di Massimo Raffaeli

In una delle scene capitali del suo film più claustrofobico, L’ultimo metrò (1980), François Truffaut inserisce, letto a voce alta da un regista ebreo in clandestinità a Montmartre nell’autunno del ’42, un passo che proviene dal pamphlet antisemita e filonazista che fu anche il massimo successo letterario dell’Occupazione: “Non contenti di monopolizzare gli schermi e i palcoscenici, gli ebrei si prendono le nostre donne più belle”. Destinataria della citazione è un’algida e sentimentalmente ambigua ma comunque stupenda Catherine Deneuve, qui attrice e moglie del regista, forse ignara del fatto che il libro si intitoli Les décombres (alla lettera “Le macerie”) e che rechi la firma di Lucien Rebatet, notista politico e critico cinematografico del più famigerato foglio collaborazionista, “Je suis partout”, il cui redattore capo, passato per le armi dopo la Liberazione, nientemeno è Robert Brasillach, anche lui cinefilo ante litteram e già autore di una pionieristica Histoire du cinéma (1935) con suo cognato Maurice Bardèche che invece scamperà al plotone di esecuzione presto divenendo un capofila del revanscismo neofascista nonché un teorico, se così si può dire, del negazionismo con l’infame Nuremberg ou la Terre promise (1948). Per crudele paradosso, Rebatet ha ritirato le copie del corposo libello il 16 luglio dello stesso ’42 e, mentre lo sta autografando a dozzine di esemplari in una libreria dei Campi Elisi, ad appena un chilometro di distanza le Waffen SS, coadiuvate da un manipolo di zelanti suoi connazionali, deportano migliaia di ebrei parigini nell’operazione che passerà alla storia come la Grande Rafle del Velodromo d’Inverno.

Senza essere ancora una celebrità, Rebatet è un esteta figlio del suo secolo, un dandy che la foto di quel giorno ritrae azzimato con tanto di papillon: nato il 15 novembre del 1903 a Moras-en-Valloire (nel Delfinato, un villaggio sulle Alpi non lontano da Grenoble, la città dell’amatissimo Stendhal), figlio di un notaio framassone ma cresciuto in un collegio dei padri gesuiti da cui trarrà un odio mortale per il cattolicesimo e per ogni cristianesimo, egli si è formato a Parigi nella redazione della “Action Française” di Charles Maurras, la couche destrorsa e antirepubblicana per eccellenza, per riconoscersi in via definitiva militante fascista dopo i tumulti golpisti in place de la Concorde del 6 febbraio ’34. Les décombres, libello politico in forma di autobiografia, testimonia del fatto che non è un reazionario ma, semmai, un nemico giurato della democrazia, sia nella versione borghese della Terza Repubblica sia in quella più avanzata e socialisteggiante del Fronte Popolare. Dirà di non avere mai avuto nel suo sangue neanche un globulo rosso democratico: lettore di Nietzsche e Spengler, accetta come una fatalità la diseguaglianza fra gli esseri umani, ammira Benito Mussolini e coglie nella fisionomia di Léon Blum tutti gli ibridi del complotto giudaico-massonico che ai suoi occhi porta ineluttabilmente alla decomposizione della società borghese e perciò all’avvento del comunismo. Il suo virulento antisemitismo, di segno diverso da quello desultorio e follemente rapsodico dell’amico Louis-Ferdinand Céline, assurge nel ’40 a teorema della Disfatta e legittima da un lato l’appoggio fanatico alle politiche filonaziste di Déat e dell’ex comunista Doriot, dall’altro spiega l’aperto disprezzo per il tradizionalismo reazionario, rurale e cattolico, della cricca di Pétain: nello splendido film documentario di un sodale di Truffaut, cioè L’oeil de Vichy (1994) di Claude Chabrol, mai distribuito in Italia, lo si vede per un attimo nella sequenza di un cinegiornale, pallido e minuto nel rigore mortuario di una cerimonia fra le camicie brune. Fuggiasco dopo l’insurrezione di Parigi, si aggrega nel castello di Sigmaringen agli spettri di Vichy prima di consegnarsi agli alleati il giorno della fine della guerra, l’8 maggio del ’45, da tempo braccato dalla Resistenza e colpito da mandato di cattura sulla base dell’art.75, “collaborazione e intelligenza col nemico”. Incarcerato a Fresnes, processato e condannato a morte, poi graziato dal governo Auriol, infine scarcerato nel luglio del ’52, riavvia in piena guerra fredda e sui fogli della destra (“Rivarol”, “Dimanche Matin”) una cospicua attività di critico cinematografico e musicale (wagneriano della prima ora, pubblica a tempo perso una divulgativa Histoire de la musique, ’69, che gli addetti ai lavori apprezzano molto), poi anche di notista politico e di memorialista: muore di infarto nel villaggio natale il 24 agosto del ’72, senza avere nulla abiurato dei propri trascorsi politici come attesta il seguito di Le décombres, un libro incompiuto che esce postumo in Francia nel ’76 e in Italia, nel ghetto editoriale dell’estrema destra, nel ’94 col titolo Memorie di un fascista 1941-1947 (a cura di Moreno Marchi, Settimo Sigillo).

