di Marco Balducci
[E’appena uscito per Anterem Editrice Terzo repertorio di Marco Balducci (finalista Premio Montano), con una postfazione di Igor De Marchi e la quarta di copertina di Silvia Comoglio. Pubblichiamo alcuni testi di Balducci seguiti dalla postfazione di De Marchi].
nulla che possa
essere fatto fra un mese, detto tra un anno, sarebbe diverso oggi. Ripetizioni di parole e di atti si sommano in serie sbiadite come raccoglitori in un archivio. Il treno che attraversa l’afa della pianura, supera fiumi su ponti di ferro; alle stazioni quelli fermi con le valigie aspettano un altro convoglio. Le nuvole sono scurite in basso da tratti a matita, e sopra, uno spazio vuoto rappresenta la luce del giorno
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gioco di carte:
appaiono figure impreviste che nel mazzo non esistono, forse: il dubbio di non ricorda-re bene è tutt’uno con l’idea di essersi ormai persi… che diventa certezza, con questa improvvisa vertigine. Seduto, avvinto ai braccioli, aderisci allo schienale, a occhi chiusi, ti sembra dai passi che vengano già armati di barella a portarti via: piedi in avanti, spinto da cento mani e tra mille risate, veloce come un sasso giù da una montagna
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vedersi ora
con chiarezza, scoprire di essere stati complici di dirottamenti fortuiti, colpevoli di avere travalicato regole non scritte ma implicitamente condivise e in continua trasformazione. Limitarsi a chiedere, senza ascoltare le risposte. Esigere dilazioni. Non approvare, non distinguere, divagare, delegare: il risultato non potrà essere diverso. Nascondersi: prima o poi verranno a prenderci, intanto ci si prepara
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mi rincorro, raggiungo
travolgendomi cado, d’istinto paro un calcio sulla schiena… È inutile, domani è già adesso, è un continuo inghiottire saliva, pensare cosa pensare. È il solito garbuglio fatto del-l’eterna linea invisibile, tracciata da un muro a un altro, a un ennesimo
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fino a quando
e fino a che, ma a saperlo, poi, cosa cambia? Sommare, poi dividere, per avere una media ponderata: resti perplesso, il risultato è uno qualunque, nessun interesse, nessuna sorpresa… Sapere, sapere finalmente, e poi re-stare indifferenti: si è saputo qualcosa di prevedibile e nemmeno credibile. Riemergi il giorno dopo, metti la faccia sopra una mano aperta, poi stringi le dita per spremerla bene. Spremila. Spremi a fondo
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la via breve
tra il dito che indica la piega e la mano che la spiana è in una descrizione che si fatica a elaborare compiutamente. Nel filo del discorso si svolge una matassa che rivela grumi di lordura: scorrono a strappi sotto lo sguardo schifato ma non ci si può interrompere, lasciando trasparire il ribrezzo. Occorre aumentare l’enfasi, farsi assordare dalle parole, mentre i piedi sprofondano
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risale
un’eco da un vano scala deserto. Mi sporgo dalla ringhiera e il vuoto si riempie di occhi interroganti. Biancore eccessivo di muri gessosi: appoggiando il palmo della mano scaturisce una polvere finissima. Né giorno né sera: bevo un bicchiere d’acqua, traccio una riga sul tavolo con un dito bagnato, dove sono finiti i contorni delle cose? Mi siedo, forse è meglio addormentarsi, confondersi, lasciarsi assorbire
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non ti rimane in testa
niente, evapora l’ultima impressione su cui avevi costruito un ragionamento. Un pugno di mosche senza mosche. Un ronzio che ti accompagna nelle stanze e corrode ogni musica rievocata, mentre cammini assente, sulle pareti
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Stato di quieto ribollimento
di Igor De Marchi
And you may ask yourself “well, how did I get here?”
Talking Heads
Cosa ci rende così familiare la poesia? Come riesce a essere tanto ferace da persistere nella memoria? Come fa a ridefinire le nostre stesse esperienze mettendoci di fronte a spiragli inaspettati? Non è perché parla di noi e dei nostri sentimenti, è piuttosto una questione di linguaggio: la poesia ha la capacità di mostrare le cose come stanno e al contempo di suggerire che ciò non significa che il loro senso sia esaurito. Assertiva e indeterminata al tempo stesso, riesce a stanare fatti e pensieri dall’ombra per riconoscerli chiaramente, ma anche ad aver cura dell’ombra rispettandone l’alterità. È irriducibile alla semplice enunciazione di un dato di fatto: ecco cosa la rende interessante e così simile a noi. Anche quando tutto sembra leggibile e chiaro, qualcosa ci avvisa che non è così.
È quello che accade nelle poesie in prosa di Terzo repertorio di Marco Balducci. Il testo d’apertura, nulla che possa, mostra una scena apparentemente normale: un treno, l’afa della pianura, una stazione e qualcuno che aspetta con le valigie. La scena è preceduta da una riflessione sul logoramento del Senso di cui sono saturi i “raccoglitori in un archivio”, sulla sua efficacia, probabilmente scaduta. Balducci ha il tono di chi non ha nessuna intenzione di stupire per forza, e la poesia si chiude con uno slancio vagamente ossimorico. Eppure non vanno trascurati i dettagli: “le nuvole sono scurite in basso da tratti a matita, e sopra, uno spazio vuoto rappresenta la luce del giorno” (corsivi miei). È tutto finto, quindi: una sorta di fondale dipinto da vecchia Hollywood, “è un quadretto di mediocre disegno, con questo dolente tedio privo di drammaticità” come dirà in un’altra poesia, un set preparato a bella posta per azioni di repertorio, senza mordente: “Con le orecchie tappate dalle mani entrare nell’inquadratura: vedersi salire il crinale”.
