa, che per definizione non è né progettata né editata?[39] Certo è che l’idea di un editing «definitivo» appare dubbia: come abbiamo già ricordato, le diverse edizioni di Uncommon Places contengono un numero assai variabile di immagini diversamente ordinate. Di fronte a questa incongruenza Shore, a malincuore, si arrende: «È duro ammetterlo. Sono un terribile editor di me stesso»[40].

 

Il settimo elemento della mia costellazione è l’«ancoraggio a terra». Da qualche tempo alcuni suggeriscono che per vedere meglio la realtà, per svelarne i segreti e ricostruirne il senso nascosto, sia meglio guardarla dall’alto. È così emersa una generazione di flying photographs, tra cui Edward Burtynsky e Olivo Barbieri, che hanno esplorato praticamente ogni angolo del globo dall’elicottero. Altri, ad esempio Mishka Henner e Francesco Jodice, preferiscono ricorrere al satellite. Alcuni di questi lavori sono indubbiamente interessanti, per altri è stata addirittura coniata l’espressione «città spettacolare»[41], ma l’idea che la realtà sia tanto più comprensibile quanto più sia vista da lontano non mi convince. Senza scomodare Robert Capa, che spesso figura nelle raccolte di frasi celebri per aver affermato che le cattive foto non sono state scattate abbastanza da vicino, vorrei ricordare che la fotografia è anche, e forse in primo luogo, una faccenda di being there[42]. Scrive Roland Barthes: «La veggenza del Fotografo non consiste tanto nel “vedere” quanto piuttosto nel trovarsi là»[43]. Ora, presentarsi a questi appuntamenti con l’elicottero o il satellite è difficile, nonostante il vantaggio tecnologico. Credo che per sapere com’è davvero un paese sia meglio scendere dall’alto e tornare quaggiù, dove vivono le persone «ordinarie»: l’espressione inglese down-to-earth si usa per indicare la gente comune, con i piedi per terra. Da parte sua, Robert Rauschenberg ha raccontato perché a un certo punto avesse preso la decisione di abbandonare la fotografia e passare alla pittura: «Ero abbastanza serio e abbastanza impegnato da capire che se avessi cercato di fare il fotografo, a quel punto il mio progetto sarebbe stato fotografare gli Stati Uniti palmo a palmo. Lo pensavo sul serio e mi dicevo: “Se comincio dovrò arrivare fino in fondo, sicché forse è meglio che mi limiti a dipingere e basta”»[44]. Questa dichiarazione di umiltà mi ha indotto a cercare di proporre fotografie che tra cento anni – o magari anche mille, quando gli alieni sbarcheranno sulla Terra: a loro beneficio non sono forse già state inviate nello spazio immagini della vita sul nostro pianeta?[45] – potranno essere considerate interessanti perché documentano l’ambiente così come l’abbiamo modellato, il nostro modo di vivere e, nello stesso tempo, alcuni nostri standard intellettuali, estetici e perfino morali. Fotografare gli Stati Uniti, o anche solo l’Italia, palmo a palmo è chiaramente un’impresa impossibile, e tuttavia un’affascinante aspirazione conoscitiva, che merita comunque di essere pensata, e tentata, se non da un singolo individuo, da una nuova generazione di fotografi down-to-earth. L’editing definitivo? Lo faranno gli alieni.

 

 

Tabula

1.       Abitazione
2.       Cortile, veranda, giardino, parco
3.       Finestra, facciata
4.       Edificio storico, edificio pubblico
5.       Scuola
6.       Luogo di culto
7.       Memoriale
8.       Area ricreativa, teatro
9.       Museo, casa-museo, esposizione d’arte
10.    Ufficio, sportello elettronico
11.    Bar, ristorante, hotel
12.    Negozio, mercato, supermercato, centro commerciale
13.    Capannone, magazzino, deposito, serbatoio
14.    Stabilimento, infrastruttura
15.    Piazza
16.    Strada, rotatoria, ferrovia
17.    Veicolo, parcheggio, garage
18.    Litorale, spiaggia
19.    Corso d’acqua, ponte
20.    Punto panoramico

 

 

 

[1] Carlo Fruttero e Franco Lucentini (a cura di), Universo a sette incognite, Milano, Mondadori, 1963.

