di Italo Testa

 

[Riprendiamo dal volume Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari, uscito di recente per Mimesis, il contributo di Italo Testa, contenuto nella terza sezione (pp. 259-275), dedicata alla “Poesia”]

 

 

Dipendenza vitale. Riflettendo sulla natura del lavoro sociale, Karl Marx aveva messo in luce la dimensione ecologica delle comunità umane, mostrando come il lavoro sia la forma specifica attraverso cui si realizza il ricambio organico (Stoffwechsel), il metabolismo tra società e ambiente naturale[1]. In questa prospettiva la dimensione ecologica non è un elemento ulteriore, che si aggiunga ai concetti classici dell’economia e della politica. L’ecologia non investe meri fenomeni locali o marginali, ma aspetti centrali, costitutivi per la produzione e la riproduzione delle nostre società.  Non si tratta quindi solo di una questione attuale, legata alla crisi ecologica in corso, e ai rischi catastrofici connessi – esaurimento delle risorse, inabitabilità del pianeta, inaridimento, innalzamento del livello degli oceani, spillover. La consapevolezza legata agli aspetti di questa crisi porta infatti in luce un implicito, che riguarda anche le civiltà del passato, e che ci tocca oggi in un senso più ampio di quello della mutazione in corso.

 

Il fatto centrale da cui muovere riguarda la dipendenza vitale della società, inclusa quella democratica, dalla natura, dall’ambiente. Cornelius Castoriadis ha afferrato molto precisamente il nodo in questione. In un’intervista degli anni novanta l’autore sosteneva che l’ecologia è “la comprensione del fatto fondamentale che non ci può essere vita sociale che non accordi un’importanza centrale all’ambiente in cui si svolge”[2].  Questa comprensione può avere una forma naif e implicita, come nelle società arcaiche e tradizionali in cui c’era comunque una consapevolezza della dipendenza vitale dall’ambiente, che si esprimeva in miti, pratiche rituali e religiose. Oppure può prendere la forma articolata ed esplicita di un sapere scientifico – il caso della società contemporanea in cui si è sviluppata l’ecologia come disciplina scientifica, che mette a tema l’ambiente, in forma oggettivata, quale dominio quantificabile, sottoponibile a un’indagine sperimentale, ponendosi il problema dei rischi connessi alla sua gestione, sfruttamento, riparazione.

 

Una pluralità d’immagini. Se vogliamo affrontare la questione ecologica in senso ampio, è importante realizzare che il modo in cui noi comprendiamo questa dipendenza vitale è sedimentato in una pluralità di pratiche, che incorporano nozioni differenti, con diverse angolature, e legate a immagini eterogenee. Possiamo distinguere a tale proposito almeno tre immagini concettuali che hanno a che fare con questa dipendenza vitale e che variamente s’intrecciano nei nostri discorsi.

La prima immagine è legata all’ambiente. Si tratta di un’immagine scientifica,  con una dimensione oggettivata. Per ‘ambiente’ intendiamo tutto ciò con cui un essere vivente entra in contatto, che influenza il suo ciclo vitale, è oggetto d’indagine da parte della scienza empirica e quindi di policy pubbliche. A tale nozione si lega l’immagine dell’ecosistema, inteso come l’insieme connesso dell’ambiente e degli organismi che lo popolano.

La seconda immagine è legata alla natura: una nozione di senso comune,  ma presente anche nei discorsi del mito, della religione, della filosofia, della letteratura, della poesia. Tendiamo a pensare la natura per un verso, sulla traccia della physis greca, come una totalità: il cosmo naturale quale totalità di fenomeni che include il mondo fisico, biologico e storico.  Per altro verso, il dualismo moderno ci fa guardare alla natura come a qualcosa fuori di noi: la natura esterna, contrapposta a ciò che noi siamo come esseri umani, alla nostra natura interna, e quindi alla cultura cui danno forma le nostre società.

Una terza immagine è veicolata dal paesaggio. Una nozione che per alcuni aspetti si radica nel senso comune, ma che ha radici nell’estetica moderna e si è sedimentata nelle pratiche istituzionali legate alla difesa e alla tutela del paesaggio come bene condiviso. Paesaggio è in tal senso il modo in cui percepiamo, reagiamo emotivamente all’ambiente, sia naturale che sociale: l’ambiente in quanto mediato dalla nostra cultura, degradato da essa, tutelato dalle nostre pratiche istituzionali.

Il framework nel quale diventiamo consapevoli della nostra relazione ecologica con il mondo è intessuto da una molteplicità di immagini. Riprendendo la distinzione tracciata da Wilfrid Sellars[3], alcune di queste hanno a che fare con l’immagine manifesta del mondo: la cornice, depositata nel senso comune, nella tradizione religiosa, filosofica e poetica, entro la quale gli esseri umani sono divenuti consapevoli di se stessi e del loro essere al mondo. Altri aspetti riguardano invece l’immagine scientifica: l’immagine del mondo elaborata dalla scienza in senso unitario e dalle scienze speciali in senso specifico. Abbiamo una molteplicità di immagini del nostro posto nel mondo, offerte dalla scienza – che a sua volta offre una molteplicità di immagini a seconda delle scienze speciali: la visione offerta dalla scienza fisica, o dell’ambiente, o dall’ecologia.

Noi siamo abitati da questa molteplicità di immagini. Non solo nel senso che la nostra è una cultura stratificata, in cui convivono pratiche religiose, scientifiche, artistiche, istituzionali, sportive, di svago, che a differente titolo hanno a che fare con l’ambiente, la natura, il paesaggio che ci circondano e  con cui entriamo in rapporto. Ma anche nel senso che ciascuno di noi è abitato da questa molteplicità: siamo cittadine e cittadini che si devono porre il problema dell’inquinamento ambientale; abbiamo o non abbiamo un certo rapporto religioso con il mondo che ci circonda; pratichiamo attività di svago nella natura, ci dilettiamo dell’osservazione di paesaggi naturali e culturali in quanto turisti.

