di Rita Cantalino

 

Il 29 agosto è uscito “Willy. Una storia di ragazzi”, il libro inchiesta di Christian Raimo e Alessandro Coltré sul massacro di Willy Monteiro Duarte, avvenuto a Colleferro la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020.
Il libro approfondisce il lavoro già avviato nel podcast omonimo (storielibere.fm e Dersu) di Raimo, Coltré, Claudio Morici, Theo Teardo e Alberto Nerazzini, che seguiva l’articolo Nella ex città operaia dove hanno ucciso Willy Monteiro Duarte, pubblicato su Internazionale il 19 ottobre 2020 a firma dei due autori.
A poco più di tre anni dall’omicidio del ragazzo, la riflessione di Coltré e Raimo continua a indagare in una direzione specifica, che si fa inchiesta sociale e sociologica sulle generazioni più giovani e sul loro rapporto con un contesto specifico: la provincia deindustrializzata innanzitutto; ma anche un mondo adulto sempre meno in grado di intercettare le loro necessità, limiti e aspirazioni.

 

Una storia di ragazzi

 

La voce “dei ragazzi” è il punto di partenza, il centro e il punto di caduta dell’intera narrazione, a partire dalle primissime battute della vicenda. Quando nelle prime ore e nei giorni successivi al delitto le ricostruzioni della stampa raccontavano di una rissa, di un delitto razzista, di una guerra tra bande o di un regolamento di conti, senza che nessuno avesse chiesto a chi era presente cosa fosse successo, sono stati loro a mettere in campo una necessaria operazione di debunking attraverso i loro social network. Allo stesso modo hanno dovuto, già dalle prime ore successive al delitto, difendersi pubblicamente smentendo presunti virgolettati pubblicati da giornalisti fantasiosi e poi rimbalzati di pagina in pagina, di titolo in titolo.
Nemmeno la famiglia di Monteiro Duarte è stata risparmiata da questo tritacarne. Come racconta Milena, sorella minore di Willy, sono stati vittima di un vero e proprio assalto che, quando non è stato in grado di strappare loro dichiarazioni e portarne in piazza un dolore che voleva essere intimo, se lo è inventato pur di avere qualcosa da dare in pasto al pubblico: «Hanno fatto girare una lettera di “mia madre”, la cosa è che mi dispiaceva perché nei commenti le persone scrivevano tante cose carine ma era una lettera frutto dell’immaginazione di non si sa chi…». La lettera, pubblicata da tutti i principali mezzi di informazione nonostante la smentita da parte della famiglia, è ancora reperibile online e non sono poche le testate che la riportano, per intero, salvo poi specificare che si tratta di un falso.

 

La rappresentazione distorta di quanto accaduto non riguarda soltanto gli aspetti più dolorosi e intimi della vicenda. Come spiegano gli autori: “Il racconto del male negli ultimi decenni è stato plasmato dal codice linguistico delle trasmissioni televisive del pomeriggio. Per La vita in diretta o Pomeriggio Cinque il male che si presenta nella forma di un evento di ferocia spettacolare non deve essere esplorato o interrogato: deve essere soltanto lo sfondo di un canovaccio di cronaca nera sostituibile, valido un po’ ovunque e in ogni momento. Per ogni caso si rilucidano le stesse etichette viete, tipo la «periferia criminale» o la «provincia degradata», i ghetti e i destini. Anche la storia di Willy Monteiro Duarte non ha fatto eccezione; e tra le centinaia di giornalisti che sono piovuti a Colleferro, Artena e Paliano nei giorni successivi, molti hanno deciso di raccontare questo omicidio come una degenerazione notturna, un episodio di malamovida avvenuto in un luogo poco distante da Roma reso però anonimo e remoto”.

