di Claudio Lagomarsini

 

[Esce oggi per il Mulino L’invenzione dell’intreccio. La svolta medievale nell’arte narrativa, di Claudio Lagomarsini. Ne anticipiamo l’introduzione].

 

Come ogni altra elaborazione artistica, anche il modo di congegnare gli intrecci si è sviluppato nel tempo. Molti di quelli che potrebbero sembrare procedimenti naturali, preimpostati nella mente dei narratori e delle narratrici, sono in realtà il frutto di una lunga sperimentazione, nella quale si possono individuare fasi di quiescenza e momenti di svolta: questo libro si concentra appunto su una svolta che ha avuto un’importanza fondamentale nella storia dell’arte narrativa.

Che esista un nesso fra l’evoluzione delle trame, la codificazione dei generi letterari e le strutture mentali delle civiltà che li coltivano è chiaro a qualsiasi lettore. Nel panorama delle letterature occidentali, il romanzo rappresenta senza dubbio la forma che più di ogni altra ha sfruttato l’architettura degli intrecci per produrre significati e per sollecitare i lettori a cercarli. Il che non impedisce comunque che alcune correnti inquadrabili nell’orbita del romanzo rinuncino a dotarsi di intrecci saldamente strutturati. La rinuncia avviene ora in modo all’apparenza spontaneo, ora con un’attitudine più scopertamente polemica nei confronti delle stagioni dominate dalla trama, prima fra tutte l’epoca d’oro della narrativa ottocentesca.

 

Se ci si dà come obiettivo generale lo studio storico degli intrecci e se questo deve a un certo punto raccordarsi all’evoluzione dei generi letterari, già prima di iniziare siamo davanti a una delle questioni inaggirabili della storiografia letteraria, cioè l’individuazione della data di nascita del romanzo. Come spesso accade, l’etimologia orienta solo fino a un certo punto: assodato che il termine in uso in molte lingue risale all’antico-francese romanz, gran parte della critica è piuttosto propensa a sbarazzarsi con disinvoltura della narrativa medievale, che, quando viene presa in considerazione, è di solito respinta nella preistoria del romanzo moderno; una preistoria popolata del resto da molti altri lemmi di classificazione controversa, come per esempio l’Odissea, il dialogo socratico e la narrativa greca e romana.

Se in effetti possiamo oggi collocare non in uno stesso genere ma sì in un medesimo insieme tutte queste esperienze – così diverse per materia, forma, presupposti culturali – è a seguito di una rivoluzione che Guido Mazzoni suggerisce di collocare tra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo: «Nel 1550 la somiglianza di famiglia che lega i testi cui oggi diamo il nome di romanzo era percepita solo vagamente; nel 1800 i termini romanzo, roman, novela, novel-and-romance significavano già quello che significano oggi», vale a dire «uno spazio polimorfo dove trovano posto i racconti di una certa lunghezza che non rientrano nei confini dei generi narrativi più rigidamente codificati (l’epos, le opere storiografiche, la chanson de geste)».

 

Mentre può essere azzardato collegare direttamente la nascita del romanzo moderno al roman francese medievale, è però ragionevole far risalire al Medioevo un’innovazione molto rilevante nella lunghissima storia dell’arte narrativa. Sarà infatti grazie alla tradizione medievale – e all’influsso pervasivo, diretto o indiretto, che essa ebbe sulla cultura europea – se molti secoli più tardi, nell’epoca del romanzo realistico e borghese, gli autori avranno a disposizione una solida e ben collaudata impalcatura su cui allestire le loro narrazioni.

La prima prova compiuta del mutamento in questione si osserva nei primi decenni del XIII secolo: tra il 1215 e il 1230 circa, alcuni anonimi narratori francesi, in parte sviluppando e riadattando racconti più antichi e in parte architettando narrazioni originali, composero il ciclo in prosa del Lancelot-Graal. Con questo titolo convenzionale si intende il polittico formato dall’Estoire del Saint Graal e dal Merlin (con la sua lunga Suite); poi dal Lancelot propre (che costituisce il nucleo più antico del ciclo), dalla Queste del Saint Graal e dalla Mort le roi Artu.

 

È in quest’opera sofisticata, plurale e mastodontica – oltre quattromila pagine di un moderno libro a stampa – che per la prima volta si fa un impiego sistematico e su larga scala del cosiddetto entrelacement, un procedimento che, a seconda di come lo si intende, è rivoluzionario oppure antico quanto l’arte di raccontare. In ogni caso, fino a quel momento, era rimasto allo stato di abbozzo, veniva messo in opera in maniera malsicura o era sfruttato lateralmente. È un modo di organizzare le trame che oggi, dopo ottocento anni dalla sua prima adozione sistematica, ci appare del tutto naturale e, in certa misura, scontato. Per il momento possiamo accontentarci di definire l’entrelacement come l’«intreccio» (questo il significato letterale del termine francese) di più linee narrative, che possono essere tra loro simultanee, consecutive, divergenti, confluenti, eccetera.