 

Stereoscopie. Stabilire un equilibrio riflessivo tra queste immagini è qualcosa di cui abbiamo bisogno. Secondo Sellars il lavoro della filosofia, in un certo senso, consiste nel raggiungere una sorta di visione stereoscopica: fondere in un’esperienza coerente due prospettive differenti, in un modo che possa rendere giustizia sia all’immagine manifesta che all’immagine scientifica. Noi però abbiamo più di due prospettive, sull’ambiente, sulla natura, e sul paesaggio, e senz’altro un problema di integrazione tra di esse. E sin tanto che non riusciremo a fare i conti con questo, difficilmente riusciremo a trovare anche una via condivisa per affrontare la questione ecologica in senso stretto.

Un fatto fondamentale, se andiamo a indagare e convocare queste immagini, è che la nostra esperienza è segnata da una profonda alienazione. Se guardiamo a esempio all’immagine della natura, avvertiamo subito un sentimento di estraneità rispetto a essa. Siamo presi in una serie di metafore, che fanno presa sulla nostra mente, e che implicano che noi non siamo parte della natura.  Si parla a esempio di dipendenza dalla natura, di necessità di una nuova alleanza[4]: concetti e metafore improntate a una profonda dicotomia tra natura e cultura.

Queste metafore agiscono a livello del senso comune, del linguaggio, dei nostri codici espressivi quotidiani, del linguaggio religioso, artistico, prima ancora che nel linguaggio scientifico. In tal senso, è necessario un lavoro sul linguaggio, e sulla percezione delle nostre immagini e metafore del mondo, per affrontare la questione ecologica. Certo sono importanti la conoscenza scientifica, i dati, l’indagine oggettivata dell’ambiente. Ma parte centrale della questione ecologica – e del modo stesso in cui ci rapportiamo alla concezione scientifica dell’ambiente – riguarda il modo in cui noi ci comprendiamo in forma oppositiva rispetto alla natura e all’ambiente circostante, e come questo si rifletta nelle nozioni che guidano la nostra autocomprensione e le nostre pratiche sociali.

 

L’indifferenza naturale. Vi propongo ora un esercizio di visione. Una visione in certo senso sdoppiata, perché proverò a riflettere sulla questione convocando almeno due linguaggi: il linguaggio della tradizione filosofica e il linguaggio di un’altra pratica espressiva, la poesia. È uno sdoppiamento che mi abita dall’interno, perché mi capita di appartenere a entrambi questi mondi, a queste pratiche linguistiche e tradizioni, di esprimermi in entrambi i modi. Lavoro in entrambe le direzioni. Attraverso due linguaggi che, anche quando parlano di una stessa questione, non dicono esattamente la stessa cosa, ma offrono differenti prospettive. Noi abbiamo bisogno di mettere in comunicazione le diverse immagini del mondo da cui siamo abitati, nella speranza che praticare questa differenza possa arricchire la nostra esperienza. Quello che vorrei ottenere, attraverso questo piccolo esercizio, è un leggero spostamento dello sguardo, un détour sul nostro rapporto con la questione ecologica, che ci faccia avvertire un aspetto della sua complessità.

Chiamo questo esercizio indifferenza naturale. Si tratta in un certo senso di un esercizio di epochè, messa tra parentesi, sospensione di certi atteggiamenti dati che noi abbiamo verso il mondo. Nella filosofia contemporanea, entro la tradizione della fenomenologia di Edmund Husserl, l’epochè è intesa quale sospensione dell’atteggiamento naturale della coscienza. Ciò che mi interessa, invece, nella scia dell’epochè proprio dello scetticismo antico, è una pratica di messa tra parentesi che ci conduca a sospendere modalità di comprensione che hanno a che fare con la nostra alienazione dalla natura, con l’opposizione tra natura e cultura.

 L’indifferenza naturale è anche il titolo di un libro che ho pubblicato nel 2018: un libro di poesie, scritto in versi, non nella forma argomentativa di un saggio filosofico[5]. Muoverò da qui, dal linguaggio della poesia, e dalle possibilità di epochè che ci offre – possibilità di illuminazione, epochè subitanea, apertura di faglie nella nostra esperienza: possibilità di attraversamento e invasione. Tentando però anche di allestire uno spazio stereoscopico, tornando su questi attraversamenti per farli riflettere anche nel linguaggio argomentativo della filosofia e nelle parole del nostro senso comune.

 

 

Una pianta. Per prima cosa vi mostrerò un’immagine.

 

Avete mai visto questa pianta? Sapete darle un nome? Una pianta che ci sta sotto gli occhi, popola i nostri paesaggi, ma che raramente sappiamo nominare.

L’anta centrale de L’Indifferenza naturale è costituita da un breve poemetto, che s’intitola Luce d’ailanto:

 

# 1

 

ailanti, alle vostre falci piego il capo,

a voi, ovunque arborescenti, ailanti

nel brillio del mattino mi consegno:

vi lascio correre sui bordi incolti

dietro le massicciate, addosso ai muri:

e nel trapestio dei pensieri, infestanti

mi confondete ai fiori, miei ailanti

 

# 2

 

ovunque insinuanti, lame

falci verdi degli ailanti

improvvise tra i carrubi

ondeggianti, nell’aria

risalendo le terrazze

vegetali epidemie

flessuosi, infidi ailanti

dinanzi a voi, ritrovati

alle svolte del sentiero

come germi, soffocanti

riemersi dal pensiero

 

# 3

 

ailanti, verdi muse,

voi germi di un’estate

che trabocca dai parchi,

versati nel costato

delle muraglie, ailanti,

lance bronzee

su strade spoglie,

arbusti intrusi

delle boscaglie

sempre in agguato

tra le siepi ordinate

celati, flessuosi

nei bei giardini,

coi rami agili

ailanti clandestini

 

# 4

 

selvatici ailanti

ospiti invadenti

delle sterpaglie,

voi dolci, minacciosi

appostati sui greti

tra le ripe, in attesa

attorti ai tralicci,

fitti e sinuosi

tramanti nell’aria,

ailanti luminosi

 

# 5

 

ailanti, ora che senza voi le gemme

incrudeliscono, e agguanta gli occhi

la vostra assenza, nel verde esploso,

sui bordi scoscesi delle strade

dov’è la ridondanza delle lame,

lo sciame che rigurgita dai fossi,

ancora spogli quando avanza il niente

nell’aria più lucida, e più demente.

