di Jacopo Lorenzini

 

Nel 1936 lo scrittore tedesco Frank Thiess dà alle stampe un libro destinato ad una duratura fortuna editoriale. Si intitola Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. Nelle pagine della sua opera (un romanzo basato su fonti storiche rigorose, prototipo di un genere che proprio oggi conosce una rigogliosa fioritura) Thiess narra della disastrosa spedizione della Flotta russa del Baltico attorno al Capo di Buona Speranza per andare a combattere la flotta giapponese nelle acque dello Stretto di Corea: una spedizione conclusasi con la disfatta di Tsushima, appunto, e con l’umiliazione dell’Impero zarista nella guerra russo-giapponese del 1905.

 

Ma Thiess trasforma la storia di quello che è stato senza dubbio un disastro politico e militare, in una narrazione epica. Una narrazione che conosce solo eroi, sia tra i marinai russi che tra quelli giapponesi, tutti egualmente degni di rappresentare «il più puro spirito militare». Tutti tranne uno: il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov.

Nebogatov è il comandante del terzo squadrone della flotta russa. Il suo contingente è composto da quattro vecchie corazzate, tre delle quali sono unità adatte a malapena per la difesa costiera. Sono navi tecnicamente superate, che lo stesso comandante in capo Rozhestvenskiy considera d’impaccio per il resto della flotta. Durante la battaglia di Tsushima lo squadrone di Nebogatov viene sostanzialmente ignorato dagli ammiragli giapponesi, che condividono la valutazione del collega russo e che lo lasciano da parte, concentrandosi piuttosto sulla distruzione delle più moderne corazzate avversarie.

 

All’alba del giorno dopo, essendo il più alto in grado tra i comandanti zaristi superstiti, Nebogatov si trova a dover prendere una difficile decisione: continuare il combattimento, quattro vecchie carrette contro l’intera flotta giapponese, condannando i suoi uomini a morte certa; oppure arrendersi, guadagnandosi la corte marziale ma salvando le loro vite. Contro il parere dei suoi ufficiali, il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov decide di arrendersi.

Frank Thiess condanna senza appello la scelta di Nebogatov. «Nei momenti più importanti» il contrammiraglio russo non pensa «all’onore della bandiera, ma alla vita di tutti quei ragazzi che erano sotto di lui», il che secondo Thiess denota un «atteggiamento per nulla militare». Nebogatov intende «il concetto di dovere in una forma unicamente umana» e «disprezza il governo che lo manda a combattere». Quando decide di arrendersi «prende la colpa su di sé, come un personaggio di Dostoevskij», ma mesi dopo «durante il processo intentato contro di lui» sostiene invece le ragioni della propria scelta «con un tono declamatorio misto a consapevolezza, sagacia e commozione, mostrandosi destro ed efficace, ma nello stesso tempo in contrasto con ogni virtù militare». Thiess ce l’ha davvero a morte con questo militare che si sottrae all’imperio dell’onore in nome del ragionamento, e che difende la propria scelta con argomenti razionali. Lo detesta a tal punto da dedicargli anche una lunga, sprezzante nota a pié di pagina:

 

Evidentemente, Nebogatov non si rese mai conto che ogni battaglia rappresenta un mondo in sé conchiuso, governato da proprie leggi e inserito in un sistema cosmico, che non si può forzare con moralismi provenienti da un altro sistema. Naturalmente, dover uccidere è orribile, ogni guerra è una ricaduta nel pre-umano e contrario alla ragione morire su posizioni perdute; ma tutte queste considerazioni valgono soltanto fuori dell’ambito spietato e crudele creato dalla guerra e le cui leggi costringono il soldato a compiere azioni, che hanno significato perché non le compie per sé, ma per l’onore della bandiera, simbolo di un ordine più alto. Nebogatov non credeva a questo ordine più alto.[1]

 

Di mestiere faccio lo storico delle istituzioni, e più nello specifico mi occupo di istituzioni militari, che dello Stato moderno sono state sia busto e scudo, che frusta e randello. Dato il mio campo di ricerca mi sono imbattuto molte volte in militari simili a quelli idealizzati da Thiess, ma anche in altri che condividevano la mentalità razionale e umanadi Nebogatov. Allo stesso modo ho avuto modo di leggere i lavori di storici della guerra che hanno appreso e applicato gli insegnamenti del loro decano Hans Delbrück, che giovane volontario nell’esercito prussiano del 1870 aveva toccato con mano l’orrore e l’intrinseca incontrollabilità del fenomeno-guerra. E ne ho letti altri, scritti invece da storici che sembrano nutrire una brama di sangue (altrui) più simile a quella rivendicata da Thiess. Mi sembra che nel tempo le voci di questi ultimi si siano fatte più potenti, più pervasive.