L’omicidio di Willy Monteiro Duarte avviene la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020: siamo agli sgoccioli dell’estate che ha inaugurato la Fase 2 della pandemia, il momento nel quale i più giovani hanno potuto riprendersi aria, spazi, ricominciare a uscire, divertirsi, rivedere gli amici, stare in giro a bere e chiacchierare. Non stupisce che nelle prime ricostruzioni Willy appaia vittima della “movida”: il ragazzo trova la morte nella zona dei baretti, quella in cui tutte e tutti si riversano nelle notti d’estate, nelle sere del weekend. L’aggressione è compiuta di fronte a centinaia di persone che si erano riunite per strappare ancora qualche notte a un’estate di libertà che si avviava a finire, con la ripresa delle attività da un lato, un nuovo aumento dei contagi dall’altro.
Contro la “movida” si scagliano tutti quelli che si sentono anagraficamente legittimati a un utilizzo moralistico del concetto. Monsignor Luciano Lepore, parroco della chiesa principale di Colleferro, l’11 settembre 2020 si prende gli schermi televisivi di mezza Italia attraverso un’intervista rilasciata a Storie italiane, nella quale racconta di una città a tinte fosche: “La notte c’è un viavai di giovani, che mi dicono, sempre mi dicono perché io non è che la notte vado in giro a vedere quello che succede, che in un certo ambiente di cui non voglio fare il nome, si radunano dopo la mezzanotte giovani, meno giovani, e vivono fuori da ogni regola. […] Lì succede il putiferio, si spaccia: consumano droga, e le ragazzine si prostituiscono per pochi euro”.

Il sacerdote dichiara di non avere alcuna diretta esperienza della degenerazione morale che sta raccontando ma è pronto a legarla implicitamente al massacro che è chiamato a commentare; e lo fa senza alcun contraddittorio, parlando di un segmento specifico della popolazione locale e delle sue presunte abitudini senza che nessun rappresentante di quest’ultimo possa avere occasione di dire la propria.
Benedetta Bartolomei, una ragazza di Colleferro al tempo diciassettenne, decide incontrare il sacerdote, riportando il loro scambio in una lettera pubblica nella quale racconta che, messo alle strette circa le fonti di quanto raccontato alla tv, il sacerdote abbia avuto un atteggiamento evasivo che lo ha portato, infine, a dare alle sue parrocchiane – “Me lo hanno detto le signore” – la responsabilità di quanto detto.
Intervistata da Raimo e Coltré, Bartolomei analizza quanto accaduto: “Dalla morte di Willy si è alzato un muro tra la generazione mia, la generazione sua e quella degli adulti; ma è un muro che si è consolidato subito dopo la morte di Willy, perché è un muro sempre presente, e penso sia quello il problema principale. Io come adolescente mi sono vista il dito puntato da parte delle generazioni adulte”.

 

Così un gruppo di ventenni ha dovuto affiancare al trauma del brutale omicidio di un amico anche quello di una sovraesposizione mediatica non consensuale che ha alterato le loro voci, le loro reazioni e la memoria di Willy, spesso invadendo le loro vite. Federico Zurma, ex compagno di scuola e amico di Willy, è stato sottoposto a una sistematica e brutale persecuzione. Secondo la ricostruzione giudiziaria lui è il ragazzo che Willy voleva difendere quando ha trovato la morte a opera di Marco e Gabriele Bianchi.
Zurma ha 23 anni e lavora come cuoco in giro per l’Italia. Come gran parte dei suoi amici, ha rifiutato qualunque contatto con la stampa – Coltré riuscirà a intervistarlo solo nel luglio 2021 – per reazione all’enorme pressione cui è stata sottoposto proprio da parte dei giornalisti.
“Ho i genitori separati – racconta – dovevo spostarmi da una casa all’altra. Non so come facevano i giornalisti, mi seguivano, mi contattavano su Instagram, sui social, mi hanno perseguitato per una settimana. Andavo a casa di mio padre, a casa di mia madre, di mia nonna. Mi spostavo in continuazione perché era una cosa allucinante”.

 