 

Sono diversi i modi in cui possiamo guardare a queste piante. Ve ne ho parlato con la lingua della poesia, con un poemetto che ha la forma di una invocazione, dove il vocativo assume la forma di un discorso epidittico, celebrandone la bellezza e l’ambiguità, convocando qualcosa al nostro sguardo.

 

Con altre parole. Ora vorrei parlarvi della stessa cosa con altri linguaggi. Con il linguaggio naturalistico e scientifico della botanica descrittiva: Ailanthus altissima, chiamato comunemente albero del cielo, albero del paradiso, albero del sole, ailanto della Cina, è un albero originario dell’Asia centromeridionale e dell’Australia e può raggiungere altezze poco superiori ai venticinque metri. Molto ramificato, con numerosi polloni basali, fusto dritto, slanciato e regolare, corteccia grigio-brunastra con strette screpolate longitudinali più pallide, chioma elegante, largamente colonnare, sostenuta da rami ombrellati e foglie imparipennate. I fiori, riuniti in infiorescenze a pannocchia o a spiga, sono di colore bianco-giallo, bisessuali e unisessuali.

Con il linguaggio della storia: introdotto in Europa nel settecento come pianta da giardino, nell’ottocento è stato al centro di un tentativo di utilizzazione manifatturiera, con cui si sperava di rimpiazzare il bombice del gelso, importando clandestinamente dalla Cina una farfalla, la samia cynthia, da cui si ricava una materia tessile succedanea della seta, l’ailantina. Il tentativo non è riuscito, ché la seta così ottenuta era grossolana, e la nascita di un’industria di abiti sintetici ha stroncato sul nascere l’esperimento: ma l’ailanto è sfuggito un po’ ovunque, dall’Inghilterra all’Europa mediterranea e nordica, sino all’America.

Con il linguaggio della fenomenologia quotidiana, del modo in cui ne facciamo comunemente esperienza nei nostri paesaggi: l’ailanto s’inselvatichisce facilmente, in particolare nelle zone periurbane, formando popolamenti densi che soppiantano la vegetazione indigena, infestando scarpate, incolti, bordi stradali, ruderi, macerie, muri abbandonati, stazioni e linee ferroviarie, aree industriali, margini forestali. La corteccia e le foglie, molto belle, possono provocare forti irritazioni cutanee. L’ailanto fa parte dei nostri paesaggi periurbani, è avvertito come infestante, irritante, è oggetto di ossessioni da parte di giardinieri e cittadini che si pongono il problema di come arginarlo, sterminarlo.

Gilles Clément, uno dei più noti paesaggisti contemporanei, teorico del giardino in movimento, fa rientrare gli ailanti nell’ambito di un tipo di erbe, arbusti, fiori e piante che chiama ‘vagabonde’[6]. Papaveri, cardi spinosi, robinie, ailanti … piante che sono sempre dove non ci si aspetta di trovarle. Piante che facilmente sfuggono alla progettazione, ai nostri tentativi di controllarle, che tendono a spostarsi, come veri e propri migranti vegetali, per ampi spazi. Piante cosmopolite, che si muovono anche tra i continenti, a seguito degli spostamenti umani.

Si tratta  di piante dall’ampiezza biologica abbastanza vasta da adattarsi a un esteso tipo di ambienti. Come le piante pioniere, sono particolarmente pronte a adattarsi a spazi impoveriti, da cui le loro omologhe con ampiezza biologica più debole sono scomparse. Per questo le troviamo facilmente negli interstizi, ai margini non coltivati dei campi, sulle scarpate e sulle ferrovie, e in generale nei terreni destinati a un precedente uso lavorativo e quindi abbandonati temporaneamente.

 

Alterità e identità delle vagabonde. C’è negli ailanti, come in molte delle erbe e delle piante vagabonde – verbaschi, lupini, bardane, cardi irsuti, cosmee, robinie, artemisia… – un elemento di alterità, di estraneità. Sono piante aliene, che vengono spesso, storicamente, da un altrove geografico e ambientale.  Fanno parte della cosiddetta flora sub-spontanea, di provenienza allogena,  distinta dalla flora d’origine indigena. E questa alterità ambientale ha a che fare con la loro indifferenza rispetto ai nostri scopi, ai nostri progetti, ai nostri fini, ai nostri valori. Si diffondono secondo una logica che ci sfugge, non prevedibile rispetto ai nostri calcoli e alle nostre attese, mettendo in scacco l’ordine progettato dalle nostre comunità. Sono altre rispetto alle specie endemiche, locali, del nostro ambiente.

A quest’alterità ambientale, ecologica, si affianca anche un’alterità paesaggistica: per certi versi sono degli invisibili, costantemente sotto i nostri occhi, ma per lo più non le avvertiamo, non sappiamo dare loro un nome – a differenza delle specie più nobili – e quando ce ne accorgiamo, tale percezione è per lo più accompagnata da sentimenti negativi, senso di fastidio, irritazione, percezione di invasione e minaccia.

L’alterità è solo una parte della questione, perché queste piante fanno anche parte della nostra identità. Piante come gli ailanti, e altre vagabonde, sono presenti e si sono adattate nei nostri ambienti già da molti secoli, e sono parte integrante dei paesaggi che percepiamo. In molti casi, piante che riteniamo caratteristiche dei nostri paesaggi, della loro identità, hanno questa origine aliena: così a esempio la salsola, l’arbusto che cammina, tra i simboli dei deserti americani, viene dalla Siberia; le robinie che punteggiano le campagne italiane sono di provenienza americana.

