[Le altre parti di questo intervento si possono leggere qui: 1, 2, 3, 4, 5 e 6].

di Rino Genovese

Certo, sarebbe stato meglio avere avuto ragione con Jean-Paul Sartre piuttosto che con Raymond Aron; invece, con il crollo del “socialismo reale”, alla lunga è stato il secondo a spuntarla, e quelli che s’illudevano che il sistema sovietico, o quello cinese maoista, fosse riformabile e, nonostante tutto, fosse avviato lungo il cammino impervio di un umanesimo integrale hanno dovuto recitare il mea culpa. Proprio perché in passato ci si è spesso sbagliati, la funzione dell’intellettuale impegnato oggi non appare più una missione e una vocazione di alto profilo: non un destino da scegliere trionfalmente, semmai un fato cui ci si consegna con il senso di una sfida quasi stoica, o perfino “controvoglia” per dirla con Alberto Moravia.

L’impegno politico dell’intellettuale si è fatto insomma più difficile. Tra le virtù del prendere posizione è emersa quella del cambiarla all’occorrenza: ed è questa a balzare in primo piano dopo la caduta dello schema progressista di filosofia della storia, dell’ideologia che sosteneva il modello sartriano dell’engagement. Appare invertito l’ordine d’importanza tra i fattori del “tener fermo” (ai princìpi, alla teoria marxista, a ciò che si voglia) e il  “prendere posizione”, legato invece al caso specifico, a ciò che si sa (o non si sa) di situazioni per loro natura mutevoli. L’incremento del tasso di difficoltà nel prendere posizione deriva dalle circostanze oggettive di un impegno senza rete (nel senso in cui se ne parla per certi esercizi acrobatici nel circo), non veramente da un aumento di complessità del mondo, in fondo complesso oggi quanto ieri.

Una conseguenza di ciò è il tentativo di ripristinare la rete di protezione nella forma di un’ideologia sostitutiva, come appunto quella costruita intorno a un uso dei “diritti umani” dagli ex “nuovi filosofi” francesi. L’altra, di segno opposto, consiste nello spostare risolutamente il baricentro dell’impegno verso la sua assenza di rete, accettandone con sobrietà il destino. Il punto di differenza teorico, rispetto al modello sartriano, è dato dal passaggio dal paradigma dell’azione a quello della comunicazione.

Il Novecento ha esaltato l’azione. La politica era essenzialmente azione: la rivoluzione (caso esemplare la presa del Palazzo d’Inverno) era un’azione bene organizzata. Ma anche le guerre – guerre civili come quella spagnola – erano fatte di azioni. In Italia, durante la Resistenza, c’è stato un Partito d’Azione, piccolo ma forte del suo richiamo risorgimentale. Fino alle Brigate Rosse incluse (lo dico per mostrare fin dove può arrivare un certo paradigma spinto all’estremo), la politica, soprattutto a sinistra, era concepita sul modello dell’azione, in particolare dell’azione bellica di cui era una prosecuzione con altri mezzi. Proprio l’adeguamento del rapporto tra i mezzi e i fini era al centro dell’azione politica: dall’organizzazione di un corteo all’ingresso nella “stanza dei bottoni”, cioè nel governo, considerato come una cabina di regia da cui coordinare altre azioni. Riformisti e rivoluzionari erano tutti, in questo senso, azionisti.

Ciò si riverberava sulla concezione dell’intellettuale. Quando non direttamente impegnato come combattente (per esempio in Spagna), le posizioni che l’intellettuale assumeva, le parole che scriveva o pronunciava, erano comunque azioni. Azioni di altro genere rispetto alle imprese belliche ma azioni. La teoria degli “atti linguistici” (speech acts) ha sostenuto che anche parlare è un modo di agire. Ed è naturale che la teoria dell’impegno abbia enfatizzato oltremisura il ruolo del soggetto che s’impegna, punto di riferimento privilegiato delle scelte (o non scelte) che si compiono. Il soggetto, individuale o collettivo che sia, e l’azione sono tutt’uno; fanno parte di una stessa costellazione concettuale: quella per cui all’analisi delle cause o dei vincoli oggettivi sotto cui qualcosa accade, si tende a sostituire l’analisi motivazionale circa i perché e i percome di un dato agire posto in essere dai soggetti. L’attivismo novecentesco è questo: un titanico fare per fare, agire per agire, sulla base di un’idea di soggetto.