Quali sono gli elementi che hanno reso quanta vicenda scioccante un trauma collettivo?
Alessandro Coltré è originario di Artena – la città dei fratelli Bianchi -, ha studiato ed è cresciuto a Colleferro – la città in cui viene ammazzato Willy – dove è impegnato in diversi percorsi di attivismo.
La sera del 5 settembre 2020, insieme alla sua associazione, ha organizzato uno spettacolo teatrale gratuito per la cittadinanza a pochi metri dal luogo in cui, quella notte, un calcio mortale spezzerà il cuore di Willy Monteiro Duarte.
La sua voce trema quando, un anno dopo, in occasione del primo anniversario, lo ricorda: “Quella sera io ero lì perché avevamo deciso di organizzare uno spettacolo di teatro, una cosa che nella fase uno della pandemia era mancata. Eravamo contenti a fine spettacolo, poi il giorno dopo come tutti ho scoperto della morte di Willy Monteiro Duarte. E mi sono, ci siamo detti che non è servito a niente, e che se c’è una parola che dobbiamo utilizzare per uscire dalla retorica, è ‘fallimento’”.
Poche ore prima che Willy venga ammazzato, Coltré è nella stessa zona, al bar Duedipicche, il luogo di incontro delle ragazze e dei ragazzi di Colleferro e delle cittadine dell’area circostante. Beve una birra con Claudio Morici, protagonista dello spettacolo, che diverrà poi la voce narrante del podcast. Soddisfatti della riuscita dell’evento, si salutano e vanno a letto presto. Qualche ora dopo, il massacro.
Il trauma raccontato dal giornalista può essere una via d’accesso, una porticina che ci conduce a entrare in quello più grande della sua comunità. Un attimo prima c’è leggerezza, voglia di divertirsi e uscire da una fase buia; un attimo dopo è il disastro. Tutte le voci riportate comunicano la sensazione di smarrimento, di sbigottimento rispetto a un dramma inspiegabile e, più doloroso perché abbattutosi su un innocente, su qualcuno che sembrava proprio non meritarlo.

La risposta della comunità è dettata anche dall’innocenza della vittima coinvolta. Willy era un bravo ragazzo, un lavoratore onesto e appassionato – faceva il sous chef – e un giovane solare, allegro. La sua faccia, il suo sorriso aperto e luminoso, erano quelli di qualcuno che ti è simpatico a pelle. “La sua immagine – raccontagli gli autori – gigante, dolce, è in tutte e tre le cittadine protagoniste della vicenda. A Colleferro ci sono due murales. […] Dal 2020 ad Artena, nelle varie contrade, all’entrata di ogni scuola elementare e sulla grande ringhiera delle scuole medie sono stati esposti degli striscioni con scritto: “Artena sta con Willy”. In una piazzetta del centro storico di Paliano lo street artist Ozmo ha dipinto il ritratto di Willy, lasciandolo per chiunque passi di lì: bambini che giocano a pallone, ragazzini che si fumano le prime cicche un sabato sera, mamme che aspettano i figli all’uscita di scuola”.
La faccia sorridente di Willy, il suo nome, sono ovunque a ricordare l’ingiustizia di cui è stato vittima. Il sopruso inaccettabile della violenza che spezza la vita di un ventenne, ma soprattutto di un “bravo ragazzo”. Accadde la stessa cosa a Scampia, all’indomani della morte di Ciro Esposito. Ciro, giovane del quartiere, onesto lavoratore in procinto di sposarsi, divenne martire di una comunità che affrontò quell’inaccettabile offesa individuale come l’ennesima ingiustizia subita collettivamente. Quando, dopo quasi due mesi di agonia, Ciro Esposito è morto, il suo quartiere si è trasformato in un tributo a cielo aperto alla sua vita, meritevole di memoria proprio nel suo “essere normale”, lontana dalle narrazioni stereotipate sugli abitanti del quartiere o dalle feroci invenzioni della fiction.

A commuovere non è la “morte dell’eroe”, seppur sia Willy sia Ciro si trovano a intervenire, in circostanze non determinate da loro, per aiutare qualcun altro; ad apparire inaccettabile è il fatto che l’ingiustizia si sia accanita su qualcuno estraneo a certe dinamiche, qualcuno che aveva appena staccato da lavoro al ristorante ed era andato a bere una birra con gli amici, che era andato in trasferta a vedere la sua squadra del cuore. Qualcuno che era stato appena promosso sous-chef e sperava di diventare presto chef, o che lavorava in un’autofficina e a breve avrebbe sposato la sua fidanzata.
Anche per questo molte immagini agiografiche di Willy sono risultate estranee a chi lo conosceva meglio; futili, volte ad aumentare il pathos di un evento che già di per sé tragico. Un’ampia parte del lavoro di Raimo e Coltré consiste nel cercare Willy, onorare la memoria di quel ragazzo ritrovandone lo spirito nelle parole di chi lo amava, fuori dai titoli di giornale. “Lo spirito di Willy – scrivono – era questo, quello di un ragazzo di provincia nato a Roma nel 1999, un cuoco precario, un lavoratore di Artena. Palianese, capoverdiano, preso bene, cazzone. È vero che dopo tre anni la burrasca dei media ha perso di intensità, ma non ha cambiato tono e non si è mai del tutto placata. Soprattutto per questo è difficile seguire questo spirito, e capire come soffiasse nelle vite degli altri”.
Un’operazione del genere non può essere compiuta seguendo i ritmi frenetici della cronaca. Ci sono voluti tre anni, centinaia di voci, come quella sua amica Michela Timperi, che racconta dell’ossessione di Willy per la sua auto, una Fiat Punto modificata: fari blu, cerchioni neri e impianto subwoofer, con la quale sfrecciava per i vicoli di Paliano pompando musica a palla, raggiungendo i suoi amici al solito bar, dopo aver finito di lavorare.