È soprattutto il territorio antropizzato, dissodato, modificato dal lavoro umano, a essere particolarmente idoneo a accogliere le specie vagabonde. Una condizione essenziale per la loro propagazione è il dissodamento del terreno, cosa rara allo stato naturale – le vagabonde tendono a retrocedere dove vi siano insiemi primari, boschi primigeni. È solcando la terra, dissodandola, antropizzando l’ambiente con il lavoro, che si apre la strada alle vagabonde. Per questo attecchiscono così bene nei nostri giardini. La loro diffusione è un risultato dell’antropizzazione. Per questo trovano così facilmente un habitat nei residui, nelle friches, negli incolti, in quei terreni precedentemente coltivati, o costruiti, che vengono lasciati in stato di abbandono, in attesa di trovare un’occupazione, e che in tal senso escludono assieme la natura e l’agricoltura:  terreni che si trovano sia nello spazio rurale – siepi, margini di campi, bordi di strade – sia in quello cittadino – interstizi, rotondi, marciapiedi.

Attecchiscono in spazi che evolvono verso un paesaggio secondarizzato: una riconquista naturale che fa seguito a uno sfruttamento da parte degli umani. Spazi interessati da processi intensamente dinamici e caotici di vegetalizzazione e rinaturalizzazione, che producono ambienti ibridi, caratterizzati da mescolanza, in cui sono presenti specie di origine eterogenea, indigene e allogene. Questi spazi residui hanno una caratteristica frammentazione – si trovano qua e là, sparsi, non congiunti. Questi frammenti di paesaggio sono frammenti di natura – accolgono una varietà di specie vegetali – attraversati da dinamiche evolutive intense. Ma sono anche frammenti di artificio – sono il risultato dell’abbandono umano, presentano elementi costruiti, cemento, pietra, asfalto, piattaforme petrolifere incrostate di alghe e molluschi; sono caratterizzati dalla presenza di specie naturali artificiali, non endogene, non locali.

 

La lezione degli ailanti. Ritorniamo al problema da cui avevo preso le mosse, la questione ecologica in senso ampio, la dipendenza vitale della società dall’ambiente, e le molteplici immagini che noi abbiamo di questo rapporto. Attraverso gli ailanti, e le diverse prospettive che abbiamo su di essi, ho provato a fare un esercizio di visione.  Un esercizio che ci ha permesso di articolare, in un caso esemplare, in un’immagine, alcuni aspetti del nostro sentimento di alienazione dalla natura, di estraneità rispetto a essa: gli ailanti, che sono parte della nostra identità paesaggistica e della nostra storia, ma che insieme percepiamo come alieni, come qualcosa di altro da noi stessi.

Ma allora, cos’è l’indifferenza naturale? Cosa ha a che fare con gli ailanti?

Gli ailanti come piante aliene, invasive. Gli ailanti anche come simbolo dell’indifferenza della natura rispetto ai nostri scopi, ai nostri fini – la natura che segue logiche che non tengono conto di noi, con le sue infestazioni, le sue invasioni, i suoi terremoti.  È un’idea profondamente radicata nella nostra cultura, cui diversi poeti hanno contribuito – nella letteratura italiana in particolare Giacomo Leopardi, con l’immagine della natura matrigna. Anche noi, in tante esperienze, formule linguistiche, conserviamo un’immagine della nostra distanza dalla natura, dell’opposizione tra natura e cultura.

C’è però un altro aspetto dell’indifferenza naturale. Quest’alterità fa già parte di noi. Gli ailanti sono già parte costitutiva del nostro paesaggio: gli ailanti, la cui diffusione è un prodotto secondario delle attività lavorative umane. Gli ailanti che non si diffonderebbero senza di noi. Come scrive Michael Pollan, “le erbacce non sono l’Altro. siamo noi”[7]. Esse non possono sopravvivere senza noi umani che creiamo terre vacanti, manti erbosi, giardini, abbattiamo foreste, coltiviamo, alleviamo bestiame, bruciamo praterie. L’esercizio sugli ailanti dovrebbe anche portarci a vedere, in questo caso, la nostra in-differenza rispetto alla natura. Riconoscere che non siamo differenti da essa. La logica indifferente, a tratti anche opportunista, di queste piante, è anche la logica della nostra civiltà colonizzatrice. Noi non siamo poi così differenti, siamo una prosecuzione di quella lotta con altri mezzi.

 

Natura e artificio. Esercizi di visione e riflessione, come quello dell’ailanto, possono aiutarci ad avvertire alcuni limiti della dicotomia tra natura e cultura con cui spesso ragioniamo, anche quando facciamo ragionamenti ecologisti. La proliferazione di queste specie è un risultato del lavoro e della cultura umana – a partire dalla cultura come coltivazione, sino alla cultura come cultura urbana, architettonica, tecnica: ne rispecchia alcune logiche espansive, anche colonizzatrici.  Gli spazi in cui prolificano – come i giardini, e i residui – sono caratteristicamente qualcosa di ibrido tra natura e cultura: sono spazi messi a punto da pratiche culturali, ma rinaturalizzati, vuoi intenzionalmente, tramite l’arte intenzionale del giardinaggio, vuoi inintenzionalmente – a seguito di un abbandono. E ciò non fa sì che siano meno naturali.

Questo esercizio può aiutarci anche a fare epochè da un’altra dicotomia per certi versi parallela: l’opposizione tra natura e artificio. Perché gli ailanti non sono parte della flora spontanea, ma sono immagini dell’artificio, e la loro proliferazione è il risultato dei nostri strumenti e delle nostre tecnologie. E tuttavia, come negare a essi uno statuto naturale, di parte integrante della natura?

