di Paola Giacomoni

 

Ho reagito alla notizia dell’agghiacciante attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso con sorpresa e incredulità, oltre che con orrore e sgomento, e mi sono chiesta come mai, dopo anni di silenzio del popolo palestinese, improvvisamente si levasse una voce terrorizzante e distruttiva, una voce di odio e di violenza, senza pretesto apparente che la rendesse comprensibile. Dalle informazioni nei giorni seguenti è apparso chiaro che veri e propri motivi scatenanti non c’erano, e che cause e fini generali erano gli stessi di sempre, cioè la volontà di Hamas di distruggere un nemico con cui non si è disponibili a trattare e che va semplicemente eliminato, sullo sfondo di un disagio profondo del popolo di Gaza che da decenni vive in condizioni disumane.

Il grado di violenza raggiunto, le modalità dell’attacco presentano tuttavia qualità ancora poco comprensibili, dato almeno il fatto che era ovvio che questo avrebbe suscitato una reazione fortissima da parte di Israele, già in atto di fatto con i bombardamenti e che si svilupperà, pare, in un’azione di terra, a sua volta mirata a eliminare Hamas. Sembra di intravvedere un elemento di follia in un’azione terroristica di questo tipo, di cui non è facile comprendere la logica, dato che la distruzione di Israele non sembra essere ottenibile con atti di questo tipo, di valore principalmente dimostrativo, che vanno dunque interpretati in altro modo. Gli studi recenti sul terrorismo, come quello estremamente lucido di Louise Richardson, What terrorists want. Understanding the enemy, containing the threat, Random House, 2007 ci avvertono che occorre non sottovalutare la logica degli attentatori derubricandola a irrazionalità, e che invece è necessario identificare mosse, strumenti e scelte di tempo all’interno di una strategia ben definibile, che accomuna molte versioni storiche del terrorismo, in vista di una maggiore comprensione del fenomeno che aiuti, se non a eliminarlo, almeno a limitarne la minaccia. Alcuni concetti, riferiti a molti casi di terrorismo internazionale (l’autrice, vicerettrice a Oxford, è di origini irlandesi), mi sembrano molto utili per comprendere quanto sta accadendo, soprattutto se si prova capire la prospettiva entro cui la mentalità del terrorista si muove e quindi agisce, al fine di governare o limitare in qualche modo il fenomeno.

Anzitutto i dati raccolti raccontano che chi diventa terrorista non è una persona anormale o mossa da odio cieco e impulsi irrefrenabili, anche se tali ci appaiono gli atti: si tratta di individui del tutto normali, spesso forniti di istruzione superiore, che vengono attentamente selezionati, addestrati e supervisionati dall’organizzazione terroristica in vista degli attacchi, compresi quelli suicidi. Anche dietro la strage del 7 ottobre c’è una strategia riconoscibile che adegua i mezzi ai fini, per quanto disumani, distruttori e violenti possano essere, e questo presuppone una meticolosa preparazione che addestra tecnicamente e motiva ideologicamente i militanti all’azione. Sbagliato parlare di un’esplosione improvvisa di violenza insensata dunque: si tratta di scelte attentamente pianificate da tempo, come dimostra anche la scelta del momento, l’anniversario dei cinquant’anni di Yom Kippur.

Si può affermare che perché nasca il fenomeno terroristico, nelle sue diverse versioni storiche, occorrono in generale alcuni ingredienti principali: anzitutto un vissuto di disaffezione personale rispetto alle condizioni di vita, ritenute indegne di un essere umano, e dunque da cambiare con ogni mezzo; fondamentali inoltre la presenza di un gruppo che condivide e sostiene questo atteggiamento e infine un’ideologia che lo legittima. Spesso giocano un ruolo importante esperienze personali di umiliazione, di frustrazione, dettate spesso da aspettative sollecitate e non soddisfatte, che vengono poi considerate comuni a un gruppo o a un popolo. L’organizzazione fornisce senso al vissuto di alienazione, trasforma la rabbia in azione, consente di identificare il nemico e predispone una strategia.