Ma è una concezione non più proponibile. Nell’enorme dilatarsi della sfera comunicativa non l’azione ma il gesto diventa il momento propulsivo di ogni impegno possibile. L’azione implica una finalizzazione, un rapporto mezzi-fini, che il gesto non implica. Il gesto – unità minima, atomo non più scomponibile nell’indefinito insieme di processi di cui si compone la comunicazione sociale – non ha propriamente un fine: è un punto nel magmatico mare dei processi comunicativi in sé senza capo né coda. Dal suo aspetto linguistico-verbale, centrale nell’impegno sartriano, la comunicazione si spinge (o retrocede?) verso il suo nucleo gestuale-visivo, mimetico: così caricandosi di tutto il potenziale conformismo che una comunicazione acefala trascina con sé. L’orizzonte in cui l’impegno s’inserisce non è più, allora, quello della trasformazione del mondo quanto quello di una riflessione sul mondo – sul mondo della comunicazione stessa, dal suo interno. Soltanto in questo ambito, nell’articolarsi di questa funzione, il soggetto ritorna nella forma di un osservatore critico-riflessivo, individuale o collettivo che sia. Non come scaturigine di un progetto da padroneggiare.

L’abbandono del paradigma dell’azione a favore di quello della comunicazione porta con sé una de-enfatizzazione della figura dell’intellettuale. Non però una rinuncia o una negazione della sua funzione. Si tratta, in un certo senso, di ricondurre questa figura a ciò che era da sempre: il momento in cui si annodano, nel vasto campo della comunicazione, discorsi anche specifici ma dotati di rilevanza critica generale, per non dire universale. Ciò è in contrasto con l’immagine dell’uomo d’azione e, alla fine, anche con quella della vedette mediatica che costruisce la sua fama sopra una qualche “esemplarità” della propria persona. Una delle ragioni per cui il personaggio Sartre appare oggi addirittura respingente è dovuta al fatto che la sua prospettiva esistenziale, che si voleva appunto esemplare (una vita come quella di nessun altro), si prestava a diventare una figurina da spendere sul mercato dell’opinione, ai suoi tempi ancora giornalistica più che televisiva. Così il modello sartriano è il canto del cigno anziché l’acme di quell’engagement che proponeva. Prendere posizione rischiava già di essere non uno spostamento determinato del punto di vista, ma la semplice girandola dei punti di vista caratteristica della comunicazione in quanto tale.

Ricondotto alla sua natura prosaicamente comunicativa, l’intellettuale appare una figura inserita in un contesto, nello spazio di un dibattito, di una disputa intorno ad alcuni temi che si pongono nel corso della comunicazione corrente. In ciò, a uno sguardo retrospettivo, sia Sartre sia Aron si scoprono facce di una stessa medaglia, momenti di uno stesso contesto, indipendentemente dai torti e dalle ragioni dell’uno o dell’altro. L’autore della più feroce critica all’engagement (nell’Oppio degli intellettuali del 1955) non è stato soltanto il compagno di studi di Sartre all’Ecole Normale, uno che dialogava e disputava con lui fin dagli anni venti, e continuerà a farlo per tutta la vita; è stato anche quello che condividerà con lui, in una riconciliazione quasi postuma considerata l’età avanzata di entrambi, l’impegno nei confronti della tragedia umanitaria del boat people, dei profughi dal Vietnam del Sud dopo la fine della lunga guerra e l’unificazione del paese sotto il regime comunista. Strana conclusione di un gioco delle parti, che però non deve sorprendere. Se si leggono le sue memorie, infatti, nelle prime pagine si scopre che l’ebreo Aron[1] (nato nello stesso anno di Sartre, nel 1905) era vissuto fin da piccolo nel culto dell’affare Dreyfus intorno al quale il padre conservava libri e carte. Non era stato forse proprio l’affaire a dare rilievo per la prima volta, più che a questa o quella singola personalità, alla forma di comunicazione che chiamiamo contesto intellettuale?


[1] R. Aron, Mémoires, Paris, Robert Laffont, 2010.

[Immagine: Émile Zola, J’accuse in «L’Aurore», 13 gennaio 1898].

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