Pensiamo alle parole di Shakespeare, nel Winter’s Tale, la risposta di Polissene a Perdita, che rifiuta con sdegno i fiori ibridi perché innaturali – perché esito di una selezione artificiale da      parte del giardiniere: “Questa è un’arte / che corregge la Natura – anzi la muta / Ma è l’arte stessa a essere natura”[8]. È vero in fondo per le rose, le regine dei nostri giardini civilizzati, ciò che vale per le vagabonde: esse sono il frutto di un’arte      che corregge, modifica la natura. Fatto salvo che la natura è questo stesso incessante divenire, mutare, e che l’arte è in tal senso parte della natura stessa, sua prosecuzione. L’esercizio che stiamo facendo dovrebbe far maturare in ciascuno di noi la consapevolezza, per usare le parole di Theodor W. Adorno, riprese da Jürgen Habermas, che “anche io sono un frammento di natura”[9]. È una consapevolezza difficile da acquisire, perché appunto il nostro linguaggio, la nostra esperienza, sono costellati da immagini che in qualche misura occultano questo fatto. Ed è una consapevolezza mutevole, che può essere forse afferrata da un linguaggio capace di aperture, come quello della poesia, che meglio riesce a sfuggire, almeno per un attimo, agli irrigidimenti concettuali di cui siamo prigionieri nelle nostre pratiche discorsive.

 

Ambivalenze. L’esercizio sugli ailanti, mentre ci permette di guadagnare una visione più integrata del nostro posto nel mondo naturale, è istruttivo anche per il suo carattere non moralistico. Gli ailanti, belli e suadenti, ma anche minacciosi, e affascinanti in questo pericolo. La loro ambivalenza è la nostra: perché, con  Friedrich Hölderlin, “là dove c’è il pericolo / cresce anche ciò che salva”[10]. L’indifferenza naturale degli ailanti, il loro opportunismo, a volte cinico, le tattiche espansive delle piante vagabonde; ma anche la capacità di adattarsi, di far fronte al nuovo con economia di mezzi, l’aspetto espansivo, dinamico della vita.

Rendersi conto di quest’ambivalenza, di quest’ambiguità – che è anche la nostra – e venirci a patti, è oggi importante per affrontare la questione ecologica. “Noi siamo allo stesso tempo il problema e la sua unica soluzione possibile” sostiene Michael Pollan[11]. È una consapevolezza spesso non diffusa, perché anche nell’ecologismo predominano atteggiamenti improntati alle dicotomie da cui ci dovremmo liberare. Così accade che l’ecologismo, come in alcune versioni della deep ecology, diventi un programma di protezione dell’endogeno dalla minaccia dell’alieno – delle specie endemiche, native, contro le specie invasive provenienti da altri habitat; ma anche della natura primigenia di contro all’artificio umano. Un atteggiamento che non solo conduce a una sorta di razzismo vegetale, di purismo di matrice identitaria, ma che finisce anche per sottostimare il ruolo positivo che noi, con la nostra cultura, il nostro lavoro, i nostri strumenti umani, possiamo giocare nella difesa della natura.

Siamo proprio sicuri che la questione ecologica si riassuma nella protezione dall’artificio, dai risultati della tecnica, dagli ibridi transgenici? Certo sono anche qui in gioco questioni che hanno a che fare con la protezione della diversità, o come si dice, della biodiversità: e dobbiamo anche essere consapevoli che la diffusione dei cosmopoliti vegetali, delle vagabonde, può comportare al netto, in termini quantitativi, una diminuzione di biodiversità. E tuttavia, la mescolanza, non è essa stessa una nuova diversità, di tipo non quantitativo, ma qualitativo?

Paesaggio in frammenti. Una volta che realizziamo di essere frammenti di natura, e che questa frammentazione è a sua volta l’esito di un’ibridazione tra natura e cultura, natura e artificio, allora possiamo anche diventare consapevoli che la questione ecologica può non voler dire semplicemente protezione dall’artificio. Essa potrà anche comportare l’uso dell’artificio, di dispositivi tecnici, per far fronte a problemi di conservazione della natura – come nella geoingegneria, che si pone il problema di come si possa con mezzi tecnologici far fronte a questioni come il buco dell’ozono, lo scioglimento dei ghiacci, la riduzione di terre coltivate.

Le crisi ambientali ci pongono il problema di come ristabilire tecnologicamente e culturalmente la natura. In un certo senso, come sostengono i paesaggisti Christine e Michel Pena, ci si pone il problema di “reinventare la natura”: produrre delle nuove nature, una “terza natura” che non sia né la natura primigenia della wilderness, né la seconda natura dell’ambiente dominato dallo sfruttamento umano[12]. Ciò che in fondo abbiamo sempre fatto con l’arte del giardino, che è una natura prodotta culturalmente, con l’artificio –  più artifici per più natura.

Tale questione non riguarda solo il nostro rapporto ecologico con la natura come ambiente, e come bene da preservare, ma anche il nostro rapporto estetico ed emotivo con essa: il nostro rapporto con il paesaggio e la sue esperienza, che è uno degli altri fronti in cui si gioca il nostro equilibrio con il mondo che abitiamo.  L’esercizio degli ailanti potrebbe aiutarci anche ad andare oltre una visione meramente museale del paesaggio: una visione conservativa, statica, dove si tratta semplicemente di conservare qualcosa. Certo, il paesaggio, sfigurato, vilipeso, è anche un bene da conservare, e questo aspetto non è secondario rispetto alla nostra consapevolezza ecologica. Però occorre anche maturare una diversa visione, saper cogliere gli aspetti ibridi e indecisi del paesaggio.

Il paesaggio come zona di passaggio, luogo indeciso di una transizione che attraversa il clivage tra naturale e artificiale, perché, come ha scritto Luigi Ghirri, “il paesaggio non è la dove finisce la natura e inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, non delimitabile geograficamente, ma più un luogo del nostro tempo, la nostra cifra epocale” [13]

 

Terza natura. Si parla oggi molto di antropocene: l’idea che saremmo entrati in una nuova epoca geologica, in cui per la prima volta gli esseri umani sarebbero una forza della natura superiore alle altre, capace di determinare il corso della storia del pianeta terra. E se ne parla spesso oscillando tra catastrofismo – l’epoca in cui l’artificio umano rischia di distruggere la natura e le condizioni di vita – e prometeismo – l’epoca in cui ci affranchiamo definitivamente dalla natura.