Ora, che un individuo così immondo, un uomo tanto discutibile o, insomma, che una simile canaglia sia contemporaneamente stato un grande scrittore è un paradosso difficile da accettare ma tuttavia fondato su almeno due riscontri. In primo luogo (e questo da sempre lo si dice a bassa voce) Rebatet è stato un eccellente critico cinematografico (per nulla accecato dai pregiudizi e dai deliri del Rebatet ideologo) che infatti si firmava Francois Vinneuil con evidente omaggio a Vinteuil, il musicista proustiano. Al riguardo, in Francia da qualche mese è in libreria Quatre ans de cinéma 1940-1944 (Pardès, pp. 410, € 30.40), volume che riunisce le recensioni apparse su “Je suis partout” di questo amico dell’anarchico Jean Vigo e futuro accanito lettore dei “Cahiers du Cinéma”, già estimatore del noir americano e sperticato laudatore di due film che furono l’emblema del Fronte Popolare, La Grande Illusione e La Marsigliese di Jean Renoir, come puntualmente Rebatet  ricorda nelle sue Memorie: “A mio piacimento avevo così potuto lodare nel giornale dell’estrema destra i film bolscevichi ancora animati dallo spirito rivoluzionario, quelli dell’espressionismo ebreo-tedesco, le pagliacciate di ghetto dei Marx Brothers, le gesta dei gangsters americani, immagini del tutto estranee all’estetica mistraliana o neoclassica della Casa, ai costumi delle giovani ragazze monarchiche e alle loro quadrigenarie verginità”.

In secondo luogo (ma questo invece lo si tace da sessant’anni esatti) Rebatet è l’autore di uno dei più grandi romanzi del secolo, Les deux étendards, che nelle lettere francesi ha un posto d’onore fra il Voyage di Céline e la Recherche di Proust, milleduecento pagine uscite in semiclandestinità all’inizio del ’52 da Gallimard, tuttora in catalogo anche se mai tradotte in nessun’altra lingua, da sempre appannaggio dei cosiddetti happy few. I due stendardi evocati nell’insegna del romanzo che si sarebbe dovuto intitolare prima La teologia lionese e poi Né Dio né Diavolo, rinviano alle estremità inconciliabili, ideologiche nonché esistenziali, del Secolo Breve. Scritto in un’unica e possente presa di fiato, coi ferri ai piedi del condannato a morte, redatto in una lingua di scintillante polifonia e nello stile à la diable del venerato Stendhal, Les deux étendards aspetta ancora i suoi lettori in Francia e all’estero. E’ un romanzo dell’apprendistato e insieme la vicissitudine amorosa di un triplice percorso teologico-politico (due giovani di indole opposta i quali sono innamorati di una stessa donna, la fatale Anne-Marie) che George Steiner, il grande critico ebreo di origini francesi, così presenta ai lettori del “New Yorker” il 24 agosto del ‘92 (poi in Letture, a cura di Robert Boyers, Garzanti 2010): “Rebatet era un vero assassino, un cacciatore di ebrei, di combattenti della resistenza e gollisti. Mentre aspettava che fosse eseguita la condanna a morte (in seguito fu amnistiato), Rebatet portò a termine Les deux étendards.

Questo lungo romanzo si colloca tra i capolavori nascosti del nostro tempo. Inoltre è un libro di inesauribile umanità, traboccante di musica (Rebatet fu per un periodo il più importante critico musicale di Francia), d’amore, di comprensione profonda del dolore. La giovane donna che sta al centro del racconto non è meno plasmata dalle pressioni irradiate dal progressivo maturare della vita di quanto non lo sia la Natascia di Guerra e pace”.  Si tratta di un’opera scritta in stato di assoluta necessità interiore, dunque lontana anni luce, per estremo paradosso, dall’universo ideologico di Les décombres come dall’estetica dei Brasillach, dei Bardèche e della più o meno svergognata paccottiglia collaborazionista. Venticinque anni prima di girare L’ultimo metrò, memore delle stupende recensioni a firma François Vinneuil, pare che il giovane redattore dei “Chaiers du Cinéma” (la notizia è in Antoine de Baeque-Serge Toubiana, François Truffaut. La biografia, Lindau 2003) abbia voluto incontrare un Lucien Rebatet sorpreso e lusingato invitandolo a pranzo sulla Senna, a bordo di un bateau-mouche. Pare anche che Truffaut amasse suggellare ogni nuova amicizia donando una copia di Les deux étendards.

2 thoughts on “Truffaut e il capolavoro di una vecchia canaglia: Lucien Rebatet

  1. osservo che il silenzio sembra contagiare anche questo post,.
    Da parte mia, confesso senz’altro la mia ignoranza e sono grato a Raffaeli per le notizie che ci fornisce. Spero soltanto che alal fine ci sarà qualcuno che vorrà superare questa censura e tradurlo in italiano, dato che non sarei in grado di leggerlo nella lingua originale (altra ignoranza…).

  2. In questa giornata di lutto per l’Europa intera mi viene da pensare se non era possibile “un’altra Europa” dove un Rebatet non avrebbe avuto la necessità di scrivere sotto pseudonimo i suoi articoli di critica cinematografica. La guerra è stata persa, hanno vinto gli anglo-americani con il loro tragico fardello di affarismo che ha contaminato definitivamente il nostro continente trasformandolo in macerie piagate di venalità scandalose senza nerbo per combattere ma solo “bombardare”. Onore a chi ha creduto, pur tra errori marchiani, ad una Europa diversa.

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