L’orizzonte entro cui ci si muove è dunque solo incidentalmente naturale. Il vero orizzonte è culturale, determinato dall’uomo stesso, dai suoi collaudati e stanchi meccanismi sociali. Molto spesso è uno scenario immaginario (“Varco una porta con l’immaginazione, siedo sulla soglia”; “viene da un sogno abbacinante […] nella realtà sei raggomitolato dentro una scatola”). Una finzione di fronte alla quale per vivere è preferibile sospendere l’incredulità, cosa di cui il protagonista delle poesie di Terzo repertorio è ben cosciente. Lo spazio, la possibilità d’azione, è concepito, disegnato e ritoccato dall’uomo. E se è vero che ha calcato la mano scurendo in basso le nuvole, un panneggio marcato che significa forse il maltempo, è anche vero che ha lasciato uno spazio a rappresentare la luce del giorno; più una possibilità che altro, dato che quello spazio è vuoto, privo di tratti (perché non c’è luce? Perché la luce è irrappresentabile? O perché in sostanza il vuoto stesso è la luce?).
Anche sul piano temporale si percepisce la staticità inquietante della scena, “uno stato di ribollimento continuo, non originato da nulla, non destinato a nulla”, che ha compromesso la capacità di comprensione proprio come un trauma: “mi guardo i piedi e non capisco da chi siano mossi”. Lo straniamento indotto dal presente è l’unico trauma che, invece di concentrare l’individuo accentuandone la presenza, diluisce, annacqua, fotocopia. Il protagonista non soltanto si osserva, com’è normale che sia, ma si ritrova addirittura sdoppiato, separato da sé. Diventa un altro in carne e ossa. Pagina dopo pagina lo ritroviamo intento a vedersi, muovere una mano per salutarsi, farsi un cenno da lontano, rincorrersi, “incontrarmi per caso, in fondo a una strada”, “Mi vedo laggiù per strada […] Dalla strada alzo lo sguardo verso la mia finestra per un istante, per un cenno d’intesa” e così via. Lui non è altro che qualcuno o qualcosa da osservare, tenere d’occhio, qualcuno con cui interagire, qualcosa da sperimentare, “Metti la faccia sopra una mano aperta, poi stringi le dita per spremerla bene”.
L’io si osserva e si asseconda all’interno di questo orizzonte, su cui si inganna più o meno benevolmente per poter vivere, così come il protagonista di Memento di Christopher Nolan. Un individuo dalla memoria compromessa, con uno scopo inappagabile, autoindotto e assolutorio. L’elaborata – e calmierata al tempo stesso – routine della quotidianità necessita che le tracce della propria ricerca vengano cancellate, travisate o ignorate, e invece registrati e trascritti scrupolosamente i frammenti, gli esiti umorali derivati dall’agire. Come in Memento anche l’io delle poesie si alza ogni mattina e fa i conti con la propria inadeguatezza ontologica. A differenza del protagonista del film però non dice “devo credere in un mondo fuori dalla mente”, perché è ben cosciente che il mondo esiste fuori dalla mente e questo ha trascinato la mente fuori di sé sullo stesso piano di insensatezza e finzione. Sebbene auspichi per sé un serio lavoro di scavo (“scavare, vedere solo terra e quello che fosse saltato fuori dalla terra”) la sua ricerca si muove inevitabilmente sulla superficie, sulla quale va in scena giorno dopo giorno la propria vita, quella dell’altro sé stesso e degli altri, le relazioni instaurate e passeggere, il fallimento della costruzione di senso. Alla fine rimane “un pugno di mosche senza mosche”. Eppure dal pugno vuoto si leva un ronzio corrosivo, estremamente familiare, ed eccolo lì: “mentre cammini assente, sulle pareti” proprio come una mosca. Lui, l’io, alieno e meccanico. La distorsione di tale stato è così compiuta e pacificata da essere perfettamente normale, piana proprio come il tono delle poesie; vivere in mezzo a “sconosciuti qui presenti, cordiali, discreti” è in fondo un fatto che non stupisce, “un fatto naturale”, perché “A questo siamo arrivati, mi dico. Ma non vedo errori”.
In tutto questo, mentre le poesie procedono con un dettato preciso il giusto, senza leziosità, perfino estenuato nella pacatezza di tono, in quadretti rigorosi privi di a capo, l’aspetto forse più perturbante traspare dalla punteggiatura: i testi partono senza maiuscole e si allontanano senza un punto, frammenti reperiti in un continuum più grande, mentre all’interno di quest’orizzonte la punteggiatura è franta e circolare, alla ricerca costante di pause che svelano la difficoltà di adesione allo scenario, una specie di riflesso incondizionato in cui si avverte la trasgressione dell’uniforme. In tutti i segni – veri e propri luoghi fisici e della mente – in cui ci si ferma a respirare, spira impercettibilmente, simile a un tic che non ti aspetti, un segnale di ribellione umana; come quando ci comunicano una brutta notizia che dovrebbe atterrirci o lasciarci impassibili, e invece un minuscolo spasmo muscolare, un battito di ciglia, una crepa nella finzione, ci tradisce e rivela che siamo vivi, e tutto ciò non fa per noi.