Un radicale cambiamento della società, la necessità di raddrizzare le ingiustizie, in vista di un’organizzazione politica diversa, spesso a guida religiosa, è sempre l’obiettivo finale, ma si tratta di idee-guida spesso generiche e poco definite dal punto di vista di come tale società in specifico dovrebbe essere strutturata. Esse tuttavia sono il presupposto indispensabile dell’azione, soprattutto in tempi come questo in cui l’Occidente viene visto da più parti come un nemico in fase di declino, i cui valori sono percepiti come decadenti, opposti a quelli ispirati alla purezza e all’integralismo che motivano i militanti. È possibile inoltre individuare obiettivi secondari che danno per scontato il fine generale dell’azione e orientano l’esecuzione materiale dell’attacco, come ad esempio la delegittimazione dell’avversario, ottenibile mostrando la sua debolezza nell’incapacità a proteggere i cittadini, come è effettivamente avvenuto in questo caso, o come la capacità di dare corpo alla vendetta di chi si sente umiliato, o ancora l’ottenimento di particolari concessioni, come quelle di liberare compagni imprigionati.

Ci sono inoltre altri due elementi essenziali all’interno della mentalità del terrorista, che ci sorprendono e che spesso fatichiamo ad afferrare. Il primo è un’esigenza di spettacolarizzazione: attraverso l’attacco violento, l’azione, sostanzialmente dimostrativa, mette improvvisamente in mostra che i disperati del mondo, o di quel mondo in specifico, benché dimenticati o sottovalutati, sanno far sentire forte la loro voce e il loro rifiuto di sottomettersi, anche se ciò si esprime con le modalità più efferate. L’importante è che l’azione sia efficace, che diventi un evento internazionale indimenticabile, anche se non si dispone di elevata tecnologia, come è avvenuto con il volo dei parapendii verso il kibbutz Be’eri  vicino a Sderot il 7 ottobre o nel ben noto caso dei coltellini nell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Decisivo è qui l’elemento simbolico: non importa se la singola azione non può distruggere il nemico. Quello che conta è mostrare, nel modo più eclatante, nel modo più impressionante, che le persone che si percepiscono deprivate o umiliate, in nome delle quali il terrorista agisce, non hanno perso la loro capacità di agire, e sono grado di porre al centro della scena qualcosa che era stato a lungo messo in ombra.

La partecipazione a questo tipo di azioni efferate si traduce per il terrorista in una sorta di aumento di status: finalmente può liberarsi da una vita insignificante e deprimente,  assurgendo a eroe che vendica le umiliazioni di un popolo e indica con i fatti la possibilità di cambiare. C’è una sorta di codice d’onore dietro alla partecipazione agli attacchi, e dunque non pochi sono coloro che si candidano, perché ciò che si produce è un aumento dell’autostima: si prende parte a qualcosa di fuori dall’ordinario, che può cambiare radicalmente la situazione di un popolo e forse può segnare una svolta storica. Soggettivamente questo può essere vissuto come una prova del proprio valore, come la partecipazione a una grande avventura, che fornisce nuovo significato alla vita del singolo, fino allora ordinaria e trascurabile. Questo tipo di aspettative di gloria e di successo giocano un ruolo decisivo nel motivare all’azione all’interno di una strategia efficace anche se rischiosa.

L’altro aspetto paradossale è che questo tipo di azioni sono pensate consapevolmente per suscitare una reazione: si dà cioè per scontato che l’attacco causerà una reazione violenta da parte del nemico, la si mette nel conto e anzi la si sollecita perché in tal modo il nemico mostrerà la sua vera faccia, farà mostra della sua inumanità, della sua crudeltà e ferocia, attirandosi un odio inestinguibile da parte della popolazione che subisce. Chi ci rimette dunque è il popolo in nome del quale si intende agire e il cui valore umano dunque non è al primo posto, mentre chi  ci guadagna è il prestigio dell’organizzazione terroristica, la cui capacità di agire viene immensamente estesa. Nonostante il cinismo di questo atteggiamento che mette nel conto i danni, il terrorista pensa se stesso come coraggioso, capace di affrontare una sfida per la vita e per la morte: la convinzione di agire per una giusta causa e per un popolazione che soffre rende il vissuto del terrorista quello di chi si sente, per paradosso, moralmente superiore al nemico, che invece è potente, corrotto, insensibile alla sofferenza dei più deboli e dunque disprezzabile.

