di Antonietta La Manna

 

I ferri del mestiere, rubrica a cura di Antonietta La Manna

 

Se ripercorro i miei primi giorni di scuola come studentessa quello che mi rimane più facile riportare a galla è il primo giorno alle elementari (un tempo si chiamava così). Non ricordo i dettagli solo la malinconia che cominciai a provare nel momento esatto in cui mamma mi salutò per andarsene e mi lasciò, sola, con dei perfetti sconosciuti. Fin da subito la maestra si mostrò per quello che sarebbe stata negli anni successivi: una despota urlante pronta a bacchettare all’occorrenza.

Della scuola primaria non ho bei ricordi e provo una certa invidia quando sento gli altri raccontare in modo idilliaco delle loro maestre.

 

E provo una grande frustrazione quando penso che ancora oggi ci sono bambini e bambine, ragazze e ragazzi, costretti a subire esperienze simili alla  mia. Vorrei poter fare qualcosa, vorrei avere il potere di cambiare le cose, vorrei farlo per tutti ma negli anni mi sono rassegnata al fatto che forse posso farlo solo per alcuni.

Per questo negli anni ho maturato l’idea che sia importante “istruire” i ragazzi riguardo alla scuola, poiché temo che, come me alla loro età, non abbiano chiari  i loro diritti:  talvolta accettano con arrendevolezza le ingiustizie che subiscono, altre volte invece reagiscono con veemenza, non riuscendo a controllare la rabbia.

 

Quindi è importante per me parlare a scuola di scuola, raccontare ai ragazzi la storia della scuola (un libro che mi aiuta e che in passato ho già citato è quello di Vanessa Roghi Voi siete il fuoco, Einaudi Ragazzi, 2021) e fargli sapere che c’è stato, e per fortuna c’è ancora, chi ha lottato per una scuola diversa, una scuola democratica che si fa carico del benessere della comunità che la abita.

A proposito di comunità, la scuola così come è strutturata sembra esprimere in piccolo il modello statale, una grande comunità che accoglie tante piccole comunità. Il modello governativo è quello democratico, quindi i ragazzi venendo a scuola dovrebbero imparare, tra le altre cose, le regole della società democratica, ma succede davvero? Temo di no, purtroppo. Anzi, il modello che la scuola in genere rimanda ai ragazzi è quello dispotico: sono gli adulti che decidono per te, tu devi solo eseguire, sei troppo giovane per decidere, troppo giovane per prendere la parola.

A quel punto la parola provano a prendersela da soli, talvolta finendo nei guai.

Ecco perché uno dei miei pallini fissi è quello di formare cittadini consapevoli che quando saranno fuori dalla scuola sapranno di essere un tassello importante della società e che anche il loro contributo, pur se piccolo, può fare la differenza.

 

Nel mio istituto le classi terze sono classi ex novo, si formano cioè in seguito alle scelte fatte dai ragazzi, in merito all’indirizzo (cucina, sala bar, pasticceria, accoglienza turistica) alla fine del biennio.

Ho già sottolineato quanto sia prioritaria per me la qualità delle relazioni all’interno del contesto scolastico, che non si limitano solo alla dinamica docente-studente, ma abbracciano anche il rapporto tra pari, ossia tra gli studenti stessi, e tra colleghi. Credo fermamente che sia essenziale promuovere un clima di collaborazione tra i membri del consiglio di classe, anche se non sempre questo avviene, dato che possono emergere punti di vista divergenti riguardo all’istruzione e all’educazione dei ragazzi. Questo può aumentare il rischio di conflitti e, cosa ancor più importante, c’è il pericolo di apparire agli occhi degli studenti come figure contraddittorie: “parlano di collaborazione, di rispetto, ma poi loro stessi…”

 

Dai primi giorni di scuola con la classe terza, che si è formata quest’anno dall’unione di ragazzi di tre seconde che hanno scelto di diventare cuochi e cuoche, stiamo lavorando alla “costruzione di una comunità”. Abbiamo iniziato innanzitutto riflettendo sul concetto di “comunità”: cosa significa stare insieme, vivere, condividere spazi, esperienze ecc.