Anche in questo dibattito si è spesso catturati da immagini che oppongono la natura e la costruzione umana, il naturale e l’artificiale. E tuttavia, l’antropocene non è l’epoca dell’artificio, ma della natura ibrida. Esso è fatto di paesaggi costituiti da interazioni molto specifiche tra uomo e natura, paesaggi residuali e oggetti ibridi in cui vi è indifferenza tra naturale e artificiale – i fenicotteri che si insediano negli stagni del petrolchimico di Priarolo, la piattaforma Chevron divenuta habitat di quattordici specie di pesci anche in via d’estinzione, una sorta di barriera corallina ibrida. Nei paesaggi dell’antropocene abbiamo a che fare esattamente con l’ibrido tra natura e cultura, e dobbiamo venirci a patti e imparare a darvi valore[14].

Gli ailanti, e gli spazi residuali in cui si insediano, ci parlano proprio di questi ibridi di natura e cultura, di questi frammenti  diffusi di natura ibrida, e del valore che vorremmo attribuire loro. Ci parlano di ciò che Clément ha chiamato il terzo paesaggio[15]. Il terzo paesaggio è qualcosa di diverso sia dalla wilderness, la natura primigenia, originaria, sia dalla seconda natura, cioè il paesaggio costruito dall’uomo e assoggettato ai suoi scopi. Il terzo paesaggio designa piuttosto l’insieme degli spazi indecisi, privi di funzione, abbandonati dagli esseri umani, che ricoprono il pianeta, includendo sia gli insiemi primari, le riserve naturali, sia i residui – tutti spazi indecisi, in cui è in gioco una eterogenesi che sfugge a finalità di controllo.

Il terzo paesaggio, con i suoi spazi in via di rapida evoluzione, e trasformazione, pone una questione etica e politica. Nel suo carattere di frammento privi di funzione, frammento indeciso del giardino planetario, con la sua radicale contingenza e accidentalità,  il terzo paesaggio è la “matrice di uno spazio globale in divenire”[16]. Uno spazio in movimento, in cui si sperimentano nuove forme di vita e convivenza, nuove mescolanze. L’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing ha parlato a tale proposito di “terza natura”: una terza via tra la natura selvaggia e la natura schiavizzata, la natura primordiale e la cultura in quanto natura asservita alle finalità umane [17]. La terza natura, quale spazio inconcluso, in movimento, è una sorta di laboratorio, anticipazione del futuro, con il suo carattere di apertura, imprevedibilità, luogo di invenzione del possibile, di ciò che non è ancora dato.  Essa pone la questione del futuro, della sua rammemorazione, che è per certi versi oggi centrale in una civiltà ripiegata su se stessa, incapace di avere un senso dell’avvenire. In quanto luogo di una reinvenzione, la terza natura è una sorta di utopia topica, di sogno localizzato, in cui, in un luogo specifico, si mescolano specie differenti, si danno nuove forme di conflitto, ma anche di solidarietà.

 

Democrazia del vivente. C’è in questo senso uno status politico della terza natura. Ma torniamo agli ailanti. Ralph Waldo Emerson, il filosofo e poeta trascendentalista americano, sosteneva che la nozione di pianta infestante è un costrutto umano, un difetto della nostra percezione. Una pianta di cui non abbiamo ancora scoperto le virtù. Qualsiasi pianta si trovi nel luogo sbagliato[18]. C’era forse una certa dose di romanticismo in tutto questo, che non teneva del tutto conto dell’ambivalenza naturale che è propria anche di queste piante. E tuttavia, c’è anche del vero. E non è un caso che le erbacce siano spesso state assunte nella nostra cultura come simboli della minaccia sociale e politica. Così Shakespeare parla spesso delle piante infestanti, della crescita del loglio, della cicuta, della rigogliosa gramigna, delle odiose bardane, dei cardi irsuti, di erbacce e lappole quali simboli di una monarchia che sta per cadere. E l’immagine della gente comune come di ortiche  e volgari erbacce è un topos presente nella nostra cultura, secondo una gerarchia sociale che vede al vertici gli ibridi ipercivilizzati – le rose regine del giardino – e alla base le spregevoli erbacce, il proletariato del mondo vegetale.

La poesia e la filosofia trascendentalista americana, così come il romanticismo, hanno in parte diffuso il germe di un’immagine diversa, dove le erbacce infestanti e vagabonde diventano figure della libertà. Per arrivare al grande scrittore russo Andrej Platonov, e al suo capolavoro Cevengur, dove la salsola, l’erba che cammina nella steppa russa, diventa l’immagine stessa dell’invenzione di un futuro comunista[19]. Ma voglio concludere qui con Leaves of Grass, le foglie d’erba di Walt Withman e della democrazia americana. Sentiamo il canto di One’s Self I Sing.

 

Io Canto l’individuo

 

Io canto l’individuo, la singola persona,
Al tempo stesso canto la Democrazia, la massa.

 

L’organismo, da capo a piedi, canto
La semplice fisionomia, il cervello da soli non sono degni
della Musa: la Forma integrale ne è ben più degna,
E la Femmina canto parimenti che il Maschio.

 

Canto la vita immensa in passione, pulsazioni e forza,
lieto, per le più libere azioni che sotto leggi divine si attuano,
Canto l’Uomo Moderno[20].

 

Il canto della “vita immensa in passione”, e dell’organismo, è qui la celebrazione della democrazia del vivente. Di una democrazia politica che sia insieme una forma di vita, anche in senso letterale, quale forma di vita vegetale e animale. Non a caso, un libro che è la celebrazione della democrazia americana, e della sua concezione dell’individuo, si intitola Foglie d’erba. La questione della democrazia, qui, si allarga oltre la sfera politico-nazionale e antropocentrica, e assume una dimensione cosmopolitica e naturalistica, dove le foglie d’erba, ma anche le erbacce e le piante vagabonde, divengono l’immagine orizzontale, paritaria, democratica del vivente. Di un cosmopolitismo vegetale. Un compito, per quanto arduo, per quanto pericoloso e ambivalente, che dovremo affrontare.