Mettere a repentaglio la propria vita è sentito come un gesto di eroismo estremo, una motivazione potentissima per persone con vissuti di umiliazione che desiderano essere riconosciute come meritevoli di valore e di ammirazione, sostegni psicologici che il gruppo di cui fanno parte è pronto ad offrire. Naturalmente questo significa che il modo di ragionare è tipicamente binario: amico/nemico, buono/cattivo, puro/corrotto, senza sfumature e senza distinguo individuali: le opzioni di principio sono indiscutibili, proprio nel senso che non vengono discusse e si agisce in base a una fede incrollabile nella purezza  del loro valore assoluto. Solo in base a queste motivazioni, davvero lontane dai valori occidentali della tolleranza e dei diritti individuali, si è disponibili a mettere a repentaglio la propria vita.

E non solo: si è disponibili a distruggere quella degli altri, dei nemici, che sono visti non come individui, ma solo come espressione della vera natura del nemico, come esempi di negatività. Si può assassinare nei modi più crudeli, come è accaduto con la decapitazione dei bambini nel kibbutz Kfar Aza, perché il nemico è totalmente disumanizzato, privato della dimensione personale, tenendo a freno così il sentimento di empatia per il simile: sono solo nemici da distruggere, pure espressioni del male.

Come tutti i commentatori hanno sostenuto, Hamas come organizzazione con queste caratteristiche non rappresenta il popolo palestinese, non esprime il desiderio di vita e di normalità sicuramente presente nella maggioranza della popolazione di Gaza, ma certo ne fa sentire la voce, anche se per i modi in cui avviene suscita in noi una reazione di repulsione e di totale condanna morale. Come si svilupperà l’azione di Israele non è ancora chiaro, ma quello che è certo è che Hamas non è un esercito regolare che può essere battuto in una battaglia dopo la quale si può siglare una pace, ma è una minaccia endemica che può essere solo contenuta nella sua capacità di agire, come in parte è stato fatto con l’Isis, e che soprattutto dovrebbe essere limitata nella sua capacità di essere cassa di risonanza dei problemi dei palestinesi, se si evita di fare il loro gioco, rispondendo con un genocidio che allontanerebbe, anziché avvicinare una soluzione a una questione storicamente delle più complesse.

19 thoughts on “La mentalità del terrorista

  1. Quando leggo articoli come questo non riesco a trattenere un sorriso: “agghiacciante” l’attacco, reazione di “incredulità e sorpresa”, poi l’informazione che “chi diventa terrorista non è una persona anormale” e via dicendo sul piano della Superiorità Culturale di noi europei, pacati e votati alla riflessione e alla filosofia e quindi tanto scandalizzati.

    Eh sì, perché la Verità e la Democrazia stanno sempre e comunque da una parte sola – guarda caso, la nostra.

    Bibliografia consigliata (anzi è un film): The Gatekeepers (2012). Si trova su youtube (sconsiglio la versione italiana doppiata molto male):

    https://www.youtube.com/watch?v=taRP6vnx6aA

    Per esempio, a partire da 1h34′.

  2. Condivido totalmente lo spirito del messaggio di Claudio. Nel tentare di comprendere il comportamento di altri (se è davvero questo che si cerca di fare), bisognerebbe per prima cosa riconoscere a questi altri, se non altro in partenza, la stessa razionalità che attribuiamo a noi stessi ed evitare di psicologizzarli, adottando nei loro confronti un atteggiamento di superiorità, questo sì davvero moralmente intollerabile (vedi per esempio “la partecipazione a questo tipo di azioni efferate si traduce per il terrorista in una sorta di aumento di status: finalmente può liberarsi da una vita insignificante e deprimenteale”; “Mettere a repentaglio la propria vita è sentito come un gesto di eroismo estremo, una motivazione potentissima per persone con vissuti di umiliazione che desiderano essere riconosciute come meritevoli di valore e di ammirazione”). I cosiddetti terroristi hanno nemici, esattamente come noi; come noi li combattono e come noi assegnano a questa lotta obiettivi a breve e a lungo termine e la giustificano appellandosi a valori; come noi usano armi; come noi, nel farlo, si aspettano una reazione del loro nemico; e nel fare tutto questo si pensano e pongono in rappresentanza di altri – di un popolo, di una nazione, di una classe; non, figuriamoci, lo facciamo in nome dell’umanità! E’ solo perché fanno tutto questo con grande serietà e determinazione (la stessa nostra) che possono pensarsi degni di stima e ammirazione (la stima è un effetto secondario non intenzionale, come il sonno, come il credere: non la si può perseguire in modo diretto). Esattamente come noi. Lo dico sinceramente: vorrei riuscire a capire come si senta o si pensi chi riesce a guardare al resto del mondo con tanta tranquilla sicumera quanto quella tradita dal testo “La mentalità del terrorista”. E del tutto a torto!