[2] Luigi Ghirri, Gianni Leone e Enzo Velati (a cura di), Viaggio in Italia, Alessandria, Il Quadrante, 1984; Gabriele Basilico e Stefano Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, Tavagnacco, Art&, 1997.

[3] Vedi Olivier Lugon, Le style documentaire. D’August Sander à Walker Evans 1920-1945, Paris, Macula, 2001, trad. it. Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920-1945, Milano, Electa, 2008; vedi anche Interview with Walker Evans, in «Art in America», marzo-aprile, 1971.

[4] Lugon, Lo stile documentario, cit., p. 26.

[5] Secondo questo punto di vista, «la fotografia… si contrappone al modello del tradizionale sistema dell’arte, basato sul culto dell’opera unica realizzata da un autore dotato di uno stile fortemente riconoscibile» (Vanni Codeluppi, Vita di Luigi Ghirri, Roma, Carocci, 2020, p. 25). A dire il vero, la prima cosa cui aspira qualsiasi fotografo con una qualche ambizione è proprio uno stile fortemente riconoscibile.

[6] Ibidem, p. 46, corsivo nell’originale.

[7] Preferiva «affidare lo sviluppo e la stampa ai laboratori abituali dei fotoamatori, che offrono una qualità media dell’immagine» (ibidem, p. 34).

[8] Ibidem, p. 82.

[9] A mero titolo di esempi si vedano: per la pittura medievale, Giovanni Baronzio, Storie di Santa Colomba, Milano, Pinacoteca di Brera; per quella rinascimentale, Vittore Carpaccio, Ciclo di Santo Stefano, Paris, Musée du Louvre, e Giovanni Bellini, Resurrezione di Cristo, Berlin, Gemäldegalerie; di Bernardo Bellotto, Gazzada. Il villaggio da sud, Milano, Pinacoteca di Brera; di Carlo Carrà, Il meriggio, collezione privata Giorgio Pulazza, e San Giacomo di Varallo, Alessandria, Museo civico; di Giorgio De Chirico, La torre rossa, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim; di Giorgio Morandi, Paesaggio, 1945-1947, Bologna, collezione privata.

[10] Arnaldo Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino, 1977.

[11] Secondo l’Eurostat nel 2021 in Italia le imprese con oltre 250 addetti assorbivano il 25% degli addetti complessivi, contro il 45% di Germania e Francia.

[12] «Un territorio dove un grande centro commerciale sembra potersi accostare indifferentemente ad un’area produttiva, ad un quartiere di villette o ad un centro storico medioevale» (Basilico e Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, cit., p. 13).

[13] Il lavoro è del 1974, ma è stato pubblicato in volume solo in seguito: Lewis Baltz, The New Industrial Parks Near Irvine, California, Göttingen, Steidl, 2001.

[14] Arturo Carlo Quintavalle, Viaggio in Italia. Appunti, in Ghirri, Leone e Velati, Viaggio in Italia, cit., p. 12.

[15] Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole, Milano, Feltrinelli, 1989; Id., Vista con camera. 200 fotografie in Emilia Romagna, Milano, Federico Motta Editore, 1992.

[16] Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 40 e segg.

[17] Stephen Shore, Uncommon Places. The Complete Works, London, Thames & Hudson, 2014, p. 6.

[18] American Silence. The Photographs of Robert Adams, a cura di Sarah Greenhough, New York, Aperture, 2021, pp. 72, 88, 95, 96, 102.

[19] Lewis Baltz, Park City, New York, Artspace Press, 1980.

[20] Gabriele Basilico, Milano ritratti di fabbriche, Milano, SugarCo, 1981; Id., Dancing in Emilia, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2013.