“Appena staccava arrivava da noi – racconta Timperi – poi la cosa che io ricordo è l’entusiasmo che avevamo tutti noi quando lo vedevamo passare con la macchina, tutto buio, il suo sorriso dentro la macchina, musica a palla, e tutti noi dentro il bar: «È arrivato Willy, è arrivato Willy!». Quando arrivava lui l’atmosfera cambiava. [….] L’altro giorno pensavo al fatto che questo omicidio è stato non solo di una persona ma bensì di un gruppo, di tutta l’ingenuità e della spensieratezza che ci poteva avere il nostro gruppo. Ragazzi di vent’anni che si vogliono divora’ la vita, tutto questo adesso è cambiato. Da un giorno all’altro la nostra maturità è cambiata, come ti dicevo l’altra volta l’ho immaginata così, «un’eclissi solare». È stato un male che spegne la luce che avevamo attorno”.

 

La storia di una comunità

 

Il lavoro di inchiesta di Coltré e Raimo opera cancellando i margini in cui la vicenda del massacro è stata imprigionata e disegnandone di nuovi, più ampi, più mobili.
È qui che nella storia di “una rissa finita male”, che coinvolge un giovane italiano di origine capoverdiane – la vittima – e quattro violenti – i suoi assassini – le protagoniste della vicenda diventano due città: il luogo del delitto, Colleferro e la città degli assassini, Artena.
Il reportage pubblicato dagli autori nell’ottobre 2020 definisce i luoghi che, lungi dall’essere mero sfondo di una vicenda violenta, finiscono per diventarne partecipanti, interagiscono con le storie di vita dei protagonisti.
Artena non è soltanto la città che ha dato i natali ai due efferati assassini, ma è anche il borgo dove “negli ultimi vent’anni i sindaci hanno coniato l’immagine un po’ posticcia del “centro storico non carrabile più grande d’Europa” che però è “in realtà un nugolo di case vecchie senza nemmeno una farmacia, b&b vuoti da mesi, due bar e la vecchia sede della posta trasformata nel circolo Arci. Secondo i dati del 2018 nel paese antico ci sono 1.200 residenti, ma ad abitare nella parte pedonale sono meno di 800, quasi tutti anziani”. Nelle contrade della città si alternano capannoni agricoli, ville hollywoodiane e pecore al pascolo: il territorio sembra cristallizzato in un’epoca che fatica a passare, sottoposto alla contaminazione ambientale dovuta a un’industria che è già andata via, a una crisi edilizia che imperversa da tre decenni e da una crisi politica profonda.  Poche settimane dopo il massacro, il 30 ottobre 2020, il sindaco Felicetto Angelini viene arrestato e tradotto ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta Feudo. Le accuse sono di concussione, falso in bilancio e una serie di reati di mala amministrazione. Angelini sceglierà di non dimettersi. per due anni e mezzo, fino a che non interverrà la Procura di Velletri con l’interdizione dai pubblici uffici, la città resterà paralizzata: due anni e mezzo dopo un massacro brutale, senza una guida amministrativa e nel mezzo della pandemia.