 

Le parole che Thiess usava per descrivere Nebogatov nel 1936, mentre la Germania nazista attuava le Leggi di Norimberga, rimbombano oggi nella narrazione dei conflitti contemporanei. Non solo nel dibattito pubblico, invaso da esaltati ultras dell’una e dell’altra parte, ma anche in quello professionale. In un articolo comparso pochi giorni fa su un quotidiano nazionale, storiche e storici contemporaneisti sono stati sostanzialmente accusati di fiancheggiare il terrorismo per il solo fatto di aver problematizzato storicamente quanto sta avvenendo in Medio Oriente, e lo sono stati sulla base di una segnalazione partita dall’interno di una società professionale alla quale anch’io appartengo[2]. Ma al di là del caso specifico, che lascia il tempo che trova, quella che emerge è la rappresentazione plastica un clima culturale avvelenato. Dopo il febbraio del 2022, e ancora più dopo il 7 ottobre di quest’anno ho letto e sentito colleghe e colleghi fare affermazioni che sarebbero tacciate come eccessive, o come stupide e indecenti tout court, anche in quel luogo comune della contemporaneità che è il bar di paese.

 

Tanto nel dibattito pubblico quanto in quello storiografico dilaga un approccio geopolitico alla Storia e alla lettura del presente che si vorrebbe intelligente e realista, ma che nasconde invece il ritorno rampante di un vecchio arnese: la concezione biologica dello Stato e dei rapporti tra stati, popoli, nazioni. L’approccio geopolitico disquisisce senza ombra di imbarazzo di terre promesse o ancestrali, sante o irredente, confini naturali, spazi vitali. Tratta stati, alleanze e imperi come soggetti umanizzati, dotati di volontà di potenza, di esigenze vitali, di necessità biologiche. Soggetti che non sono caratterizzati da alcuna visione del futuro diversa da quella garantita dal proprio bruto prevalere su altrettanto bruti avversari. Non idee, e nemmeno ideologie, non orizzonti di sogno e immaginazione, ma la sola ragione delle armi. Blut und Eisen, il sangue e ferro di bismarckiana memoria come unica fede, unico metodo, unico fine. Stati e imperi come espressione di un ordine superiore e giustificato in sé stesso: lo stesso ordine che il contrammiraglio Nebogatov, negandogli la propria fede, il proprio abbandono, si rifiutava di onorare col sacrificio dei suoi marinai.

 

In gran parte dei commenti e delle analisi che vengono proposte sulla stampa, negli studi televisivi, sui social, ma anche in pubblicazioni che dovrebbero garantire ben altri livelli di meditazione e analisi, emergono prepotenti un odio viscerale e un cieco disprezzo per alcuni degli attori che calcano il palcoscenico del presente, e della Storia. Odio e disprezzo che non servono assolutamente a nulla, se non ad alimentare la spirale di violenza nella quale sembra precipitare ogni giorno di più il nostro tempo, e che squalificano radicalmente lo storico dal punto di vista della sua autorevolezza professionale. Odio e disprezzo che sono spesso accompagnati da ciniche squalifiche delle convenzioni del diritto internazionale e umanitario, e in generale di qualsiasi posizione altra, specie se basata sui principi del dialogo e del confronto. E varrebbe la pena di ricordare che senza dialettica delle interpretazioni e senza confronto tra fonti diverse, non solo non è possibile comprendere la propria contemporaneità, ma non è nemmeno possibile fare della buona Storia.

 

Per fare della buona Storia occorre invece comprendere, e comprendere a maggior ragione tutto ciò che ad un primo sguardo appare inaccettabile, e persino indicibile.