Dopodiché abbiamo letto l’albo illustrato Un seme di carota di Ruth Krauss-Crockett Johnson, abbiamo condiviso riflessioni, negoziato un significato, condiviso storie sulla determinazione, la tenacia, anche quando gli altri non credono che una cosa possa accadere.

 

Alla fine, ho chiesto loro come le riflessioni fatte potessero contribuire al nostro obiettivo di creare una comunità: bisogna impegnarsi, bisogna avere pazienza, bisogna crederci. Da questa discussione è emerso un cartellone con numerosi post-it, ognuno dei quali rappresentava un impegno personale per contribuire alla crescita della comunità: c’è chi ha seminato l’impegno, chi il rispetto, chi  l’ascolto, chi la fiducia, solo per citarne alcuni.

Qualche giorno dopo lo svolgimento di questa attività, si è verificato però uno spiacevole episodio proprio all’interno di quella classe. Dentro di me ho esclamato ironicamente: “Wow, sembra che l’attività abbia davvero sortito un grande effetto!”.

 

Ma ho ormai un po’ di anni di esperienza e so che non basta un’attività affinché le cose vadano in una certa direzione. Ci vogliono impegno, pazienza, costanza, come dicono i miei studenti, bisogna prendersi cura giorno per giorno di ciò che si è seminato.

Quindi, alcuni giorni dopo l’incidente, ho portato in classe il libro Errore di V. Roghi e Tostoini. Ho mostrato loro la copertina e da lì è scaturito un vivace scambio di idee. Ho trascritto sulla lavagna tutte le loro considerazioni sull’errore. Successivamente, ho letto ad alta voce l’albo, un breve saggio sull’importanza dell’errore. Ho diviso la classe in gruppi e ho distribuito un foglio bianco a ciascun gruppo, chiedendo di avviare una discussione sul contenuto del libro. Allo scadere del tempo ogni gruppo ha relazionato alla classe le proprie riflessioni che sono state riassunte con una mappa sul foglio bianco: l’errore serve a migliorare, l’errore è umano, è un errore serbare rancore, è un errore non assumersi le proprie responsabilità, è un errore mancare di rispetto, è importante imparare ad affrontare i propri errori ecc.

 

La 3ª è una classe composta da alcuni alunni che ho avuto al biennio e altri ragazzi di altre classi seconde che non hanno mai lavorato prima con il laboratorio di scrittura secondo la metodologia del wrw, quindi con loro è stato un ricominciare daccapo. Per fortuna non sono sola poiché ho scoperto di avere validi aiutanti, i miei studenti del biennio, che si fanno carico dei compagni in difficoltà, aiutandoli e spiegando loro come funziona il laboratorio.

Ho deciso di iniziare dalla scrittura di un testo breve. Questa la consegna: Immagina di essere insieme ai tuoi compagni amministratore di una pagina social che pubblica contenuti per ragazzi della vostra età. Avete deciso che ogni volta che c’è da pubblicare un contenuto ognuno di voi scrive un testo e poi tutti insieme scegliete quelli più efficaci che verranno pubblicati sulla vostra pagina.

 

Abbiamo cominciato da circa una settimana e da quello che ho potuto intravedere gli argomenti sono: la noia a scuola; non è opportuno usare i voti come punizioni; il pericolo di fidanzarsi con un ragazzo prepotente e violento; l’importanza dello sport ecc.

Durante il momento della scrittura individuale ho notato che non sanno gestire l’autonomia, tendono a parlare ad alta voce disturbando gli altri, qualcuno tira fuori il cellulare, qualcuno tende a vagare per l’aula per chiacchierare ora con un compagno ora con un altro. E io che ce la metto tutta, o almeno così pensavo, l’altro giorno ho perso la pazienza e fatto quello che non vorrei mai fare: ho dato le direttive con tono autoritario.

 

Tornata a casa ho rimuginato a lungo sull’accaduto: perché fanno così? Perché, nonostante io gli abbia spiegato fin dall’inizio dell’anno che è mia intenzione lasciarli crescere e per farlo c’è bisogno che abbiano voce e che abbiano ampi spazi di autonomia, loro continuano a non contenersi?