 

Anche il racconto di Colleferro che Coltré e Raimo scelgono di fare è una storia che inizia molto tempo fa. Smette di essere l’epicentro della “movida violenta” e la sua vicenda diviene quella di una città nata intorno a una fabbrica e in funzione di essa, di una vocazione industriale disegnata a tavolino da un ingegnere, Riccardo Morandi (lo stesso del ponte di Genova) che ha richiamato anime da tutta la Valle, da tutto il Paese.
Colleferro città operaia, città fabbrica: di armi, innanzitutto; è l’unica in Italia a vantare, nella sua toponomastica, “Via degli Esplosivi”. La sua Santa Patrona, Santa Barbara protettrice degli artificieri, è ritratta sull’altare della chiesa principale della città mentre si innalza trionfante al centro di un’esplosione; sullo sfondo ci sono le ciminiere della fabbrica.

Dalla produzione di armi, nel dopoguerra, si passa a quella di prodotti chimici: arriva il Lindano, diserbante agricolo e insetticida, concorrente commerciale del DDT. Per quarant’anni la città è stata fiore all’occhiello dell’industria chimica nazionale, per poi fare i conti con l’eredità tossica che, inconsapevolmente, aveva attirato su di sé. Nel 2005, dopo il ritrovamento di numerosi capi di bestiame morti, le analisi portano alla scoperta di una forte contaminazione del territorio.
La produzione di lindano termina con la deindustrializzazione degli anni ‘70; trent’anni dopo la città si è scoperta epicentro della contaminazione della Valle del Sacco e, dopo cinquant’anni, sta ancora facendo i conti con l’eredità tossica che ne è derivata.
Dopo essere stata città di armi, città di prodotti chimici, negli anni ‘90 Colleferro diventa la città cui viene affidato il compito di risolvere l’endemica crisi dei rifiuti della Capitale. Con una discarica e due inceneritori, vede un incremento spaventoso delle malattie respiratorie ma anche la nascita di una mobilitazione popolare di massa, che alla fine porta alla chiusura degli inceneritori. Nel frattempo arrivano la lavorazione del cemento (Italcementi) e quella aerospaziale (Avio).

Le tute blu continuano ogni giorno a varcare la soglia della fabbrica e la sirena delle cinque raccontata da Barbara Balzerani (originaria della città) continua a scandire la vita Colleferro ma, mostrano gli autori, si tratta di un’illusione: il ridimensionamento delle industrie, le criticità ambientali e sociali, le delocalizzazioni, la disoccupazione e lo spaccio hanno sostituito l’immagine della comunità morandiana.
L’ultimo arrivato è il polo logistico con il “più grande magazzino Amazon del Centro Italia”, un capannone gigante lungo la provinciale per Paliano, e i “giganteschi magazzini di Leroy Merlin”. Anche gli amici di Willy hanno partecipato alla selezione per lo stabilimento del colosso di Bezos, che ha aperto i battenti il 5 ottobre 2020, a un mese dall’omicidio. Leonardo Mosetti, testimone dell’omicidio che ha conosciuto Willy solo dopo che è stato ammazzato, è una voce che tornerà spesso nel podcast perché quanto ha visto gli ha cambiato la vita. Anche lui ha lavorato per Amazon per nove mesi, poi il suo apprendistato non è stato rinnovato.
Lo ha scoperto da una mail: «La tua avventura in Amazon finisce qui», diceva.

 

Come si onora la memoria di Willy Monteiro Duarte?

 

Raimo e Coltré riportano due casi simili a quello di Monteiro Duarte. Nel marzo del 2017 Emanuele Morganti, vent’anni, viene picchiato a morte all’uscita di una discoteca al centro di Alatri, il suo paese. Aveva reagito ad alcuni apprezzamenti molesti rivolti alla sua fidanzata mentre era al bancone.
Il 30 gennaio 2023 è stata la volta di Thomas Bricca, diciott’anni, freddato dai colpi d’arma da fuoco di Roberto Toson e suo figlio Mattia, appena ventiduenne. I due, in sella a uno scooter e con il volto coperto, si sono avvicinati al ragazzo e gli hanno sparato alla testa. L’ipotesi più accreditata è lo scambio di persona nel corso di un regolamento di conti, ma la verità giudiziaria non è stata ancora accertata.