 

[Foto di copertina e nel testo, Ailanti@Marsiglia, Alianti@Berlino, di Italo Testa]

 

[1] Cfr. K. Marx, Il capitale, Libro I, Torino 2009, pp. 273-274: “Il lavoro è […] per l’uomo, una condizione di esistenza a prescindere da ogni forma sociale; una necessità naturale eterna per mediare il metabolismo fra uomo e natura e perciò la stessa vita umana».

[2] C. Castoriadis, “La force révolutionnaire de l’écologie” (1992), ora in Id., Une Société à la dérive Éditions du Seuil, Paris 2005.

[3] Cfr. W. Sellars, L’immagine scientifica e l’immagine manifesta, ETS, Pisa 2013.

[4] Cfr. I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999.

[5] I. Testa, L’indifferenza naturale, Marcos y Marcos, Milano 2018.

[6] Cfr. G. Clément, Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, DeriveApprodi, Roma 2020.

[7] Cfr. M. Pollan, Una seconda natura, Adelphi, Milano 2016, p. 140.

[8] W. Shakespeare, Racconto d’inverno, in Id., I drammi romanzeschi, Mondadori, Milano 1995.

[9] Cr. J. Habermas «Ma sono anch’io un pezzo di natura». Adorno sull’intreccio fra natura e ragione. Riflessioni sul rapporto fra libertà e indisponibilità, in  Id., Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 98.

[10] F. Hölderlin, Patmos, in Id., Poesie, a cura di Giorgio Vigolo, Mondadori, Milano 1971, pp. 216-217.

[11] M. Pollan, Una seconda natura, cit., p. 143.

[12] Cfr. Ch. Pena, M. Pena, Pour une troisième nature, Ici Consultants, Paris 2010.

[13] L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e interviste, Quodlibet, Macerata 2021, p. 217.

[14] Cfr. G. Pellegrino, M. Di Paola, Nell’antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Milano 2018.

[15] Cfr. G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.

[16] Ivi, p. 63.

[17] A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto 2021.

[18] Cfr. R.W. Emerson, Natura, Donzelli, Roma 2010.

[19] Cfr. A. Platonov, Čevengur, Einaudi, Torino 2016.

[20] W. Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, Torino 1993, p. 7.

6 thoughts on “L’epochè degli ailanti. Terza natura e democrazia del vivente

  1. SEGNALAZIONE

    “Se in un esperimento mentale paracadutate dieci persone adulte che non si conoscono in una isola deserta in una sorta di “isola dei non famosi” senza però le telecamere e sceneggiatori occulti, è inimmaginabile si formi il capo unico assoluto. Potrete avere uno più bravo a cacciare, una a fare capanne, uno che racconta storie, una a cucinare, uno a coltivare, una a curare, ma non si capisce perché mai dovrebbero in nove sottomettersi ad uno quando si dovrà rispondere alle varie versioni del “che fare?” generale di gruppo, il “che fare?” strategico. Ma se passate da 10 a 100, poi a 1000, 10.000, 100.000 e così via, se mettete condizioni esterne viepiù vincolanti, dallo spazio alle risorse a vicini prima amici e poi competitivi perché anche loro alle prese con lo stesso spazio e le stesse risorse e relative immagini di mondo differenti, allora vedrete sommarsi tante piccole e meno piccole trasformazioni dei modi sociali e relative immagini di mondo. Certo, come s’è notato in archeologia, mai di colpo come se ci fosse un limite numerico dimensionale prima del quale c’è un modo e dopo il quale c’è una trasformazione catastrofica, ed è proprio indagando a grana fine queste transizioni complesse che dobbiamo migliorare le nostre letture del profondo passato, tra l’altro usando modelli in cui non c’è solo il motore tecnologico o ecologico o demografico o geopolitico o delle forme di credenza e di ideologia o di una sola o coppia di variabili, ma tutte queste e loro mille e più forme di interrelazione e causazione reciproca ed incrociata, a volte non lineare. Tanto che alla fine si scoprirà che ogni modello è una riduzione. Per cui alla fine, in vie brevi, non potrete altro dire che la gerarchia sociale è figlia dei modi ancora molto primitivi con cui affrontiamo la crescente complessità delle condizioni interne ed esterne delle nostre forme di vita associata a scale di crescente complessità. Se poi vi piace immaginare e dire in un libro che sarebbe meglio sciogliere gli Stati e formare milioni di città o villaggi-stato autogestiti in equilibrio con la natura e coi vicini[40], va bene (ammesso sia possibile questo presunto possibile equilibro con la natura per otto miliardi di produttori di entropia), ma tanto dovrete sempre fare i conti con la domanda del come arrivare a questo modo di rispondere al “che facciamo?” nelle nostre forme di vita associata per arrivare a dove volete arrivare. Vale per gli anarchici ma anche per qualsiasi altra idea sulle forme politico-sociali. Qui tutto lo sforzo di G-W [ D. Graeber, Di. Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, 2022] fallisce, non si capisce dove pensano di mettere il motore delle gerarchie sociali, del fatto che Pochi decidono per Tutti.”

    (https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/02/20/allaba-degli-studi-sullalba-di-tutto/?fbclid=IwAR3nS0UNXGhNs3KSSEEh-PELqfRZdfxIZnHsJ7QoER-cVRtDXRW1wfETOqI)

  2. Contraddittorio David Graeber, Critica della democrazia occidentale, Eleuthera 2012 (ed. originale 2007). Aveva chiaro che “quegli spazi di improvvisazione democratica […] in cui un amalgama indefinito di persone, molte delle quali con esperienze precedenti di autogoverno municipale, porta alla costituzione di *comunità inedite al di fuori del controllo diretto dello Stato*” (c.vo mio) e che “negli ultimi duecento anni, i democratici hanno cercato di innestare gli ideali di autogoverno popolare sull’apparato coercitivo dello Stato. Ma per loro natura gli Stati non si possono realmente democratizzare”.
    Tuttavia, affascinato dall’esperimento zapatista, contro se stesso, conclude il libro così: “bisogna abbandonare l’idea che la rivoluzione significhi impossessarsi dell’apparato coercitivo dello Stato e innescare invece un processo di rifondazione della democrazia basato sull’auto-organizzazione di comunità autonome. Questa è la ragione per cui una remota insurrezione nel sud del Messico ha provocato tanto entusiasmo in tutto il mondo, sicuramente nei circoli radicali ma non solo. […] La mia impressione è che la maggioranza delle persone sia ancora sedotta dagli «specchi deformanti» e non abbia fiducia nelle possibilità della democrazia popolare. Ma forse adesso le cose stanno cambiando.”