Sono giunta a queste conclusioni: innanzitutto ho capito che sono io a non esser pronta a lasciarli fare, sono io che ho ancora paura di perdere il controllo. Un’altra cosa che mi è balenata in testa è che non ho mai condiviso con loro le mie vere intenzioni, le ho solo accennate, non sono mai scesa nei dettagli, non li ho davvero coinvolti.

Quindi mi sono preparata e qualche giorno dopo ho mostrato loro alcuni spezzoni tratti da questo video, Una giornata nella scuola di Mario Lodi . La discussione che ne è venuta fuori mi ha dato conferma che la strada è quella giusta. M. alla fine mi ha detto: “Prof, ho capito perché lei vuole fare con noi come Mario Lodi: lei vuole che noi stiamo bene a scuola.”

Gli ho risposto che voglio anche che loro stiano bene a scuola soprattutto però voglio che imparino che cos’è la democrazia, praticandola, e voglio che capiscano che collaborare, prendersi cura di sé e degli altri rende tutto e tutti migliori.

 

Per la lezione successiva ho preparato questa minilezione:

 

Nell’ultima lezione abbiamo guardato un filmato in cui si raccontava una giornata tipica nella scuola di Mario Lodi. Dopo il video abbiamo condiviso delle riflessioni: qualcuno di voi è rimasto molto colpito dal fatto che i bambini fossero molto coinvolti, che intervenissero di continuo, che avessero voce. Abbiamo visto come funziona una scuola democratica.

Guardiamo ora alcuni spezzoni tratti da questo  video  “Une école primaire applique la pédagogie Freinet. Dopo discuteremo insieme di ciò che vi ha colpito e potrete fare domande se ne avrete.

[Ho scelto le parti in cui la classe lavora alla scrittura autonomamente. L’idea è che se non lo sanno fare forse è bene mostrargli come si può fare, ho utilizzato quindi il video come si usano i mentor text nel laboratorio di scrittura.

Nel momento della condivisione è emerso che ciò che li ha colpiti è stato che i bambini bisbigliano per non dare fastidio agli altri, che collaborano tra di loro e che la maestra è in disparte in un angolo e interviene poco.]

Ora vi chiedo di provare a ricreare tutti insieme lo stesso clima che abbiamo visto nel video, che voi stessi  avete definito di collaborazione e rispetto, nella sessione odierna del laboratorio di scrittura, in particolare durante la scrittura individuale.

Io farò la mia parte, mi impegnerò a stare in disparte, ad essere una presenza discreta e a intervenire solo se necessario.

 

Per essere la prima volta che sperimentavano “la classe Freinet” devo dire che se la sono cavata egregiamente, hanno lavorato quasi tutti in silenzio e anche chi era distratto da altro perché la giornata era cominciata male, per motivi che esulano dalla scuola, ha fatto in modo che questo non si ripercuotesse sui compagni, come accade di solito, ma ha gestito la cosa con discrezione. Alla fine quando ho chiesto loro di rispondere alle seguenti domande:

 

Come valuti questa esperienza?

Come valuti il tuo atteggiamento?

Come valuti l’atteggiamento della prof?

 

Qualcuno ha chiesto scusa perché “ho bisbigliato troppo di cose di cui avrei potuto fare a meno e temo di aver infastidito i compagni”.

Io invece mi sono portata a casa i complimenti perché sono intervenuta solo una volta, per il resto mi sono limitata a dare aiuto a chi me lo ha chiesto.

Nel nostro Laboratorio di lettura, abbiamo appena iniziato a leggere ad alta voce Jhon della notte di Gary Paulsen, un romanzo che affronta il tema della schiavitù, ma sottolinea anche l’importanza di lottare per migliorare non solo la propria condizione, ma anche quella degli altri. Anche la lettura ci offre l’opportunità per crescere come comunità, condividendo riflessioni e negoziando significato.

 

Questo è solo l’inizio, adesso dobbiamo prenderci cura di quanto seminato, sperando di non perdere la determinazione. Dovremmo fare proprio come il bimbo protagonista del libro Un seme di carota, e cioè non perdere la speranza che alla fine qualcosa nascerà.

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