Casi del genere richiamano alla memoria vicende più recenti, come l’assassinio del ventiquattrenne Giovambattista Cutolo, avvenuto a Napoli la notte tra il 30 e il 31 agosto. Cutolo, giovane musicista votato alla bellezza e all’amore della città in cui ha scelto di restare nonostante – pare – le pressioni familiari, trova la morte per mano di un sedicenne proveniente dai Quartieri Spagnoli, dedito alle rapine di Rolex e con sulle spalle pesanti precedenti per tentato omicidio quando aveva appena 13 anni. Un bambino che, quando era ancora più bambino, aveva già tentato di ammazzare ma che, troppo giovane per essere imputabile, è stato abbandonato a sé stesso e dimenticato per i successivi tre anni. Fino a che una notte d’agosto ha deciso di ammazzare un ragazzo poco più grande di lui perché, parcheggiando, aveva urtato il suo scooter. Mentre raccontano delle attività dei fratelli Bianchi, il loro ruolo di “rider della violenza” che, su chiamata, garantivano l’ordine dell’area a Sud di Roma in forza dei loro muscoli, Coltré e Raimo specificano che il loro intervento era invocato spesso e riportano numeri casi in cui sono stati esplicitamente coinvolti. Allo stesso modo il loro arresto a seguito dell’omicidio di Willy ha fatto luce su diverse indagini già in corso su di loro: “Ci è sembrato anomalo – commentano – come i due fossero completamente impuniti rispetto a un’attività intimidatoria permanente, conosciutissima a Colleferro e dintorni”. Anomalo, come sembra anomalo che un ragazzino di sedici anni abbia già provato ad ammazzare a tredici e, dopo il fatto, nessuno lo abbia preso in carico.

Riconoscere una certa responsabilità delle istituzioni, dare forma e sostanza al vuoto lasciato sulla storia di intere comunità così come su quella dei singoli, non vuol dire deresponsabilizzare questi ultimi ma piuttosto provare a guardare con una prospettiva più ampia, andare oltre la visione manichea che divide le società tra meritevoli e dannati. Si tratta della visione pacificatrice che da un lato depotenzia l’implicita feroce accusa politica che certe vicende generano, dall’altro risponde alle esigenze mediatiche di fornire prodotti di immediato consumo a un pubblico che ha bisogno di sentirsi a posto, identificando “il cattivo” nell’altro da sé.
Marco e Gabriele Bianchi sono stati messi al centro di uno scranno dal quale fossero chiaramente visibili le loro espressioni truci, i loro muscoli gonfi, i loro scivoloni sintattici. Sono divenuti l’immagine del male, i cattivi per antonomasia, i criminali per i quali “buttare via la chiave”, perché nulla per loro può esser fatto e bisogna liberare la società dalla loro brutale presenza.
Come se le società fossero abitate soltanto dai loro membri più autorevoli, quelli non macchiati da un “DNA criminale”; “è come se – riflettono gli autori – invece di pensare la realtà in termini sociali – e quindi trasformabili”, la immaginassimo imprigionata a una sua tara genetica immodificabile.

La vicenda di Willy Monteiro Duarte diventa l’occasione di una riflessione più ampia su come si racconta la cronaca, quale valore e funzione può avere. Esiste una dimensione altra da quella del gossip morboso e dei lombrosismi d’accatto? C’è, Coltré e Raimo la individuano e vi si immergono, trasformando la morte di un ventenne nella storia di una comunità.
“L’infotainment sui paesi – scrivono – sembra accogliere le voci degli abitanti solo se possono includere racconti di svolte personali. Così l’autorealizzazione rischia di offuscare tutto il resto. Le lotte e i percorsi collettivi, la sottrazione di servizi e di reddito, le rivendicazioni e i conflitti, l’abbandono scolastico, le lacerazioni e le spinte opposte con le quali può convivere chi abita in provincia: riprodurre una cultura tradizionale che ti protegge in qualche modo dalla ferocia dell’esclusione sociale, e immaginarsi in un altrove, a cui nella maggioranza dei casi non si arriverà mai. Quando i desideri, gli immaginari e persino le utopie sono coltivate sotto casa dal protagonismo giovanile, allora c’è il pericolo che possano essere fermate, ridimensionate, spezzate e addomesticate: svilite. Così i giovani diventano: coraggiosi o falliti, adulti o sdraiati, anime buone o mostri”.
Irene Margiotti, attivista ventenne di Artena, lo esplicita in termini plastici, raccontando di un vuoto che investe le vite e le energie dei giovani: “siamo abituati che niente è niente, che sembra tutto impossibile”.

