di Alessandro Anil
[E’ uscito di recente per Samuele editore, nella collana Gialla di Pordenonelegge, Terra dei ritorni, una raccolta di Alessandro Anil. Ne presentiamo sei testi]
I
Non è necessario che mi ascolti. Non è importante. Le due rette parallele
di un binario si uniranno comunque, nell’infinito, e questo sangue
lasciato dall’ultimo sole, sembra fermarsi nelle arterie, sospensione
di un battito che non avrà una terra su cui mettere radici, declinando
per l’ennesima volta quel legame tra fragilità e bellezza.
Anche quel poco di natura rimasta, così lontana dalle foreste,
dalle tigri e contrabbandieri che popolavano i nostri sogni, si ritrae nella stanza.
L’inermità del riposo richiede la protezione della tana e questo
sia che si tratti del verme in coordinate misteriose o l’uomo che rientra
la sera per il nutrimento e il sonno. Niente è diverso, le stagioni
dei piccoli segreti sono intatte. torneranno vedrai, nella breve forcella d’ombra
lasciata ai margini della strada. Orione, le costellazioni dell’orsa
continuano a svolgere il loro corso fissati in un fotogramma eterno
e non dovrebbe sorprenderti se dopo tutto questo tempo sono ancora
qui, ad amare e soffrire, così inquietamente vinto, a chiederti
di lasciarmi entrare. Anche questo fa parte delle leggi eterne dell’universo.
Vedo l’inclinatura della nuca quando bevi, l’acqua scende
come un’accettazione, come la morte. Presumo sia questa la richiesta:
non la santità, ma la santità prima del peccato. Resteranno solo ombre,
solo ombre, mentre l’umidità sale dalla terra e i colori, le forme
iniziano a dissolversi. La notte è un oceano immobile come un ideogramma
con la sua particella di luce infinitesimale. Come osservare la fine
senza terminare con essa? Giù, nel frutteto, nell’ombra
ghiacciata dell’estate, c’è un luogo dove la migrazione degli uccelli sosta
qualche istante. Noi siamo il sogno di un animale appena addormentato.
II
Traducendo V. Holan
È strano incontrarsi proprio ora, con l’inizio della sera, metafora
di morte, ma anche di tranquillità, fine della fatica, quando vorresti
slacciare l’armatura e condividere cibo e alcol con i fantasmi del giorno.
È bizzarro che il nostro viaggio inizi quando ogni cosa sta tornando
verso il riposo, una lieve piantagione che si espande sul corpo
come una coperta al termine della stanchezza. Anche questo secolo,
discendente di Cartesio, della superficie limpida della tragedia,
erede delle grandi ideologie e del fallimento, si sta ritraendo
lasciando a noi le ombre che salgono, un punto nel globo dove il fiume
misteriosamente dà forma al tempo. Se la sospensione del dolore
fosse stasi, immobilizzerei i nostri corpi in prossimità al piacere,
nella dilatazione degli inferi e quindi anche nella sorgente.
Niente resterà qui, il freddo e le tenebre, un’ombra che si aggira
o l’illusione di un’ombra fra le rovine? Niente, niente
resterà, solo oscurità, sete e un vuoto primordiale, un torrente
che scorre fra le ossa di un vecchio continente. Lasciami entrare.
Venere, come sempre, la prima stella della sera, è la più luminosa
e il sole, questo grande protagonista del cielo ha la sapienza di scomparire
in qualche istante. Noi non abbiamo la sapienza di scomparire
in qualche istante, il mondo non ha i nostri rimpianti, siamo noi
a turbarlo con questo eccesso di cui non voglio farne a meno.
Lasciami entrare, oppure vieni, Amleto è con un poeta, amico,
a quest’ora avrà iniziato a friggere le alucce recise dai malleoli di Mercurio.
In comune, entrambi abbiamo avuto un padre che ha lasciato troppo
sulle spalle del figlio, ma anche una donna che ha tentato più volte il suicidio.