  3. L’articolo è un perfetto esempio di come il linguaggio della poesia e quello della filosofia si distacchino da quella che è la realtà per librarsi alti nei loro empirei, idealizzando con attribuzioni “alternative” (piante vagabonde; alterità ambientale e paesaggistica; cosmopolitismo vegetale, ecc.) ciò che per il contadino è una minaccia. Chi vive in campagna sa per propria esperienza che l’ailanto è una pianta da contenere, da combattere, da estirpare perché è una pianta colonizzatrice, ancor peggio dell’acacia, che, se non contenuta, infesterà i boschi e distruggerà (come già sta facendo) le peculiarità del paesaggio nostrano, di quel paesaggio che, malgrado le ferite infertegli dall’uomo, ci è familiare.

  4. Molto interessante, compresi i due commenti. Reazione del lettore all’articolo: Testa finché scrive in prosa “illumina” molto di più della poesia, anche per l’abilità di muoversi con coinvolgimento in un discorso sfaccettato, mentre nella poesia non ho percepito nulla dell’ailanto, piuttosto l’ho sentito ricoperto di parole. Ciò mi sorprende perché non penso che la poesia in sé sia brutta, eppure… forse, per la poesia, c’è bisogno di meno intenzione del dire? Del tipo: “ora vi sorprendo con l’ailanto, che non avete mai visto veramente.” Altre reazioni?

  5. Molto interessante l’idea di un’indagine “stereoscopica”, e molto condivisibile la denuncia del sentimento di “profonda alienazione” e “estraneità” riconducibile a una dicotomia tra natura e cultura che deve essere superata. Insistere sulla dicotomia, e di lì sul carattere fondamentalmente negativo, “invasivo”, dell’intervento umano, porta in ultima analisi al giainismo radicale a cui approda il personaggio di Merry in Pastorale americana. Oppure, più blandamente, a una romanticizzazione della natura che ha ampiamente fatto il suo tempo.
    L’ailanto come metafora della parte di artificio inerente a ogni natura – e quindi della sostanziale naturalità dell’artificio – apre a prospettive che permettono di superare sia uno stallo aporetico che un’estetica museale. Da notare che già ora le rovine industriali/urbane ripopolate da vegetazioni “infestanti” esercitano un fascino estetico decisamente maggiore dei giardini di rose.
    Sulla rilevanza politica dell’ibrido, mi permetto di ricordare il saggio di Donna Haraway “Un manifesto per Cyborg” (1991).

  6. LA POTENZA POETICA DEGLI AILANTI ILLUMINA L’ORIZZONTE DELLA “PREISTORIA” (MARX) E SOLLECITA A SVEGLIARSI DAL “SONNO DOGMATICO”: ANTROPOLOGIA, ECOLOGIA, E “STORIA UNIVERSALE DELLA NATIURA E TEORIA DEL CIELO” (KANT)!
    +
    Una nota a margine dell’articolato e complesso contributo proposto da Italo Testa in “”Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari” (Mimesis 2023, pp. 259-275) *
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    RIPRENDENDO IL FILO DALL’INIZIO:
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    “Dipendenza vitale. Riflettendo sulla natura del lavoro sociale, Karl Marx aveva messo in luce la dimensione ecologica delle comunità umane, mostrando come il lavoro sia la forma specifica attraverso cui si realizza il ricambio organico (Stoffwechsel), il metabolismo tra società e ambiente naturale[1]. In questa prospettiva la dimensione ecologica non è un elemento ulteriore, che si aggiunga ai concetti classici dell’economia e della politica. L’ecologia non investe meri fenomeni locali o marginali, ma aspetti centrali, costitutivi per la produzione e la riproduzione delle nostre società. Non si tratta quindi solo di una questione attuale, legata alla crisi ecologica in corso, e ai rischi catastrofici connessi – esaurimento delle risorse, inabitabilità del pianeta, inaridimento, innalzamento del livello degli oceani, spillover. La consapevolezza legata agli aspetti di questa crisi porta infatti in luce un implicito, che riguarda anche le civiltà del passato, e che ci tocca oggi in un senso più ampio di quello della mutazione in corso. […]” ( “Le parole e le cose”, 5 ottobre 2023: https://www.leparoleelecose.it/?p=47776 ),
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    PROPORREI PER MEGLIO “ORIENTARSI NEL PENSIERO” (KANT) E NON PERDERSI NELLA “FORESTA” COSMICA (QUESTIONE COSMOLOGICA), DI SERVIRSI DELLA “MAPPA CONCETTUALE”, PRESENTE NELL’ “ILIADE” DI OMERO, DALLA DESCRIZIONE DELLO “SCUDO DI ACHILLE” (VV. 664-843), UNA “LAVAGNA” DIDATTICA SU CUI IN UNA SINCRONICA SINTESI VISIVA SONO RAPPRESENTATI LE VARIE ARTICOLAZIONI DEL PROBLEMA “ECOLOGICO” , E, AL CONTEMPO, RIAPRIREI LA DISCUSSIONE SULLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA, A PARTIRE PROPRIO DAL MARXIANO CONCETTO DEL “LAVORO IN GENERALE”, E, IN PARTICOLAR MODO, DAL CONNESSO CONCETTO DI “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE IN GENERALE”. Sul tema, mi sia lecito, si cfr.:
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    “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE, in: Federico La Sala, “L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta – a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001( mi sia lecito : http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198, in ).
    +
    Federico La Sala

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