di Mariangela Caprara
Nel suo ultimo saggio per Einaudi, Il grido di Pan, Matteo Nucci immette nella riflessione – diffusa e attuale – sul rapporto uomo/natura gli ingredienti del pensiero antico, con una particolare attenzione ai presocratici e a Platone. Ma nel percorso dell’autore alla ricerca dell’animalità dell’uomo trovano posto anche suggestioni contemporanee, a lui care, come l’esegesi dell’opera di Hemingway o la tradizione della corrida spagnola. Sia chiaro: non si tratta di una prevedibile inclinazione all’animalismo, da cui Nucci prende peraltro espressamente le distanze. Ciò che dell’animale è il segno, nell’uomo, è la natura mortale; ciò che supera l’animale, nell’uomo, è la parola. Nucci produce dunque un’analisi del significato di logos nella tradizione filosofica greca più antica: glielo consente la lunga dimestichezza con l’opera platonica, nella quale Socrate indica a più riprese come via del bene quella della conoscenza dell’uomo, messa in atto del celebre motto delfico «conosci te stesso». Emblema di questo percorso di conoscenza è il labirinto, la costruzione di Dedalo per il Minotauro, in apparenza antitesi e rovesciamento della conoscenza lineare e razionale, in verità luogo dell’avvolgersi dell’uomo su sé stesso, per conoscersi. Accanto alla figura del labirinto sta la visione ciclica del cosmo di Empedocle, anch’essa non lineare, e in generale la tradizione della cosiddetta sapienza presocratica, che ama esprimersi in versi oscuri e allusivi, facendo ricorso a immagini potenti, come nel genere letterario della visione (di cui Dante è notoriamente tributario). Nucci sottolinea come l’inizio della tradizione occidentale sia segnato da un rapporto mistico con la conoscenza: anche se i sapienti antichi dimostrano di essere e di percepirsi come cosa diversa dai sacerdoti, si esprimono in forme suggestive e non argomentative, oracolari ed enigmatiche, convinti della natura divina della conoscenza. Oracolo ed enigma sono peraltro i pilastri del mito di Edipo, tanto noto quanto misconosciuto a livello popolare. Nucci prova ad offrire al lettore una conversazione dotta, dallo stile non sempre lineare, quasi a voler riprodurre i modi della sapienza antica e, soprattutto, quelli del Socrate platonico, che incalza, ripete, ossessiona implacabile i suoi interlocutori, con parole quotidiane ma riaddensate, senza retorica, intorno ai fulcri concettuali. La figura di Pan, richiamata nel titolo, è il corrispettivo mitico della physis, la natura, l’oggetto – in fondo – di tutta la riflessione filosofica greca, che ben vede l’uomo dentro di essa. Ogni uomo deve assecondare il ritmo della natura, pena lo smarrimento e il terrore, e la natura prevede il riposo, la pausa dalla sfrenatezza, l’abbandono al silenzio e al nulla dell’ora meridiana, l’ora del meritato sonno di Pan. Interrompere il sonno, disturbare il riposo, è sacrilegio che è punito col grido del dio, con il terrore. Di qui l’ammonimento a non assecondare le frenesie produttive, i loro ritmi inumani, le loro false promesse di benessere; a non identificare il benessere col progresso. Diventare sapienti significa dunque scoprirsi nel ciclo, disposti a una rilettura del proprio posto nel mondo, che comporta un notevole ridimensionamento del proprio individualismo ‘idiota’ (etimologicamente: ossessionato dall’interesse privato). Del resto, fu questa la lezione ultima del maestro Socrate, personaggio ambiguo, a-topico, divinamente estraneo al corpo pulsante della Atene democratica tutta tribunali e assemblee, teatro di lotta di parole per vincere e sopraffare.