 

Prima del Duecento nessuna tradizione e nessun autore si erano mai cimentati in imprese narrative paragonabili al Lancelot-Graal per ambizione, estensione e abilità negli incastri. È con questa opera ciclica che il romanzo “di trama” sale decisamente – e irrevocabilmente – alla ribalta. Per mole e complessità, l’unico degno confronto si potrebbe istituire, al limite, con la storiografia antica o con la Bibbia. Quest’ultima fu in effetti un modello tenuto ben presente dai romanzieri arturiani, se non fosse che nessun libro biblico raggiunge i livelli di virtuosismo di intreccio che saranno toccati dai prosatori francesi medievali. E senza contare, inoltre, che il ciclo del Lancelot-Graal realizza un progetto collettivo, coordinato forse da un’unica mente, portandolo a termine in una medesima lingua letteraria nel giro di circa quindici o venti anni; la Bibbia è invece il risultato di una lunghissima stratificazione – e poi di una selezione a posteriori – di materiali prodotti in lingue, epoche, culture e contesti tra loro più o meno disomogenei.

 

Sarebbe assurdo sostenere che tutti i narratori moderni abbiano studiato alla scuola del roman medievale. È stato certamente così per Malory e per Ariosto, a cui secoli dopo si ispirerà, per sua stessa ammissione, Walter Scott. È anche vero che nel momento in cui il protagonista dell’Histoire comique de Francion (1623), il romanzo picaresco di Charles Sorel, ricorda di aver prediletto in gioventù la lettura dei romanzi cavallereschi non fa altro che esplicitare quanto altri narratori si rifiutano di ammettere a sé stessi o al proprio pubblico. In ogni caso, quando i romanzi arturiani sono antologizzati nella Bibliothèque universelle des romans (1775-1789), dopo cinque secoli di ininterrotta fortuna e diffusione, il loro influsso diretto e indiretto sulla letteratura europea è ormai ampiamente metabolizzato dagli organismi narrativi, e a un tale grado di profondità che i narratori sette-ottocenteschi potrebbero convincersi di possedere l’entrelacement da sempre, come un’impostazione di fabbrica nella mente del narratore.

All’alba dell’età moderna, Montaigne parla dei vecchi romanzi cavallereschi come di fiabe per bambini malcresciuti, mentre Tasso polemizza con la struttura dispersiva e scopertamente “medievale” dell’Orlando furioso. Queste frecciate possono forse servire a confinare il romanzo arturiano nell’infanzia della letteratura e quindi a screditarlo, entro un discorso critico o storiografico, come un’esperienza trascurabile; non impediscono invece all’innovativo tipo di intreccio promosso da quell’esperienza letteraria di imporsi come un dispositivo imprescindibile per organizzare narrazioni complesse.

 

È troppo ardito ipotizzare che I promessi sposi, I tre moschettieri, I miserabili, Guerra e pace (e poi molta narrativa contemporanea, i prodotti del cinema e della serialità televisiva) non avrebbero la struttura e l’estensione che conosciamo, se non fosse per l’elaborazione tecnica inaugurata dalla tradizione medievale francese?

 

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È un’esperienza comune: si inizia a raccontare una vicenda articolata, che coinvolge più personaggi e azioni, e ben presto ci si rende conto di essersi attardati troppo su una sola linea tralasciandone un’altra, in cui «intanto, era successo che…». I narratori di racconti orali e scritti di qualsiasi epoca e tradizione si sono prima o poi scontrati con questi intanto, con queste divaricazioni degli eventi su più palcoscenici, in simultanea. Le linee che si dipartono o che prendono avvio da posizioni separate possono poi allacciarsi, continuare unite per un tratto e separarsi di nuovo per proseguire in parallelo. Ma come si può rendere conto di una simile complessità con la parola parlata o scritta, che per veicolare un messaggio comprensibile non ammette sovrapposizioni di fonemi o grafemi?

Nello scritto, al limite, si potrebbero incolonnare in sinossi i racconti delle vicende simultanee, come in effetti si è fatto per la storiografia: ci torneremo più avanti. Tuttavia, occhio e cervello sarebbero costretti a elaborare un solo segmento per volta, e una lettura a voce alta comporterebbe lo stesso tipo di limitazione. I nostri strumenti cognitivi e i nostri organi fonatori non ci permettono di leggere più colonne sinottiche in contemporanea.

 

Fin dalla più remota antichità i narratori hanno escogitato alcune soluzioni per aggirare l’ostacolo. Prendiamo l’Odissea: nel racconto si seleziona solo uno dei travagliati ritorni in patria dei reduci dalla diaspora di Troia. Eppure, oltre a Ulisse, dall’Asia Minore sono partiti in molti, e la tentazione di intessere tutti i fili in un grande arazzo unitario dev’essere stata fortissima. Omero fa bene a resistere concentrandosi su una sola vicenda, ma nel libro XI del poema permette al suo protagonista di scendere nell’Ade. Qui Ulisse ritrova alcuni dei suoi compagni d’armi, che intanto sono morti e gli riferiscono le proprie storie individuali, che siamo dunque invitati a ridisporre in parallelo accanto alla linea del nòstos principale.