[21] Howard Becker, Art Worlds, Berkeley, University of California Press, 1982; trad. it. I mondi dell’arte, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 8.

[22] Sull’estetica come dimensione della quotidianità vedi Paul Willis, The Ethnographic Imagination, Cambridge, Polity, 2000.

[23] Thomas Struth, Museum Photographs, München, Schirmel-Mosel, 1998.

[24] Film e video installazione, vedi francescojodice.com.

[25] Vedi ad esempio I Mille, scatti per una storia d’Italia, a cura di Gloria Bianchino e Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Skira, 2012.

[26] Su questo genere di musei vedi il catalogo della mia mostra A Tour not so Grand, Bologna, Fondazione Carlo Gajani, 2018.

[27] «Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme… Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. È in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno» (Philip Roth, The Human Stain, Boston, Houghton Miffin, 2000; trad. it. La macchia umana, Torino, Einaudi, 2001, p. 261).

[28] Daniel Miller, The Comfort of Things, Cambridge, Polity, 2008; trad. it. Cose che parlano di noi, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 7 e 9.

[29] Ibidem, p. 13.

[30] Codeluppi, Vita di Luigi Ghirri, cit., p. 79, corsivo mio.

[31] «Gli oggetti che tutti definiscono kitsch per lui non lo sono, perché si tratta in realtà di “oggetti carichi di desideri, di sogni, di memorie collettive”» (ibidem, p. 33). Stefano Boeri, al contrario, parla di un «atlante del kitsch» i cui elementi sono «le villette unifamiliari, i Brico-center, le officine meccaniche, i negozi di erboristeria, gli autolavaggi» (Basilico e Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, cit., p. 17).

[32] Per l’ennesima riproposizione tardiva di questa oleografia vedi Bruno Barbey, Gli italiani, Roma, Contrasto, 2022.

[33] Miller, Cose che parlano di noi, cit. p. 13.

[34] Vedi, in particolare, Michele Smargiassi, Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, Roma, Contrasto, 2015; e, nel contesto della tecnologia digitale, Claudio Marra, L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale, Milano, Bruno Mondadori, 2006.

[35] A cominciare da Anonyme Skulpturen. Eine Typologie Technischer Bauten, Düsseldorf, Art-Press, 1970

[36] Shore, Uncommon Places, cit., p. 9.

[37] Vedi Ed Rusha and Photography, a cura di Sylvia Wolf, Göttingen, Steidl, 2004.

[38] Shore, Uncommon Places, cit., p. 15, n. 9.

[39] La stessa inconciliabilità sembrerebbe sussistere tra due concezioni ugualmente diffuse della fotografia: che debba avere una sua «ragione necessaria», né accidentale né estemporanea; che debba essere un «gesto gratuito», in consonanza con il carattere arbitrario della realtà.

[40] Ibidem, p. 8.

[41] Vedi Spectacular City. Photographing the Future, a cura di Aaron Betsky, Rotterdam, NAi Publishers, 2007.

[42] Una formula che sembra particolarmente pregnante in ambito artistico: basterà ricordare, con quel titolo, il libro di Jerzi Kosinski del 1970, divenuto nel 1979 un film di Hal Ashby con Peter Sellers (in italiano Oltre il giardino), o il doppio album dei Wilco del 1996.

[43] Roland Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Paris, Gallimard, 1980; trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980 e 2003, p. 49.

[44] Robert Rauschenberg fotografia, Firenze, Alinari, 1982, p. 11.

[45] Per la precisione 116 immagini (tra cui alcune foto di Ansel Adams, ma anche scene di vita quotidiana: riunioni di famiglia, bambini in una scuola, un uomo che prepara una grigliata, traffico stradale, un tramonto) contenute nel Golden Record, un disco di rame placcato in oro, inviato nello spazio dalla Nasa nel 1977 a bordo delle sonde Voyager 1 e Voyager 2. Nel 2012 Voyager 1 ha superato i confini del sistema solare (https://voyager.jpl.nasa.gov/golden-record).

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