Non vedere questo vuoto, non vedere questo niente, rende più facile trattare esplosioni di violenza come quella di Colleferro, quelle di Alatri o di Napoli o le centinaia di altri casi in tutto il Paese, come episodi isolati generati da mele marce.
I problemi diventano semplici, le risposte facili: si può risolvere, si può reprimere, si può punire.
A pochi mesi dal suo assassinio, il nome di Willy Monteiro Duarte verrà utilizzato per battezzare un daspo urbano riservato a chi turba l’ordine pubblico: il “daspo Willy”.
Allo stesso modo, il “Decreto Caivano”, in risposta alle violenze e alla perpetua riscoperta di quanto avviene quotidianamente ai margini delle metropoli, prevede una serie di strumenti punitivi: l’onnipresente daspo urbano, innanzitutto, nell’idea che i cattivi non facciano parte della società, vadano isolati; l’inasprimento delle pene per i reati connessi ad armi e droga e il carcere per le famiglie i cui figli non assolvano l’obbligo scolastico; il divieto di cellulari per i giovani segnalati: lo Stato ha deciso da che parte stare, quella del genitore che punisce, che ti caccia di casa se ti comporti male, che ti toglie il cellulare e che, soprattutto, se la prende con te se le sue stesse istituzioni non riescono ad accogliere tuo figlio.
Il Ministro Matteo Salvini ha addirittura evocato la necessità di un “abbassamento dell’età imputabile”: non riusciamo ad evitare che i tredicenni armati diventino sedicenni assassini, però magari li incarceriamo e risolviamo così il problema.

La risposta repressiva pare essere l’unica reazione isterica che queste istituzioni sono in grado di esprimere: punire, reprimere, militarizzare, nonostante il plateale fallimento della strategia. “Sotto la caserma lo hanno ammazzato – piange, con la testa tra le mani, un amico di Willy la mattina successiva all’assassinio – fanno i controlli, cagano il cazzo e poi la gente muore sotto la caserma”.
Impossibile non pensare a un analogo delitto di otto anni fa. Era la notte tra il 5 e il 6 settembre 2015, Genny Cesarano, 17 anni, chiacchierava con gli amici a Piazza San Vincenzo, nel cuore del quartiere Sanità a Napoli. La città era militarizzata, giovanissimi uomini in posa accanto a enormi jeep imbracciavano mitra in ogni piazza e in ogni angolo del centro storico: era “Strade Sicure”, l’operazione volta a contrastare la violenza in una città piena di armi mettendone altre in circolo, la risposta dello Stato alle stese di camorra operate da ragazzini poco più grandi di Genny, ai danni di altri coetanei, per gli interessi di adulti che, da qualche altra parte, se ne stavano al sicuro. Genny muore così, crivellato nel mezzo di una stesa, mentre fuori la città è militarizzata.

 

Leggendo il libro, ascoltando il podcast, diviene sempre più chiaro che la risposta repressiva presuppone una domanda sbagliata.
Cosa genera la violenza cieca che porta alla morte di un ventenne in una notte di fine estate? I media mainstream hanno urlato di guerra tra bande, alcool, mala movida, dello statuto violento di una specifica disciplina di arti marziali. Le ragazze e i ragazzi di Colleferro, di Artena, di Paliano, cui nessuno ha chiesto niente, hanno un’altra idea.
L’intera vicenda dell’omicidio di Willy è generata da un episodio di catcalling: Mario Pincarelli, un amico dei Fratelli Bianchi, indirizza apprezzamenti non richiesti ad Azzurra Biasotti, amica di Willy, in piazza quella sera con il suo fidanzato. Biasotti sceglie di disinnescare la dinamica e ignorare Pincarelli; un suo amico assiste alla scena e la riporta al fidanzato di lei, che decide di chiarire con il ragazzo.
Tutto poteva essere evitato ma la legittima decisione di Azzurra Biasotti di ignorare le avances è stata scavalcata da quella di uno, due, tre, quattro uomini che hanno fatto propria una vicenda che non li riguardava.
Benedetta Bartolomei parla a Coltré e Raimo di mascolinità tossica, di “guerra tra maschi”: “Quello che è successo è anche legato a modi di fare che stanno anche a Roma o in altre città. Si cerca di sovrastare gli altri perché risulta essere la strada più facile. C’è una voglia di imporsi, prima con un atteggiamento di superbia per farsi notare, e poi parte la violenza. Anche quella sera c’è stata questa cosa, ma anche prima della violenza fisica. C’è stata la cosa di sentirsi maschi che stanno al centro della serata, che si gonfiano fuori i locali”.