  3. Questo articolo è un insulto all’intelligenza critica. Non è possibile usare il termine ‘ terrorista’ come se il suo senso fosse di per sé evidente e non contestuale, non politico. Che dire poi del giudizio, anch’esso senza alcuna riflessione storica, secondo cui l’attacco di Hamas sarebbe: “una voce di odio e di violenza, senza pretesto apparente che la rendesse comprensibile. Dalle informazioni nei giorni seguenti è apparso chiaro che veri e propri motivi scatenanti non c’erano”. Lasciamo Repubblica scrivere cose di questo tipo…. Per di più mal informato perché come si può leggere nello statuto di Hamas reso ufficiale nel 2017, si riconosce l’esistenza di Israele e si chiede il ritorno ai confini del 1967 (vedi soprattutto i punti 12, 16 et 20). Per qui vuole informarsi qui il link dello statuto https://www.middleeasteye.net/news/hamas-2017-document-full

  4. “nel fare tutto questo si pensano e pongono in rappresentanza di altri – di un popolo, di una nazione, di una classe” (Paola)
    Hanno ricevuto mandato?

  5. Certo non immaginavo che scrivendo un articolo in cui sostengo che la mentalità dei terroristi non è irrazionale avrei avuto osservazioni come queste in cui sembra che io li tratti come subumani. Che poi siano “come noi” in quanto a motivazioni, uso delle armi e obiettivi questo davvero mi appare assurdo. Io ero a Trento al tempo delle prime contestazioni, anche se ero più piccola, e conoscevo, anche se non di persona, Curcio e Margherita Cagol. Sapevo bene in quale ambiente erano nate le BR, quello della contestazione studentesca, di cui anch’io, come molti, facevo parte. Ma nel salto “quantico” della clandestinità e della violenza non era più possibile riconoscersi, loro non rappresentavano più il mondo da cui erano nati (e per questo la loro parabola fu breve). Sapevo benissimo cosa pensavano, ma le loro scelte erano totalmente estranee alla logica della critica sociale ed entravano in quella del terrorismo, che mai avrei potuto condividere, benché ne comprendessi i presupposti. Non erano più “come noi”. Davvero sarebbe ostentare superiorità occidentale cercare di capire qualcosa di questi fenomeni sulla base delle migliori ricerche, come quella che ho citato?

  6. @paola: concordo, disumanizzare l’avversario è un passo ineludibile e lo facciamo tutti, vero. E questo articolo è un capolavoro del genere: i militanti di Hamas diventano oggetti da studiare, alieni, roba che starebbe bene in un manicomio.

    @paola giacomoni: dice, sì, ma allora perché fanno quel che fanno? Ma santa la madonna, non lo farebbe chiunque, dopo 50 anni di reclusione in uno spazio grosso come Napoli, e sottoposto a una guerra civile a bassa intensità?

    Del resto – cito direttamente le parole di Ami Ayalon da The Gatekeepers (circa 1h09′):
    “[un mio conoscente palestinese, uno psichiatra, mi disse] Ami, alla fine vi abbiamo sconfitti. Io risposi: sei matto? che vuol dire che ci avete sconfitti? Vi stiamo ammazzando tutti, state per perdere quel pezzettino di Stato che vi appartiene, e nel lungo termine perderete tutto. Che razza di vittoria sarebbe questa? E lui mi rispose: Ami, io non ti capisco, dopo tanti anni non ci avete ancora capiti: per noi la vittoria è *vedervi soffrire*. È tutto ciò che ci interessa.”
    Ascoltate attentamente anche il minuto successivo, è altamente istruttivo.

  7. Trovo l’analisi sulla mentalità e la psicologia del terrorista sicuramente interessante e plausibile, tuttavia l’articolo parte da premesse sbagliate perché premesse “strabiche” in quanto totalmente basate sulla percezione occidentale degli ultimi due decenni di quanto avviene in Palestina e nello stato di Israele.