XIII
Ho infiniti ricordi che sono stati vicini nella tua assenza. te che bevi il latte
nuda in cucina e io penso a Eraclito, perdonami se penso spesso a Eraclito.
tenere uno dei suoi frammenti tra i denti mentre ci abbandoniamo al piacere
è stato un sogno da te realizzato, ma queste sono vecchie memorie
dimenticate e la solitudine, come sempre, è allontanarsi dai nomi
che si amano, nomi insonni, splendidi nomi che ci hanno accompagnato
fra le notti, nomi la cui assenza è più viva nel nostro corpo che nella memoria.
“Aprila”, disse mia zia prima della partenza, “quando ne avrai bisogno.”
Così feci. Un bracciale di ottone con due sillabe, una piccola incisione
che sull’altra riva del fiume non seppero riconoscere. Se il nome è destino,
allora uno sconosciuto in una piccola provincia della nostra capitale
decise che insieme alle scatolette di tonno era necessario un nuovo inizio,
omise un nome e ne dette un altro, una tabula rasa per iscrivere
le buone regole della nuova vita, ma vedi, amica mia, mi sorprende,
chiunque abbia camminato fra le strade di questa città a strati
chiamata Roma dovrebbe sapere che niente inizia veramente
e se c’è stato un cambio di scena tra l’intervallo e la ripresa
è perché la prospettiva è mutata. Il nome che tu conoscevi,
quello con cui sono partito e questo con cui ritorno, non coincidono.
La trama è la stessa, un uomo si ritrae nell’origine, ma gli attori
sono cambiati, uno ha sostituito l’altro finché l’oscurità ha alternato la sete,
ma queste sono vecchie storie che non interessano a nessuno e la notte
è ormai alle porte. Lasciami entrare. Lucrezio lo notava, le mani delle statue
si consumano al tatto umano. Un giorno imprecisato della vita, compresi
che anche il ferro a contatto con la pelle dell’uomo si consuma
e quel nome iscritto nel bracciale era stato inavvertitamente cancellato.
XV
A quest’ora, quando le ombre iniziano ad allungarsi con quella voglia
di migrare in un altro luogo della terra, quando il quotidiano impegno si ritrae
nelle mani e l’uomo torna nella casa come l’animale con la sua preda,
quando si ha la certezza che niente resterà fra me e te, anche queste variazioni
di luce, questi colori che intravedi, il rosso gradualmente passerà al viola,
infine, la metamorfosi delle sfumature lascerà il nero a testimoniare l’oscurità
di ogni passaggio. Quando niente resterà qui, non ci saranno vinti, né vincitori,
né animale, uomo o terra che segni un ritorno, si disperderanno i sentieri,
le strade a ritroso che pensavamo attenderci nelle emergenze,
anche la configurazione degli oggetti si confonderà in un’unica massa indistinta,
quando niente resterà fra me e te, soltanto le ombre che crescono dall’interno
delle foglie, dalle nervature, da ogni forma concava della realtà, da ogni
sensazione imprecisata che ci attraversa. Le tonnellate d’acqua continuano
a scorrere da una parte all’altra del mondo. Nell’altro emisfero, su altre
complicazioni umane inizia a farsi giorno. Così amore e odio si alternano,
confluiscono da un lato all’altro del corpo e quando per costante gravità
e movimento di pianeti si spengono le luci nella vita dell’uomo e non resta
né saggezza, talento, fede o forza, quando silenziosamente si cancella l’atrio,
il portone e il nostro sguardo inizia a ritrarsi, come se una mano
togliesse la polvere dallo specchio lasciando questa linea che lega la mia sete
al tuo polso, quando a furia di geometrie anche le nostre sagome
inizieranno a confondersi con la notte, quando niente resterà fra me e te,
quando anche la luce più piccola, quella che in altre circostanze
non avremmo notato, inizierà a risplendere come un sole, esattamente lì,
nell’oscurità più tremenda che dovremmo amarci. Lasciami entrare.
XIX
Come una nave in partenza verso l’assoluto non può che staccarsi
dalla superficie delle acque, così, sotto il giudizio implacabile della sete,
in un’altra sera come questa, quando alla fine dell’impegno quotidiano
l’uomo inizia a fantasticare della propria libertà, lasciai questa terra.