Insieme agli interventi di regia del narratore, i discorsi diretti sono da sempre il principale dispositivo di sincronizzazione: nella tragedia antica, per esempio – dove vigono le ben note restrizioni di azione, tempo e luogo –, capita spesso che un messaggero entri in scena e, prendendo la parola, sincronizzi alla linea principale quello che è accaduto o sta accadendo altrove. È una parentesi che si apre e si chiude, un colpo d’occhio gettato su una o più “colonne” affiancate al cartiglio centrale del racconto. Ma trasformare questo semplice espediente, tutto sommato banale, in una strategia generale di narrazione è ben altra cosa. Un conto è aprire e chiudere una parentesi, altro conto è fare di queste parentesi un procedimento sistematico per rappresentare sulla pagina l’ingovernabile intrico del reale.

 

Si è soliti attribuire a Chrétien de Troyes (Francia settentrionale, seconda metà del XII secolo) l’invenzione dell’entrelacement, che è stato appunto il modo per trasformare un problema millenario in un’inesauribile risorsa narrativa. Vedremo che le cose sono molto meno pacifiche di così, anche perché il romanzo più sperimentale di Chrétien, dove appunto si realizzerebbe l’intreccio di due diverse linee narrative, ci è giunto incompiuto e, nella redazione conservata, risulta strutturato in modo problematico. Di lì a poco, comunque, altri narratori francesi renderanno pienamente operativo il nuovo sistema di raccontare, e le conseguenze di questa innovazione saranno percepibili, prima di tutto, nella crescita improvvisa della mole e della complessità dei racconti.

Scrivere una storia dell’entrelacement non può equivalere a scrivere una storia globale degli intrecci: questa seconda sarebbe un’opera straordinaria, che tuttavia, per non ridursi a catalogo impressionistico, avrebbe bisogno del concorso di molti specialisti, nonché di indagini mirate sulla letteratura mondiale degli ultimi millenni. Più modestamente, pur concedendosi alcune divagazioni, questo libro si concentra su un’epoca compatta e su una tradizione letteraria ristretta. Il mutamento al centro della ricerca prende corpo, dopo una preparazione secolare, in un breve giro di anni. Resta da capire perché questa novità si sia manifestata proprio in Francia, proprio all’inizio del Duecento, proprio negli anni in cui i narratori abbandonano il verso e iniziano ad adottare la prosa.

 

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L’obiettivo primario di questo libro […] è di esaminare il modo in cui, all’inizio del XIII secolo, viene elaborato un nuovo sistema di organizzare gli intrecci. Alla ricognizione di dettaglio deve accompagnarsi un atto interpretativo, capace di rispondere ad almeno due domande: perché si inaugura il nuovo sistema? E che cosa è cambiato nella mentalità dei narratori e in quella del loro pubblico? […].

In italiano, dove il termine “intreccio” (corrispondente all’inglese plot e al francese intrigue) ha già una precisa accezione tecnica, una prassi consolidata ha portato ad accogliere nell’uso anche il termine entrelacement. Nella sua evidente ambiguità, il titolo di questo libro vorrebbe dare conto del bisticcio e della sovrapposizione parziale tra i due ambiti: l’entrelacement è un procedimento utilizzato per complicare l’intreccio (che di per sé potrebbe essere molto semplice), intessendo tra loro più fili narrativi, combinati secondo un certo tipo di montaggio. Occupandoci in particolare della genesi e dell’evoluzione dell’entrelacement si parlerà inevitabilmente di come questa tecnica ha modificato gli intrecci in generale. […]

 

L’indagine si svilupperà in cinque tappe: nel capitolo I si prenderà in esame la preistoria dell’entrelacement per mettere a fuoco il modo in cui, dall’Antichità all’inizio del Duecento, si è affrontato il problema di convogliare in uno stesso racconto fili narrativi disparati. Il secondo capitolo si addentrerà nell’organizzazione del romanzo francese in prosa del XIII secolo, fornendo una descrizione dettagliata dell’entrelacement e studiandone le caratteristiche sincroniche ed evolutive negli anni decisivi della sua codificazione; alcune osservazioni specifiche saranno dedicate alle procedure che permettono ai narratori medievali di ricavare un lungo racconto da uno spunto o da un più breve testo-fonte. Nel capitolo III si allargherà lo sguardo al contesto materiale, culturale, storico e sociale in cui è avvenuta la svolta che sta al centro dell’indagine. Attraverso un confronto con la tradizione storiografica medievale, si proporrà una nuova ipotesi sulle dinamiche che contribuirono all’elaborazione di un nuovo modo di concepire e realizzare le narrazioni. Il capitolo IV sarà dedicato all’impatto di queste innovazioni sulla tenuta generale degli intrecci, sempre più difficili da governare via via che i racconti si espandono e si complicano. Studieremo inoltre che cosa accade quando un incidente di trasmissione, come una lacuna o un’operazione di taglia-e-cuci, mette a soqquadro l’originario progetto narrativo. Nel capitolo V, infine, lasceremo da parte il problema generale dell’invenzione degli intrecci per studiare l’invenzione di un intreccio singolo. Per farlo visiteremo il laboratorio di un narratore medievale alla ricerca di una trama che continua a sfuggirgli.

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