    Questa frase è esemplificativa: <>.

    Il popolo palestinese non è silente da anni, semplicemente il popolo palestinese non fa più notizia sui media occidentali da anni e come ben sappiamo ciò che non è sui media per la pubblica opinione semplicemente “non esiste”.
    L’esplosione di violenza non è affatto improvvisa, ciò che è stato improvviso è stato il crollo del muro con cui Israele ha “murato” dentro la striscia di Gaza i palestinesi.

    Chiunque sapesse un po’ come funzionavano le cose da qualche anno a questa parte sa che Israele ha “rimosso” il problema palestinese “murando vivi” i palestinesi dentro Gaza e costruendo il sistema missilistico Iron Dome per neutralizzare i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza verso Israele.

    Senza il muro attorno a Gaza e senza Iron Dome, la violenza vista in azione il 7 Ottobre 2023 sarebbe stata la quotidianità della Palestina negli ultimi vent’anni.

    L’idea di rimuovere un problema “murando vivo” un popolo dentro una sorta di “riserva indiana” non può che finire male perché si tratta di una soluzione temporanea che inevitabilmente finirà male: o il muro prima o poi crolla e la rabbia dei murati dilaga come un fiume in piena, o vengono sterminati i murati come sono stati sterminati i pellerossa del Nordamerica.

    In questo contesto di milioni di persone “murate vive” dentro Gaza parlare di <> suona come una proposizione lunare: non ci sono nemmeno i presupposti minimi per iniziare a limitare il terrorismo.

  8. Attribuire razionalità significa attribuire intenzioni (c’è un soggetto che ha obiettivi, che esamina le circostanze in cui si trova e sceglie l’azione che gli sembra la migliore in quelle circostanze), non individuare cause che muovono : “il vissuto di disaffezione personale”, “la presenza di un gruppo”, “le esperienze personali di umiliazione”, le “aspettative sollecitate e non soddifatte”, “il vissuto di alienazione”. Non basta enunciare un pricipio (secondo capoverso), peraltro con qualche “cedimento”. Lo si deve anche applicare. Che ne direbbe l’autrice se spiegassimo le sue azioni (almeno quelle importanti) con cause psicologiche del tipo citato qui sopra, con i dovuti adattamenti naturalmente? E poi bisognerebbe saper distinguere l’individuazione delle intenzioni, oggetto delle scienze sociali storia compresa, dalla valutazione morale di queste azioni. E affrontare questa valutazione, davvero molto complicata, con un po’ di serietà. Non è sufficiente applicare i propri principi agli altri; talvolta è necessario anche sottoporre a un riesame questi stessi principi. Non è morale degradare gli altri a esseri mossi da cause psicologiche esse stesse degradanti; non è morale considerare gli altri inferiori; non è morale vedere il male in loro e non in noi (vedi per fare solo un esempio la questione della spettacolarizzazione ). La presenza nel mondo di popoli con idee profondamente diverse sul modo giusto di vivere pone problemi molto seri. Democrazia significa applicare ovunque e a tutti i costi il principio dell’ingerenza umanitaria o immaginare forme di convinvenza tra diversi? Significa portare il bene o accettare il pluralismo?

  9. Mi sembra che questa appassionata difesa dei diversi sposti un po’ il problema. Sarebbe bene definire cosa si intende per terrorismo. Credo che nella percezione comune per terrorismo si intenda soprattutto l’uccisione di persone a caso, nel più alto numero possibile, appartenenti a classi, religioni, nazioni o intere pari del mondo (Occidente) individuate come nemiche e combattute con questo sistema “alternativo” da parte di singoli o organizzazioni spontanee e comunque non facenti capo ad alcun organismo politico riconosciuto. In questo senso, il terrorismo è difficile da mandare giù.
    Non mi pare che i fatti del 7 ottobre, nonostante l’efferatezza (se Claudio mi concede il termine), rientrino in questa definizione. Non sono un atto terroristico ma un episodio di guerra, odioso fin che si vuole, scorretto fin che si vuole, ma inserito in un chiaro contesto di belligeranza in cui il nemico è altrettanto odioso e scorretto. In questo senso l’articolo di Giacomoni mi è parso più che altro intempestivo.