Un dio teneva le fila e se il confine orientale affondava nella notte,
se quel che nel buio sembra un punto era una cosa sola, una stella,
anni dopo, su una spiaggia del nord osservando piccoli granchi sbucare
dalla sabbia in cerca di fortuna, compresi che una stella se in movimento
potrebbe essere un aeroplano o forse, un satellite inviato dall’uomo
e che il tempo è così rapido a legare, così rapido a sciogliere che le mani
cercano sempre di nascondere la ferita, forse per questo abbiamo difficoltà
ad afferrare le dolcezze. Le ombre attraversano i vicoli a serpentina,
si nutrono con velocità inattesa della parte visibile della terra, i morti
si alternano come le grandi foglie sui promontori, le mie mani continuano
ad avere sete, io sono il tuo sangue, vorrei scorrere nel tuo corpo
e queste sono un po’ delle informazioni che avrei voluto darti una volta
dentro. Niente resterà qui, ho paura a distogliere lo sguardo
dai tuoi lineamenti, sono già stati smussati dalla notte, a breve, sarai anche tu
una sillaba pronunciata sulla soglia delle ombre. Lasciami entrare.
Quello che è giunto fino a qui, su questa riva, sono i legni spezzati
sopravvissuti al naufragio, come le armi di Achille tornate sulla tomba di Aiace,
così ritorno in questa terra senza più memoria. Cosa mi ha portato
fino a qui? Cosa avevo da dirti? Le mie mani sono ossessionate da te.
XXIV
Questo luogo lo conosciamo entrambi. Un semplice movimento del pensiero,
una mano che per esserti vicina ha continuato a cercare parole giuste.
Del più piccolo movimento muscolare, del leggero ticchettio fra le dita
o persino dell’inarcarsi del sopracciglio, restano minuscoli tracce di un movimento,
oppure, vorrai dire prove di un commiato, tenerissimo amore e sangue amaro,
ma entrambe, la traccia e la prova sono essenziali, movimenti ininterrotti,
il micro delle nostre storie, un linguaggio comune di questi paesaggi diversi
che sono insieme l’uno e l’altro, prove, ma non vogliono provare nulla,
semplicemente uno scambio di sguardi. So che ti sembra strano,
non poter dire da dove esattamente provenga questa voce. Se ti sembra un respiro
che abita luoghi di una terra remota e vicina, è perché siamo entrambi
nascosti, due matriosche che abitano l’uno nell’altro senza mai toccarsi.
Ci sono voci che ci tengono svegli la notte, voci che ci risvegliano al mattino
e spesso sono la stessa voce e se io sono tornato da te, è perché Ovidio
cantando il carro a buoi dell’invasione barbarica mise insieme Roma e la neve,
un accostamento particolarmente improbabile quanto necessario
per la bellezza del verso. Avrai capito benissimo che nella finzione eri la donna
che amo, a volte, un amico, forse anche me stesso, nella realtà una mano
che si avvicina a un’altra. Non so se riesco a spiegarmi. È come se rivedessimo
la nostra immagine, la nostra voce riprodotta da complicatissimi processi digitali.
Un demiurgo crea l’intero mondo per riconoscersi allo specchio
e quando alza lo sguardo vede la propria immagine rivolta di spalle.
Così, attraversando le gallerie, le anticamere di questa finzione ho compreso
che la donna che effettivamente amo si trova nell’altro emisfero e che ora
devo tornare da lei, devo ristabilire un mondo che mi attende. Ci incontreremo
in un altro cambio di treni, in una delle prospettive fugaci del nostro quadro quotidiano,
quando la vita offrirà un’altra delle sue pause scriveremo le nostre iniziali
su una spiaggia prima che la marea si alzi e se qualcuno ti chiede
con chi stessi parlando, dovresti rispondere nessuno, come Ulisse a Polifemo,
perché nessuno, oltre te e i cani della mia mente, devono sapere che qui sono stato.
ti saluto, questo sono io, a te ho voluto rivolgere queste parole, lasciami entrare.