Una dinamica figlia di un modello culturale che non è esclusivo della provincia o del contesto specifico di cui parliamo, ma che riesce a incastrarvisi perfettamente, come il pezzo di un puzzle. Lo racconta Mino Massimei, del Circolo Arci di Artena “Montefortino 93”. Massimei è consapevole del ruolo delle realtà sociali e culturali in determinati contesti, ma anche dei limiti che esse incontrano: “È chiaro che se non eserciti tu una forma di egemonia, di cambiamento e di esempio per fasce della popolazione, probabilmente la esercita qualcun altro. – ha detto nel corso dell’assemblea pubblica dedicata all’omicidio di Willy – Magari più che sul riscatto, anche se vieni da condizioni sociali ed economiche basse, vince invece un altro modello, fondato sull’individualità, sulla prevaricazione e a volte sul disprezzo. Vince un modello familiare che ti può schiacciare, dove tutti i giorni senti che per vivere devi mangiarti gli altri a colazione. […] Alcuni degli imputati si erano avvicinati alle attività del circolo, partecipavano a un torneo di calcio balilla, poi non li ho visti più. Non è che con una singola azione o con i tanti progetti culturali del nostro mondo risolvi qualcosa di collettivo”.

Non è detto, naturalmente, che se nasci in un contesto come quello disegnato tu debba diventare un feroce assassino. Gli elementi messi in fila restano però dei pungoli, viene da chiedersi se questa vicenda potesse andare in un’altra maniera, togliendo uno o più pezzi dal puzzle.

Il libro è arricchito dal contributo di Stefano Laffi, un sociologo che si occupa di criminalità urbana e che, a questo proposito, scrive: “Nel caso dei due fratelli, chissà chi erano per loro gli amici o i nemici. Chissà come vedevano e vedono la rappresentazione degli schieramenti di somiglianza e differenza. Io credo che abbiano in qualche modo vissuto una palestra implicita, forse di educazione incidentale, dove il modo per esserci era quello. Era affermarsi. E lo sconosciuto è più semplice perché è puro sfondo, è un display sul quale tu ti proietti, e già che è un display ti proietti grosso, forte e potente fino addirittura a dominarlo. Tutto questo parla anche di un’incredibile anestesia nei confronti del tuo corpo e degli altri”.
La stessa anestesia che vivi se a sedici anni regoli con una pistola la discussione per un parcheggio e di fronte alla quale viene da chiedersi quale utilità possa avere una risposta meramente repressiva, che ignora l’enorme elefante nella stanza della qualità della vita e delle condizioni di disagio di gran parte delle persone che fanno la nostra società.

 

Come può, lo stesso governo che ha stralciato dal PNRR i fondi destinati all’abbattimento delle Vele di Scampia e alla costruzione di nuovi alloggi, più dignitosi, per i suoi abitanti; lo stesso governo che ha deciso di eliminare di fatto il reddito di cittadinanza e con esso la possibilità, per chi ha difficoltà economiche, di vivere una vita dignitosa e, spesso, di non cadere nella tentazione dei soldi facili; come può, questo governo, emanare uno strumento ottuso e fuori dal mondo come il Decreto Caivano?
Flavio Rossi Albertini, l’avvocato penalista che ha fatto da consulente agli autori nell’analisi della vicenda giudiziaria, si chiede: «è legittimo punire chi non è stato posto nelle condizioni di non sbagliare perché abbandonato a se stesso, in una situazione di degrado socioculturale?».
Con lui si interrogano gli autori: “Se a una violenza che interpretiamo come sistemica opponiamo un sistema di pena come quello del carcere, che invece di essere rieducativo è persino criminogeno, cosa abbiamo ottenuto? Come si fa a onorare davvero la memoria di Willy a partire da quell’istinto al bene che proprio lui ha mostrato anche negli istanti prima di morire?”.

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