  10. Parlare di vissuti di umiliazione o di disaffezione non è certo degradante, e certamente li ho provati anch’io come tutti in certe situazioni e nemmeno raramente. Alcuni dei miei comportamenti ne sono stati causati, e talvolta hanno prodotto reazioni proporzionate, altre volte reazioni rabbiose, spesso controproducenti. In generale la rabbia nasce sempre come reazione ad un’ offesa sentita come immeritata e mira a ripristinare la giustizia, e tante volte mi è stata alleata in situazioni difficili (ci ho anche scritto dei libri) mentre l’odio mira semplicemente a distruggere l’avversario, che si vuole solo eliminare. Se poi si costruiscono sull’una o sull’altro (e soprattutto quest’ultimo) strategie militari o terroristiche che mirano a distruggere il nemico (e questo ora lo vogliono sia Hamas che Israele) questo può e deve essere oggetto di condanna morale. Per la spettacolarizzazione: anche qui non si trattava di una condanna, volevo solo chiarire come le azioni dimostrative che si vogliono efficaci devono avere il maggior impatto mediatico possibile in modo da sollevare il problema all’opinione pubblica, certo a costo di azioni violentissime come in questo caso, che forse non in molti siamo disposti ad avallare. Questo non spiega tutto, e non è possibile farlo in un articolo breve, e per questo raccomando la lettura del libro che ho citato e mi ha molto ispirato “What Terrorists want” di Louise Richardson, che, in quanto profonda conoscitrice del terrorismo irlandese, ha contribuito a comprendere meglio il fenomeno e anche a predisporre azioni per limitarne la portata.
    Far analisi approfondite è il primo compito di un’umanista, prima di pretendere di dire chi ha ragione in questi casi così complessi. Infatti il mio non era un tentativo di schierarmi contro i palestinesi, che certo soffrono di più e da molto tempo, ma di capire un solo aspetto di questo conflitto, relativo alla fenomenologia del terrorismo.

  11. L’autrice dell’articolo difende le sue tesi comparando le scelte delle BR e della lotta armata in Italia con l’attacco di Hamas. Anch’io allora criticai, e critico tuttora quella scelta. Ma il paragone non ha senso. In Italia non c’era una colonizzazione forzata in corso. Se proprio si volesse fare un paragone è con il periodo della Resistenza che esso andrebbe fatto, e allora probabilmente tutta la retorica psicologizzante sul terrorismo si svuoterebbe da sé.

  12. @violante ruggeri: concordo pienamente.

    da buon ingegnere sintetizzerei come segue: quello che A chiama terrorista, B lo chiama freedom fighter.

    forse che i nostri Partigiani non erano i terroristi dei nazi, nel 1944?

  13. Non so come si possano mettere sullo stesso piano Hamas e i partigiani. Forse che i partigiani italiani hanno mai fatto un’azione contro i civili anche lontanamente paragonabile a quella del 7 ottobre ? Schierarsi é davvero l’unica cosa che si può fare di fronte a una situazione così complessa?Forse é utile capire prima di giudicare. E evitare analogie storiche insostenibili.

  14. @Paola Giacomoni: “Non so come si possano mettere sullo stesso piano Hamas e i partigiani”.

    Sono convinto che lei sia in buona fede quando sostiene di “non sapere” come si possa fare – eppure non ci vorrebbe tanto. Se fossimo in Irlanda durante le Troubles, lei che cosa scriverebbe? Sarebbe “agghiacciata” per le bombe dei repubblicani nei pub, o per il trattamento disumano riservato a Bobby Sands in carcere? Scriverebbe un articolo in cui analizza con i suoi parametri sociologici la “mentalità” dei militanti dell’IRA? Io dico che dipenderebbe da quale fosse la sua parte.

    Non mi è chiara la sua frase, peraltro: “schierarsi è proprio l’unica cosa da fare”? Schierarsi è esattamente ciò che NON bisogna fare, ed è esattamente quel che lei fa, disumanizzando i membri di Hamas e mettendoli sotto la lente dell’entomologo.

    E qui torniamo al concetto che citavo nel mio primo commento, la superiorità culturale.

    Accetti il mio consiglio: sprechi due ore del suo tempo e guardi The Gatekeepers. Le si aprirà un mondo.