Gli Uomini comuni, ad esempio, i padri di famiglia impegnati nello sterminio degli ebrei nella Polonia del 1941[3], e tutte le persone che come loro sembrano lontane anni luce dai nostri standard morali ed etici, e che tuttavia brulicano nella storia millenaria del genere umano.

Ma anche i terroristi di Hamas, i pasdaran iraniani, i contractors della Wagner, gli attori politici, culturali e militari appartenenti allo schieramento BRICS, o alle miriadi di regimi non liberali che costellano la mappa politica del globo. In breve, tutti coloro che l’Occidente contemporaneo ha eletto a rappresentanti del «male assoluto», una locuzione sempre più sfibrata dall’abuso retorico che se ne fa.

 

Per comprendere qualcosa, umanamente come storicamente, non serve a nulla nutrire senso di superiorità culturale, tecnica o etico-morale, o affannarsi con la bava alla bocca in difesa di posizioni preconcette. Servono invece lucidità e metodo, rigore e onestà intellettuale, umana pietas ed empatia.

Queste ultime d’altra parte non possono spingersi fino a giustificare le peggiori pulsioni delle quali l’essere umano ha dato ampio saggio nel corso della sua storia, e che continua a spargere a piene mani nella nostra contemporaneità.

 

Provare orrore per il settantennale calvario di una popolazione scacciata dalle terre sulle quali viveva non esime dal cercare di comprendere le ragioni e le responsabilità vicine e lontane degli eventi che quel calvario hanno determinato, e soprattutto non giustifica l’indiscriminato massacro di coloro che oggi abitano una parte di quelle terre.

Provare orrore per la strage del 7 ottobre non esime dal cercare di comprenderne le ragioni e le responsabilità vicine e lontane, e soprattutto non giustifica la tortura e il massacro di un’intera popolazione alla quale è scientemente impedita qualsiasi via di scampo, in totale spregio del diritto internazionale e dello stesso diritto di guerra.

 

Nulla, né l’orrore né la rabbia, e certamente non il realismo geopolitico, può giustificare i doppi, tripli standard applicati costantemente e senza remore da leader politici, operatori dei media e rispettati accademici, quando si tratta di rafforzare le ragioni dei «nostri» e di abbattere quelle dei «loro» di turno.

La narrazione binaria ed embedded che sta degradando, oltre al dibattito pubblico sulla guerra, anche la sensibilità storiografica di questo paese e dell’Occidente intero, sta portando a considerare delle semplici banalità – questo sono le tre frasi precedenti – come inaccettabili tradimenti, indicibili eresie.

 

Occorre schierarsi, intimano gli ultras dallo stanco schermo televisivo, e da quello baluginante dello smartphone. Credo che abbiano ragione, che sia ormai necessario e non più rimandabile. Schierarsi come esseri umani e come cittadini. Schierarsi come storici di mestiere, e dunque come esponenti, volenti o nolenti e seppure in millesimo, della cultura politica e giuridica occidentale, o di quel che ne resta.

Ebbene l’unica scelta che mi appare giusta e dignitosa è quella di continuare a cercare di comprendere. Rifuggire le scorciatoie e gli inganni della geopolitica e le lusinghe dell’odio per il «nemico», rivendicando quel metodo storico che è anche metodo di critica del reale. È la scelta di restare umani, di schierarsi dalla parte di Nebogatov.

 

[1] Frank Thiess, Tsushima. Il romanzo di una guerra navale, Einaudi, Torino 1966, pp. 292-293.

[2] G. De Rosa, Condannare Hamas? Ecco l’ambiguità degli storici italiani, «Libero Quotidiano», 18 ottobre 2023.

[3] Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino 2022.

2 thoughts on “Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra

  1. bisogna schierarsi=cercare di comprendere=ricorrendo al metodo storico=metodo di critica del reale… Se almeno servisse a bloccare quelli schierati altrimenti, che si ammazzano! Io mi sento solo depressa spettatrice.

  2. Molto vero, ma essere più realista del re è la tipica posizione di chi teme di perdere il favore del re. Re =NATO. Facile, anche troppo.

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