  15. Vorrei provare a proseguire sulla scia degli ultimi commenti di Claudio e Paola Giacomoni. Prendiamo un gruppo di individui relativamente omogeneo per interessi, per esempio gli italiani nel ’44-’45, escludendo perciò i nazisti tedeschi che possiamo immaginare perseguissero interessi lontani per aspetti importanti anche da quelli dei nostri fascisti. Cosa spinse alcuni italiani a sostenere i partigiani e altri a considerarli attentatori sovversivi? O prendiamo un gruppo ancora più omogeneo: gli italiani di oggi di fronte alla guerra ora in corso in Israele (più omogeneo rispetto alla guerra, ovviamente, se non altro perché composto di persone in grande maggioranza non coinvolte in essa in modo diretto). Cosa ha portato alcuni di noi a schierarci per Israele e a considerare agghiaccianti, terrorizzanti e orrendamente distruttive le azioni di Hamas e altri a ricondurre queste azioni nel contesto di uno scontro in corso da anni in cui è Israele ad essersi macchiata delle violazioni più gravi? Dobbiamo pur cercare di spiegarci perché la prof. Paola Giacomoni la pensa come la pensa; e lo stesso fa del resto Paola Giacomoni, e con la nostra stessa incredulità e costernazione, riguardo a noi commentatori. È chiaro che i fatti da soli non bastano: quanto indietro si deve andare nella catena degli avvenimenti, quanto peso è giusto dare a questo o a quel fatto? Il disaccordo si ripropone tale e quale a ogni passaggio. Ma nessuno di noi ha verificato la tenuta della “teoria” politica o della giustizia alla luce della quale seleziona i fatti supposti rilevanti spingendosi fino a esaminarne i fondamenti razionali o a ricercarne le basi oggettive (ammesso che questi fondamenti e basi esistano; filosofi importanti lo escludono). A quanto pare, non è così che aderiamo alle nostre teorie. Prigionieri di noi stessi, lo facciamo, credo, colti o incolti, riflessivi e impulsivi, sulla scorta della nostra esperienza del mondo, della nostra partecipazione e/o identificazione e immedesimazione in gruppi sociali specifici. E penso anche che a identificare oggi i gruppi sociali rilevanti non siano, come spesso si dice per una specie di pigrizia del pensiero, in primis le disuguaglianze economiche, bensì proprio gli atteggiamenti di superiorità e serena grande opinione di sé che accompagnano lo strapotere delle nostre élite portatrici del Bene nel mondo e paternalisticamente (il)liberali in patria, troppo a lungo abituate a non essere sfidate, e che esse hanno preso a manifestare senza ritegno. Una parte di noi non riesce più a tollerare la tranquilla sicumera di queste élite, il disdegno quasi disattento e inconsapevole, tanto è ormai connaturato, per quelli con poca cultura, i mal vestiti, i privi di gusto, gli straccioni, i pigri, i grassi, i meridionali e le domestiche in patria, e gli sconfitti nel resto del mondo: l’arrogante sicurezza delle sentenze di Biden sul bene e il male, le compassate considerazioni di Molinari, le acutissime analisi degli economisti sugli incentivi da introdurre perché le azioni di questi si allineino con le azioni di quelli. Ecc. ecc. Non sopporta più il cieco senso di superiorità che induce a presentare i militanti di Hamas come marionette dell’Iran e i propri – Israele e gli Usa – come alleati (i terroristi non aderiscono alle loro organizzazioni, sono selezionati, motivati ideologicamente da queste, dice Giacomoni: solo noi occidentali (insieme a Israele) aderiamo e scegliamo). Qualche giorno fa, la giornalista di turno a Prima pagina ha lodato per la sua dignità un infermiere in pensione che raccontava delle sue fatiche sul lavoro e delle sue fatiche a tirare avanti ora: ma mentre gliela riconosceva, questa dignità, gliela negava! Solo che questo lo vediamo noi, noi che stiamo da questa parte. C’è decisamente qualcosa che non va nelle nostre democrazie. Pare che al tempo di Voltaire una certa signora Duchâtelet non avesse difficoltà a spogliarsi davanti ai suoi domestici non ritenendo cosa bene certa che anche i domestici fossero uomini. Lo racconta Tocqueville.

  16. Mario: La situazione era molto diversa, c’era però stato e probabilmente erano ancora in atto tentativi di golpe fascista, il famoso “Golpe Borghese”, i golpi sono spesso metodi di colonizzazione politica da parte degli stati uniti, come in Cile e in Argentina, Moro e Berlinguer stavano stringendo un’alleanza quale il “compromesso storico” invisa agli “alleati”. E’ vero gli attentati a civili fanno più parte del terrorismo nero come la stazione di Bologna, le BR colpivano obiettivi politici, ma che avessero preso di mira Moro torno utilissimo a riallineare l’Italia ed al reflusso. Le BR erano estremisti stalinisti.
    Penso che Hamas, molto diversa, sia anch’essa l’utile idiota, tant’è che Netanyahu la potenziò indebolendo Fatah, i quali, come Arafat, volevano la soluzione a due stati. Ma con essi non hanno mai trattato poichè ai coloni non andava la restituzione dei territori occupati, anzi hanno continuato a colonizzare la Cis Giordania e Trump diede loro un ulteriore benedizione, simbolica e non solo, con l’ambasciata israeliana spostata da Tel Aviv a Gerusalemme, il consolidamento dell’idea di ignorare del tutto la Palestina e non riconoscerla.
    Come dice Guterres, Hamas non è nata dal nulla, si è rafforzata in conseguanza di decenni di occupazione, per quanto i suoi orrori non sono giustificati, ricordando che è un’organizzazione fascio islamista. Un parallelo: anche Azov è nazista ma sa combattere bene, così pure i Mujaheddin sono stati utili a scacciare i russi per gli stati uniti, poi ovviamente è esplosa in mano, così pure l’Isis quando la usarono contro Assad. Poi hanno usato i curdi contro l’Isis e dopo li hanno abbandonati a Erdogan.
    Mi rendo conto che così divago, ma il parallelo è che Hamas è come il Barabba che viene preferito a Gesù, mi si perdoni, perchè “sapeva combattere”. Lo conferma anche lo stratega di Ariel Sharon, è stata armata con il benestare di Israele (nel senso di Likud e Netanyahu, non il popolo) per indebolire sia militarmente che politicamente Anp, Olp e Fatah, perchè è il nemico spaventapasseri più comodo, si può dire che sono gli islamisti cattivi, antisemiti, che vogliono la fine dello stato israeliano e che in fondo tutti gli islamici sono uguali e anche i palestinesi perchè la sostengono.
    E’ vero possiamo e magari dobbiamo definirli terroristi perchè si abbassano a sgozzare bambini e a bruciare civili, ma molti paesi hanno definito terroristi anche il Pkk nonostante i suoi obiettivi siano pressochè sempre militari, ma agiscono come agisce quasi sempre chi è in inferiorità militare. Lì terrorismo è l’accusa di “giocare sporco”. Quindi la crudeltà non è sempre la discriminante quando si fa tale distinzione, questa è la parte in cui chi relativizza ha ragione anche se non la condivido del tutto.
    Chiediamo a Gaza di condannara questo mentre è messa a ferro e fuoco, dopo anni però che migliaia di palestinesi morivano ogni anno ignorati dai media.
    Se vogliamo che isolino Hamas, dobbiamo innanzitutto fare pressione per le dimissioni di Netanyahu, e perchè si impegnino a dare ai palestinesi uno stato e il ritiro da molte delle colonie, sennò sembra davvero che la contropartita sia isolate hamas e fatevi occupare altrimenti ci arrabbiamo.

  17. Ricordiamo inoltre che Fatah era ed è un’organizzazione laica, ma purtroppo anni di geopolitica occidentale scellerata hanno reso il mondo islamico vulnerabile alla radicalizzazione. Ci stupiamo che accada se qui basta qualche attentato e subito ci vuole “l’uomo forte?”, figuriamoci in medio oriente.

  18. Sergio Romano vede una forte somiglianza tra l’uso di “terrorismo” e l’uso di “fascismo”, entrambi termini inflazionatissimi. Il politologo, dopo averci ricordato che secondo Walter Laqueur esistono più di cento definizioni di terrorismo, scrive che “l’espressione ‘Stato terrorista’, in particolare, è ormai l’etichetta frequentemente usata, anche dagli Stati Uniti, per screditare e disumanizzare il Paese con cui esistono divergenze apparentemente insormontabili”.

  19. @ Claudio Antonelli: e le faccio notare che le divergenze sono insormontabili solo fin quando non smettono di esserlo. Citofonare Venezuela.

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